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venerdì 12 giugno 2009

Tra Federer, Sampras e Borg, spunta McEnroe



Quotidianamente spuntano come funghi campestri e velenosissimi, sondaggi e statistiche su chi sia il più grande tennista di tutti i tempi. Ebbene, uno di questi, all'alba di un anno fa, diede un risultato sorprendente. Il più grande di tutti i tempi è il signor John McEnroe, al secolo Supermac. Arzillo cinquantenne ancora sulla breccia e sui campi, il braccio sinistro di Gesù, sceso direttamente dal cielo. Qualcuno, ovviamente, ha storto il naso. Come può, chi ha vinto la metà degli slam di Sampras e Federer, essere considerato il più grande? A quale titolo, uno che ha chiuso con record negativi nei confronti di parecchi tennisti della sua epoca, dichiarato il più grande? La risposta è evidente, e l'errore sta nella stessa accezione, di “grande”. Il sondaggio non era riferito al più forte o vincente, ma semplicemente al più grande, liberamente interpretabile. Se a qualcuno chiedi di abbinare la parola tennis a qualcosa o qualcuno, la prima che salta in mente è McEnroe. Bastasse il conteggio statistico dei successi, e non me ne voglia un maestro come Rino Tommasi, non ci sarebbe bisogno nemmeno del sondaggio. Sarebbe stato sufficiente la semplice e fredda somma algebrica.
La realtà è che lo spettatore medio, tra cui coloro che risposero al sondaggio, ha bisogno di qualcosa che trascenda la semplice vittoria, il cumulo dei successi. Vuole la miccia che faccia esplordere la passione. S'identifica nel tormento dello sportivo, riesce a vivere le sue stesse emozioni. E' la stessa ragione per cui ho preferito Pantani a Indurain, l'omino romagnolo dallo sorriso triste, che scalava, cadeva, si frantumava una gamba, risaliva in sella e staccava nuovamente tutti appena la strada prendeva a salire. Poi ricadeva, e l'altro andava come una insensibile e brutale locomotiva, verso il podio della vittoria. Il fascino che diventa leggenda, non può non essere bagnato da qualcosa di fragile e quasi mistico. Il campione geniale che esibisce la sua debolezza. Ha coraggio e vince, ma riesce a rimanere vittima del suo stesso talento e di una fragilità mentale, che lo porta a cadere. Come gli uomini.
Le epiche vicende di Nuvolari stuzzicano più del campione Fangio, la folle irrazionalità di Gilles, il piccolo aviatore col destino segnato in occhi malinconici, emoziona più dei tanti professori vincenti come Lauda o Prost, e che ancora adesso non si può non amare più di Shumacher. E pazienza se uno avesse vinto una manciata di Gran Premi, e l'altro (più di) una manciata di titoli mondiali. Allo stesso modo il suo emulo a due ruote, Barry Sheene. Altro campione di coraggio che rasenta il sottile confine della pazzia, leggenda senza tempo, più di chi vinceva titoli in sequenza. Un germe insano di talento e sprezzante temerarietà, che ce li ha fatti amare. Come il fascino dannato di George Best, che a sprazzi dimostra di essere il più forte di sempre con un pallone tra i piedi, poi distrugge il suo talento con alcool e donne, perché semplicemente non gli interessa doverlo provare. “Non avessi avuto questa faccia, nessuno avrebbe parlato di Pelè”, la celebre dichiarazione, che dipinge la sua storia in modo sublime.
E poi di esempi ce ne sarebbero tanti, tutti “più grandi”, ma non migliori o più vincenti. Il tennis non sfugge a questa regola. Si rimane colpiti dalla rocciosa resistenza, fisica e mentale di Bjorn Borg, vero e proprio inumano computer da tennis. Ammirati da un dritto in corsa futurista ed al fulmicotone di Pete Sampras, dall'algida eleganza densa di talento di Roger Federer. Superiore, inarrivabile e divina come Wanda Osiris. Di fronte ad un loro colpo ci si alza in piedi, si balza sulla seggiola. Non ammettere la grandezza della resisteza psicofisica di un Nadal, o la meraviglia del tennis immacolato, in smoking bianco di Federer, sarebbe pura cecità tennistica, o partigiano odio gratuito. Si rimane sbalorditi da record di vittorie in sequenza. Ma a loro manca sempre qualcosa per eccitare l'inconscio masochista dello spettatore, forsennato veneratore del bello dissennato. Per smuovere il torpore di un glaciale cannibalismo. Fin troppo scontato per essere avvolto da un alone di leggenda. Non trasmettono quell'emozione che monta dalle viscere, e che non può placarsi o spiegarsi solo con una coppa alzata. L'odio/amore ed il piacere dell'imprevedibile, che mi ha calamitato davanti allo schermo per assistere alla scellerata tragicommedia di Safin sconfitto da Ouanna, più che per il divino Roger che tramortiva Soderling e abbatteva l'ennesimo record.
Ed ecco che per quegli svitati come me, nella selva di brutali forsennati o inumani danzatori, emerge il vecchio John McEnroe. Un ricamo, come un sorpasso che ti toglie il fiato, o uno scatto sul mont ventoux, che valgono più di uno slam, un mondiale vinto o un Tour de France. Una stop volley delicata, come due giri folli percorsi su di un cerchione senza gomma o una fuga epica tra due ali di folla, che emozionano più di record, immensi e glaciali come l'Everest.
Superbrat, MacGenius, o semplicemente Supermac. Detestato ed adorato con la stessa forza virulenta, maleducato, sbruffone, genio assoluto, giovane fenomeno con riccioli ribelli e rossicci o vecchio pirata dai capelli grigi e stempiati, poco cambia. Poeta e pittore di tennis irrazionale, guascone e mascalzone da strada. Tocchi fatati, braccio divino sceso in terra a scrivere parabole melodiose, che strepita, e tra uno smoccolo e l'altro ricama pizzicando le corde, con irridente genialità. Uno che pure è stato per quattro anni al numero uno. Supermac che sul centrale del Roland Garros tramortisce per due set e mezzo quell'automa imbalsamato che rispondeva al nome di Ivan Lendl, giocando il più bel tennis di sempre. Poi si suicida e perde al quinto. Uno che si annoia, cade, riprende quando ormai è troppo tardi, e la sua mente problematica non è più adeguata per il nuovo tennis. Affronta con ostinazione il cambio di materiali, altre due generazioni tennistiche, e sbatte contro il tir della nouvelle vague di giovani picchiatori insensibili. La parabola fascinosa, che lo vede da irriverente ragazzo prodigio a vecchio pirata, non s'arrende alle volgarità del tempo. Ed è ancora lì, che urla e dipinge nei tornei per veterani, e riempie palazzetti. E grazie ad un genio che non invecchia, annienta gli stessi muscolari di una volta, oramai sgonfiati. Gioca e vince un torneo di doppio a 47anni, John McEnroe. Semplicemente immortale. Il più “grande”, ma non il più forte. Semplice. Potenza di una statistica da interpretare.

3 commenti:

  1. mcenroe 1984 imbattibile

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  2. Risposte
    1. Hai perfettamente ragione. Errore imperdonabile. Se giri per tutti i post, di errori, distrazioni e refusi, ne troverai 56784567832. Non ti rabbuiare.
      Se vuoi ti assumo come correttore automatico.
      A progetto. Ciao.
      (P.s. che chi corregga grammatica e refusi non scopi dal 1957 è solo un detto. Ma si va molto vicini alla realtà).

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.