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giovedì 3 settembre 2009

US Open - terza giornata - Marat se ne va di corsa: “Nessun rimpianto”



Una terza giornata che avrebbe potuto progettare, scrivere e commemorare un poeta svitato, che prima si strugge, si tormenta e poi ride. Poemetti malinconici e dell'assurdo, come filosofico e nobile concetto, che racconta un niente di immensa ed abbagliante bellezza irrazionale.
Le ultime svogliate gesta di un tennista per caso. Marat Safin, all'ultimo atto in un torneo dello slam. Non avrebbe potuto scegliere palcoscenico migliore per chiudere il cerchio, il luogo in cui la sua stella aveva cominciato a brillare, quasi due lustri fa. Per poi spegnersi e riaccendersi di una luce virulenta e accecante, in un'isterica intermittenza. Si ritrova di fronte il mancino austriaco Jurgen Melzer. Il russo pare intenzionato ad onorare alla grande l'impegno. Comincia in versione lussuosa, scintillante, riluce magnificamente, come in tempi nemmeno troppo lontani. E' un cazzotto alla bocca dello stomaco che ti paralizza. Servizi devastanti, rovesci a spazzolare via angoli, dirittoni di controbalzo, passanti e risposte che lo sventurato austriaco non fa nemmeno in tempo a vedere. Lampi di virulenza e classe cristallina. L'illusionista austriaco, esperto in giochi delle tre biglie senza biglie, si avvia ad accompagnare inerme, l'ultima poesia del russo. Marat vince il primo 6-1, e continua nello spettacolo di straripante bellezza anche ad inizio del secondo. Signori miei, quello che si esibisce sul Louis Armstrong è parente vicinissimo del giovane e sfrontato guascone che nove anni prima a New York aveva demolito Sampras in finale, e in tempi più recenti mandò al manicomio per cinque ore Federer a Melbourne. E al neurodeliri avrebbe potuto farlo rimanere per anni, altro che volgari “nadaliti” arrotanti... Se solo avesse rinunciato alla vita, il suo particolare modo di intenderla. C'è sempre un “se” di troppo, quando si parla di Marat.
Ma sarebbe troppo scontato, e forse banale, chiudere con una virgulta dimostrazione di quello che avrebbe potuto essere. Buona per i tifosi, non certo per lui, che ha tutta l'aria di fregarsene. Succede che comincia a mettere meno prime, eccolo il segnale. Poi un passante di rovescio in rete col campo aperto, una smorzata che si spegne a metà rete. Ora ci siamo. Perde il secondo set, va sotto anche nel terzo. Solo il tempo per un urlo che risuonerà inumano lungo il ponte di Brooklyn, poi l'ultima passerella scorre via veloce. Nemmeno la parvenza di una resistenza, un disperato e scenico tentativo. Il pubblico freme, lo incita, ma lui ha l'aria svogliata, rassegnata. Sbraita, impreca, ciondola il testone, ma è solo scena. L'istrione ha voglia che lo spettacolo finisca alla svelta, fa tutto in fretta. Lo vedi da quell'espressione ansiosa. Mica di vincere, ma di porre fine ad una specie di tormento. Il tarlo di dover giocare a tennis, prendere aerei, vincere partite. Perde il terzo set, e va sotto anche nel quarto. Mancherebbe la solita sfuriata con l'arbitro, ma non ne ha voglia. E' il segnale che a combattere ancora, proprio non ci pensa. In questi casi potrebbe essere l'avversario a dare una mano al campione. Ma Melzer, al solito incostante ed estemporaneo da far venire l'orticaria, non sbaglia niente. Anticipi violenti, volée acrobatiche che nemmeno lui sa come ha progettato. Va via veloce Marat, come avesse un impegno per qualcosa di più importante. Il russo mantiene la solita espressione, a metà tra l'avvilito e lo scalpitante. Non vede l'ora di mettersi dietro le spalle qualcosa, e di cominciarne un'altra.
Vengono alla mente alcune sue frasi entrate nella mitologia: “Non mi piace il calcio. Non giocherei a hockey. Odio il basket. Non guardo mai il tennis. Non mi piace lo sport in Tv. È buffo, sono un tennista professionista, ma non mi piace la competizione.”. E forse non ha amato nemmeno il tennis fatto coi punteggi, le gare lo hanno logorato. Semplicemente perché non era un cannibale da vittoria, non era Sampras e nemmeno Federer. Non aveva la testa per andare dietro a volgari e gelide vittorie in fila. Non sarebbe stato Marat, altrimenti. Si è lasciato annientare dalla competizione, combattendola con sfuriate irrazionali, trasportato e inerme, invece che esaltarsi con essa. E ora non vede l'ora di liberarsi di quel tarlo, come un ragazzo all'ultimo giorno di scuola. Ed ecco il momento, “the moment”, come dicono gli americani in piena enfasi. Sul 5-4, l'austriaco va a servire per il match, ed ha la faccia da totano panato che vuole fare il cattivo. Due risposte buttate via con ferocia, fanno risalire il russo sul 30-30. Basta così poco per eccitare il pubblico sciocco. Lui quasi si dispiace di aver allungato l'agonia. Chiude con un rovescio a metà rete, il suo colpo migliore, sbagliato. La sintesi di una carriera, racchiusa lì. Il colpo migliore malinconicamente a metà rete, scagliato via, a simboleggiare una liberazione finale. Pare l'ennesima guasconeria, con un folle e ben preciso progetto nella mente. Che si sia divertito a volerci sbattere in faccia qualcosa di simile: “Bene, vi ho fatto vedere per un set di cosa sono capace, e quello che avrei potuto fare. Accontentatevi, gli altri tre avevo un impegno.”. In linea con l'intera carriera. Infila tutto velocemente nel borsone, e fila via veloce, quasi imbarazzato, senza nemmeno voler prolungare la standing ovation che Flushing Meadows non vedeva l'ora di riservargli.
Stamattina leggevo l'Equipe. Leggo sempre l'Equipe. Fa tanto Radical chic, e comunque scrivono tanto e bene di tennis. Scorgo stralci delle dichiarazioni di Marat, istrione impareggiabile ai microfoni. Ed ho avuto inconfondibili conferme. “Non vedo l'ora di cominciare la mia seconda vita”. Traduce con parole, le ultime ansiose prestazioni sul campo, impaziente di porre fine al teatrino oramai detestato. “Farò qualcosa di completamente diverso”. Chiosa in modo deciso sul ritiro: “E' semplicemente abbastanza”. Per poi passare ad una ultima stilettata d'autore. A chi gli riportava una frase di Djokovic (in vena di fare battute patetiche, a cui ride solo lui digrignando l'orrida scucchia), e che grosso modo recitava: “Magari adesso Safin andrà a scalare le montagne in sudamerica”, Marat non le manda a dire, ad un simile, insignificante, personaggio: “Sarebbe meglio che si preoccupasse del suo tennis, invece che della mia vita.”. L'ultimo graffio del carismatico campione, verso un tennista mediocre, ed uno showman da vera, umana pietà. Chiude i discorsi sul rimpianto, e il solito ritornello di una carriera che poteva essere diversa. Categoricamente, senza pensarci. “Nessun rimpianto”. Quelli al limite, potranno averceli i tifosi, ma dura solo qualche minuto. Poi pensi che lui è felice, e puoi solo essere contento per lui. Buona vita, irrazionale campione.

Il piccolo mago che si prese burle del mondo. Non riesce l'ultima magia a Fabrice Santoro. Quasi a seguito di un disegno divino, dice basta nello stesso giorno di Marat. Due personaggi diversissimi, ma tremendamente carismatici e divertenti, con modalità opposte. Il 37enne maghetto prova invano a tirare fuori dal cappello gli ultimi trucchi e parrucchi, qualche ricamo quadrumane, un coniglio, l'ennesima burla irridente. Ma si arrende in tre set allo spagnolo Ferrero. A testimoniare la differenza con Safin, il piccolo francese palesa una grande malinconia, per qualcosa che finisce. Rimpianti concreti per una partita che poteva giocare meglio. Cita come ricordo più bello, le tre ore e mezza di battaglia con Federer, quattro anni prima a New York. “Perchè diedi tutto, giocando al mio meglio per ore, e non bastò.”. Eccolo lì “the magicien”, anche lui, in fondo, nessun rimpianto. Ma solo perchè ha fatto qualcosa di immenso, e più non poteva. E nessuno si sognava di chiederglielo. Con un fisico da fantino, s'è inventato un tennis irripetibile, riuscendo a stare ai vertici, infastidire colossi disumani con i suoi trucchetti, divertendo chi guardava. E mancherà anche lui, tremendamente.

I tormenti del giovin Richard. Se due grandi vecchi se ne vanno, un giovane potenziale campione, si strugge. Richard Gasquet rientrava dopo tre mesi. Nei giorni scorsi nutrivo una malcelata speranza, derivante da una considerazione semplicissima, fin troppo banale: Non ha nulla da perdere, nessuno gli chiede di vincere contro Nadal. Vuoi vedere che stavolta non penserà e lascerà andare il braccio, regalandoci una partita divertente? Paradossalmente più semplice da affrontare Nadal, che il numero 100 al mondo. Poi leggo una sua intervista: “Questi tre mesi mi hanno distrutto più di quattro anni giocati al massimo. Sono già felice di essere qui.”. E le speranze che svaniscono di colpo. Il ragazzo col braccio divino, tormentato, quasi sconfitto in partenza da vicende extra tennistiche. Il maiorchino è quello di sempre, se ha la bua alle ginocchia, la maschera bene. Corre, frulla e tira a testa bassa. Richard corricchia, sbaglia molto. Qualche dritto fluettato, un rovescio melodioso ogni tanto. Delle fiammelle fatue, violentate dal tornado rotante iberico. Uno spettacolo crudele, che abbandono qualche games prima dell'epilogo: 6-2 6-2 6-3. Come il numero novanta al mondo, che perde sorridendo, perchè il peggio è passato. L'affaire cocaina pare aver minato definitivamente una stella già in disarmo. Se non è un addio, ci manca poco.

Danzando su stelle immaginarie. In definitiva, una disfatta atroce. Tre sconfitte senza appello, per i miei destrieri. Per quello che per loro e per me, può significare la vittoria. Una caporetto (quasi) in stile italtennis maschile. Ma a salvarmi, rimane l'ultimo fascinoso incontro: Petzschner-Stakhovsky. Comunque vada, avrò vinto e perso. Sono entrambi a pieno titolo nella mia scuderia di ram-polli. Certo, potrebbe anche accadere che i due si prendano a braccetto, ritirandosi all'unisono, per poi andare a caccia di farfalle sul fiume Hudson. Ipotesi non del tutto remota, guardandoli qualche secondo in faccia. In ogni caso, per come vedo io il tennis, è un accoppiamento meravigliosamente naif. Il pittore lunare, e l'airone elegante. Pennellate e fluettanti balzi, al confronto. Ed ovviamente, nessuno trasmette l'incontro. Preferiscono le orride legnate tra Del Potro e Monaco. Deluso, vado ad ubriacarmi di vodka. Stamattina scopro che ha vinto Petzschner 7-6 6-7 6-4 4-6 6-3. Ed immagino una partita giocata sulle stelle.

8 commenti:

  1. Picasso...solo i complimenti per il bellissimo post. Ciao! Bruno

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  2. bravò!
    sei un appuntamento irrinunciabile, ti leggo subito dopo d'Avanzo e la morte di una repubblica. Mi fai stare bene dopo aver pianto.

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  3. @Bruno, ciao. Rimango stringato anch'io...Grazie mille. =)

    @Giovanni, mi commuovi veramente...=) comunque grazie, sei davvero gentile. Alla prossima, anche se dopo il ritiro di Marat, ci sarà meno da scrivere...

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  4. Bellissimo articolo(mette un po' di tristezza e malinconia,è vero,ma è pur sempre scritto bene),come sempre del resto =)
    Marty*

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  5. Ciao Marty, ben ritrovata.
    Grazie tante, beh, un pò di tristezza c'è dentro, per forza. Ma anche con parecchia scanzonata ironia, come nel personaggio di cui si narra.
    Ma ora che smette il tuo idolo chi ti pigli? Consiglio Youzhny. =)

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  6. Figurati,lo sai che sono sempre sincera.=)Youzhny?Il mio stomaco mi implora pietà.XD.No scherzi a parte non mi piglio nessuno perchè non vedo in giro qualcuno che possa sostituirlo=)
    P.S.:Mi fai morire quando 'sfotti' la Safina,a me fa solo tenerezza.Ma ,d'altronde, si sa che la differenza del suo gioco con quello del fratello è profonda quanto la Fossa delle Marianne =)

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  7. Guarda, su Dinara ho cambiato gradualmente opinione. Molto meno peggio di altre. Pur non potendo certo ammirarele sue gesta, fa molta tenerazza anche a me. Pare un mammuth imponente, con gli occhi spaventati da pulcino in crisi esistenziale.

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  8. Si certo,anche io trovo che lei sia meno peggio di altre,che poi visto il periodo che sta attraversando il tennis femminile...^^

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.