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martedì 26 aprile 2011

JOHN MCENROE, IL RUGGITO DI UN GENIO AL CREPUSCOLO




Una chicca. Un dono ai due/tre lettori, chiaramente disturbati, che entrano ancora in questo spazio ancestralmente vuoto. Riporto uno stralcio tratto dall’immortale opera di postumo commiato dell’artista decadente Picasso Petzschner, “Quel rovescio di Mecir che mi masturbò l’anima (vi piscio in testa quando voglio. Se, voglio. Ora ci ho sonno)”. Si possono rinvenire frammenti di tennis, e sullo sfondo uno dei match che hanno formato la mia esistenza, forgiandola intensamente al vuoto immacolato, ed erigendo l’anima verso un nulla implacabile. E bellissimo.
(tutte queste confusionarie parole vanno tradotte, più o meno: “Perché piuttosto che scrivere di Ferrer-Nadal andrei a picchettare innanzi al tribunale di Milano, a difesa del perseguitato Silvio. Al fianco di decrepite ed ottuagenarie smidollate in calore, con le dentiere semoventi.). Il match narrato dal racconto è invece in questo video, e negli altri relativi. Che poi, in fondo, le immagini valgono più di mille ciance al vento.


***

In quel preciso istante andò via la corrente elettrica. Un rumore sordo, insensato, silenzioso. Avvertì un bicchiere che si riempiva. Vino, azzardai. Poi ancora silenzio. Anche il piccolo televisore in bianco e nero aveva cessato di guaire alla luna di un agosto quasi morto. Il vecchio aveva fatto in tempo a seguire il notiziario del primo canale. “Il notiziario” era fondamentale. Grazie al cinegiornale, gli eventi del mondo entravano anche in quella miserabile topaia dimenticata da Cristo, dove trascorrevamo due mesi di “villeggiatura” estiva. Si preoccupava, mio padre, che non tornassero i comunisti, con le loro espressioni torve, a rubarci i pochi danari statali che ci permettevano quella "villeggiatura". Che la cristiana democrazia regnasse col suo seguito di rassicurante benessere. L’idea che Mao Tse-tung e Stalin resuscitassero dai loro sarcofagi, turbava i suoi sonni di avvinazzato. Avevo davanti a me la tangibile spiegazione di come un clown venditore di fumo, qualche anno più tardi, sarebbe riuscito a prendere il potere. Ignoranza, sterile povertà mentale e terrorizzante spettro del ritorno rosso. Il gioco è semplice.
Rimasi turbato. Cominciai a pregare che la corrente tornasse, con atea fede verso l’ignoto. Non c’erano altri rimedi, solo una devota preghiera fervorosa. Saremmo morti tutti, prima o poi, al di là di sette sataniche e religioni. Quello invece schioccò le dita. Via, dai vicini abbienti. Vivevano nei paraggi, ma erano ricchi possidenti terrieri. Potevano permettersi anche gli schiavi, solo che li chiamavano in modo diverso: contadini, fattori, operai della loro Fazenda di stampo sudamericano. Io rimasi a casa. Gli altri andarono a discorrere di sciocchezze e guardare la frivola ricchezza, millantando chissà quale patetica bugia. Poi a letto, a rigirasi nelle lenzuola umide di un fine estate inquieto, dimenandosi tra nugoli di zanzare incazzate. Mai viste zanzare più agguerrite. Non c’erano esseri umani nel raggio di cinque chilometri, e quelle si avventavano sulle nostre carni come vampiri fuggiti da un campo di concentramento. Non sopportavo quel concerto di amore e odio. Non avevo voluto sentire le frescacce degli schiavisti fazenderi e non potevo nemmeno collegarmi con la chiassosa Grande Mela. Non era certo una bella giornata.



*** 

Il tennis mi piaceva. Più del calcio. Lo praticavamo quotidianamente, in quei mesi di sole. Sguainavo la devota Maxply McEnroe in legno come fosse un cimelio immortale, spada mitologica, sfidando qualche coraggioso. Senza esitazioni. Nemmeno i ventenni mi facevano paura. Ogni tanto la rispolvero ancora. Dona una sensazione di appagamento. Ci perdi 6-2 6-1 anche contro uno scaldabagno arrugginito, ma rimane lo
stordente sentimento di benessere spirituale e goduriosa sensazione nel colpire la palla. "E che ci fai con questa?" ripeteva il mio zio materno roteandola al cielo come un batti panni, col fare di chi vuol sembrare simpatico, "serve per la cernita delle olive?". E rideva, da solo. A quei tempi, per non affaticare troppo il gioiello intarsiato nel legno, negli impegni di poco conto, alternavo l’utilizzo di una miserabile "maxima" di ultima, gelida, generazione. Avevamo creato una piccola Flushing Meadows, su un campo in puro cemento armato che nelle ore di punta diveniva fornace bollente su cui cuocere le uova. O i piedi. Forgiavo le mie gambe, col tempo divenute poderose. Ho delle belle gambe, lunghe, possenti, muscolose il giusto, quasi scolpite da uno scultore greco omosessuale. Fossi donna mi ecciterebbero, le mie gambe. Era comunque un bel campo. Bisognava solo fare attenzione all’ingannevole crepa nei pressi della “T” del servizio. Quando la pallina lambiva quei centimetri dissestati si trasformava in una scheggia pazza, incontrollabile. Occorrevano riflessi luciferini, l’intoppo aguzzava l’attenzione. Allenava l'istinto. Chissà se il dormiente Bolelli ha cominciato assaggiando un campo di cemento armato, con le buche a generare rimbalzi imprevedibili. Dovevamo stare attenti anche alle vie di fuga, perigliose come trappole mortali. Talvolta, presi dalla foga di un recupero impossibile, si rischiava di sfibrasi contro il tronco dell’ulivo secolare, troneggiante come un baluardo, implacabile e ammonente, a qualche metro dalla riga laterale.
Di notte mi attaccavo al piccolo schermo per seguire le dirette da New York. La nasale voce del maestrone Tommasi e le raffinate chicche naif dello scriba accompagnavano ardimentose gesta degli eroi della racchetta con facce contrite e pantaloncini aderenti, strizza palle. Un appuntamento impedibile. Vuoi mettere? In quegli ottavi di finale, oltre all’idolo calante John McEnroe, c’era gente del calibro di Edberg, Becker, Agassi, Lendl, Sampras, Chang, Cahill. Qualcuno febbrilmente eccitato per un Berdych-Troicki non potrà mai comprendere. Lo vedi ora, poco più che ventenne, con quell’espressione di ottusa sicumera e la voce impostata da Nando Gazzola, divinare le evoluzioni di Berdych o avvertire le caldane per una roncola storpia di Djokovic. E non ha mai visto McEnroe o Edberg. Ecco, dovrebbero fare dei cortometraggi sul tennis del passato, ad uso e consumo delle menti anoressiche.
Ma quella sera non si poteva. M'industriai con ingegno adolescenziale. Balzai via dal letto. Pensai. Uscii fuori mentre i grilli cantavano al vento la loro pazzia, nascosti tra le siepi e le piante di citronella. Presi la decisione. Aprii il cofano della vecchia fiat ritmo color argento, afferrai i morsetti. Portai fuori il televisore. Era facile, forse. Bisognava solo collegarlo alla batteria della macchina. Per chissà quale algoritmo e sofismo fisico si genera energia. E quello si accende. Lo avevo sentito dire in giro. “Maurizio bello sguardo”
lo aveva raccontato a scuola, con l’aria del piccolo scienziato stronzo. Diceva d’aver seguito la finale dei 100 mt piani di Roma a quel modo. Col televisore collegato alla macchina, nella pineta di fronte alla spiaggia. Coi suoi occhietti strabici. E la pantera Ben Johnson, carico di droga come un cavallo, schizzava via dai blocchi, imprendibile, simile ad un sanguinario felino dagli occhi iniettati di timida cattiveria. Il povero giamaicano che irrise il nobile principe Carl Lewis. Una favola di doping e imbrogli. Poco importa, quel balzo furente rimane. Rimasi lì a pasticciare coi fili, mentre i cani guaivano in lontananza, nelle tenebre. Urlavano alla di luna ghiaccio la loro rognosa malattia.

***

Era semplice, in fondo. Bastava sbagliare un “+” o un “-” ed avrei combinato un pasticcio epocale. Ma c’era John McEnroe-Emilio Sanchez. Supermac ci provava ancora. Quelle scintille pazze di tennis e personalità disturbata, valevano un impacciato tribolare tra fili aggrovigliati. Si sarebbero dipanati in un trionfo, come nervature incontrollabili danzanti nella calotta cranica dell’inquieto genio mancino. Le volée stellari del poeta maledetto al crepuscolo non avrebbero risentito dei quell’elettricità d’accatto, mi convinsi. Ed ecco che partì. Un moto di infantile contentezza mi pervase. Arraffai due lattine di birra, chiusi i finestrini e mi assiepai in devoto silenzio. In trincea come un giovane Fantozzi. Ero già pazzo a tredici anni. E a trenta? Avrei curato la mia pazzia con le droghe o la medicina zen? Forse con l’induismo ascetico di qualche santone? Mi vedevo su un monte isolato, dedito all’eremitaggio estremo. Avrei meditato sotto un albero dalla vaste fronde o optato per gli ammazzamenti e i furti con scasso? Mi sarei già suicidato o avrei aspettato i quarant’anni per vedere come andava a finire? Intimamente speravo che qualche svedese, prima o poi, venisse a consegnarmi il Nobel per la masturbazione creativa. I misteri che chiamavano computers Ibm avrebbero invaso il mondo. Grazie a quelli avrei forse potuto raccontare cose, lenire la pazzia tra le pieghe di qualche parola inventata, trasformando l’autoerotismo in rilassante pippa mentale.
Ma intanto Mac era già lì. Zampettante, con bandana serrata sulla nuca e la racchetta imbracciata come uno Stradivari. Pronto alla sinfonia, col volto tirato. E’ teso, al centro dell’arena sorvolata da chiassosi jumbo. Un catino infuocato. La telecamera indugia sull’inquadratura dall’alto. Fa spavento. Sono solo gli ottavi di finale, ma il match si preannuncia epico. Non c’è un motivo, è una sensazione. E nell'angusto abitacolo penso che quelli sani di mente staranno facendo dell'altro. Dormono da tre ore. O sognano di praticare un petting spinto con Rossella. Magari lo hanno fatto poche ore prima. Rossella era tre anni più grande di me, aveva due tette sfrontate e una risata impietosamente malvagia. Civettuola e irraggiungibile. Una bellezza consapevolmente brutale. Inutile pensarci, struggendosi come giovin Leopardi gobbuto. Quella se la spassava con tipi più grandi e navigati, mezzi hippie capelloni e con folte barbe. Fumavano marijuana per darsi un tono e poi si dedicavano al gioviale sesso libero in macchine da neopatentati figli di papà. Così me li immaginavo. Io non avevo chance, semplicemente. Sarei diventato hippie retrò solo un paio d’anni dopo. Mi è sempre mancato il tempismo.
Il match mantiene le sue premesse, malgrado la palla si scorga a stento. L’americano è quello dell’ultimo periodo. Strabiliante, pur nel decadimento che non lo vuole più dominatore delle scene. Emilio Sanchez è buon iberico normodotato. Giovane e simpatico tipo da primi dieci/quindici al modo. "Bisteccone" Galeazzi, commentando solo i tornei di Firenze, Bologna, San Marino e Palermo tra stonati canti di passeri assiepati sull'albero di pero alle sue spalle, è assai ferrato su di lui. Lo conosce più di Edberg o Cash. Ma Emilio, fratello di Arantxa e Javier, se c’è una partita da vincere, la vince. Terraiolo puro che ha imparato a fare tutto in modo dignitosamente scolastico. Altri tempi e situazioni, laddove i terricoli sapevano seguire il servizio a rete e giocare buone volée. Dovevano, farlo. Il cemento era cemento. Gli anni novanta, quando non si poteva immaginare il tragico futuro. Gilles era morto, ma c’era pur sempre Nigel Mansell. Mica Vettel o Massa che guidano la loro vettura come alla playstation per bimbi dai 6 ai 12 anni. Vi era il coraggio e lo sprezzo ardimentoso che riuscivi quasi palpare nelle nervature delle loro braccia. De Andrè era vivo e scriveva ancora poesie in musica. Giusy Ferreri gemeva stridula in una culla, ben lungi dall’esser realtà sconcia l’ipotesi che una con quella voce adenoidea potesse far dischi, e che qualcuno li comprasse anche. C’erano i politici veri. Magari corrotti fino al midollo marcio. Ma di una corruzione superiore. Vendevano l’anima al diavolo. Ora vendono al fica al drago. Tenevano amanti discrete, mantenute cui donare vestiti alla moda, gioielli e una casa. Ma non le facevano diventare ministre della Repubblica. Altri mondi. Meno scellerati di quanto non si potesse nemmeno ipotizzare come stadio ultimo del degrado. Era "politica dei due forni", mica la politica delle due chiappe. Terrificante e diabolica attività delinquenziale. Ma tremendamente efficiente. Eden, pensando all’inettitudine da cabaret di quarta fila dei tempi moderni.
Nell’utilitaria bevevo la birra e mangiavo mandorle sgusciate. Il vecchio si sarebbe incazzato. In una serata mangiavo il frutto del pomeridiano lavoro per raccoglierle. Poco m’importava. L’eroe yankee era lì. Tutto tic. Frenetico, elettrizzato. Un’occhiataccia tagliente, fissa e imbronciata, a quella riga maledetta. Che non gli dava mai ragione. La ragione dell’Onnipotente. Poi un rovescio accarezzato in risposta, una frustata al salto e via, come un giaguaro sanguinario verso le rete, pronto alla brutale zampata. Un taglio finale o un ricamo da mozzare il fiato. Non è nelle migliori giornate di sinfonia. Non lo è da un pezzo. Anni. Ma il primo set lo porta a casa, sia pure con qualche difficoltà. E’ un ottavo duro per il Mac di seconda generazione. Si sapeva. Le ultime uscite, in quello che fu il tempio di quattro trionfi, lo avevano visto uscire di scena con mestizia. Contro un Woodforde qualsiasi, un Haarhuis normale. Ed anche quel 1990 rischia di essere solo un altro anno di declino senza sussulti. Stroncato sul nascere dall’assurda squalifica di Melbourne. Forse il miglior McEnroe dal 1984 in poi, capace di antiche cavalcate delle valchirie e di un tennis annichilente. Dominante come i bei tempi, fino alla squalifica, sadica rivalsa verso l’ex potente in declino. E un anonimo arbitro dai radi capelli che potrà raccontare ai nipoti di aver squalificato John McEnroe lanciato verso il romantico ritorno. Date una divisa ad un uomo, e osserverete emergere il suo animo più sadico. Poliziotti, arbitri, gendarmi. Poi solo delusioni, per Mac Genious. Sconfitte senza appello coi dominatori della stagione, Edberg e Lendl. Fino alla mesta dipartita di Wimbledon, al cospetto del playboy italoamericano dalla criniera leonina e occhio ceruleo, Derrick Rostagno. Una specie di Feliciano Lopez destro, con molto più nerbo. Derrick rimase famoso per aver mancato un match point contro Becker a New York, trafitto da un surreale nastro tedesco con tanto di beffardo pallonetto. Poi si è laureato e ora pare sia un avvocato di successo.

***

Sul romantico cemento grigio-verdone di Flushing Meadows, il mancino statunitense stava però offrendo un rendimento dignitoso, in quel 1990. Già fatti fuori tre avversari senza perdere un set, tra cui il fratello meno competitivo della dinastia minore dei Sanchez, Javier. Mac comincia bene anche contro Emilio, il primo set era fondamentale. Poi inizia a scendere d’intensità in modo preoccupante. Il servizio non punge. Emilio corre come un forsennato, riprende tutto neanche fosse “Speedy Gonzalez”, attacca appena può, per non farsi attaccare dal vecchio cane. John aggredisce senza umana sosta la rete. Prima o seconda di servizio, in risposta alla prima o alla seconda dell’avversario. Ma ci arriva sempre con quei dieci centimetri di ritardo. L’esplosiva elasticità dei tempi belli è ormai persa. Lo scriba non perde tempo a rimarcarlo, in una specie di macabra elegia funebre. Lo fanno da sei anni, nell’odio-amore denso di pessimismo. C’è quasi della commiserazione compiaciuta, in quelle parole che accompagnano Emilio Sanchez avanti due set ad uno. “Ah povero Mac…non ne ha proprio più…povero, povero…”. Si continua nel crudele parallelo di quello che fu. Fanculo anche loro, con affetto. Io non l’ho mai vista, la versione del genio cannibale. Quella attuale mi esaltava lo stesso. Quasi trentadue anni e una irriducibile voglia di ritornare quello che non può più essere. E’ sotto di due set a uno. Crudeli inquadrature della tribuna. La signora McEnroe, Tatum O’Neall, fa strane e insensate smorfie. Balza in piedi, saltella isterica. Applaude come una scimmietta ammaestrata delle giostre. Sembra impasticcata. Non capisce assolutamente nulla di tennis, dove si trovi, cosa stia accadendo. Ogni mito che si chiami John ha una sua letale Yoko Ono. La sua è Tatum, figlia d’arte e attricetta di second’ordine. Prima lei, poi le bombarde di ultima generazione che hanno cambiato il tennis del legno. Negli anni novanta Mac vaga per tornei con prole al seguito, nella sacca per le racchette. I figli tolgono sempre qualcosa. Nei piloti levano due decimi al giro. Nei tennisti
 qualche centimetro di esplosività fisica, e mentale.
Il maratoneta Emilio non ha intenzione di mollare nulla. Mac si risistema la bandana da vecchio pirata, i movimenti delle mani ad accanirsi sulla maglietta divengono più frenetici, martirizzanti. Ansiogeni, soffocanti. Vorrebbe aggiustare la mente, ma non è cosa agevole. E si accontenta della maglietta. In quella mente agitata ci sono degli orchestrali di una bravura superiore, che eseguono ciascuno uno spartito differente, incompreso e incomprensibile. Ogni tanto fa diventare cenere qualche malcapitato guardalinee occhialuto. Lancia improperi, insulta il giudice arbitro con epiteti smozzicati. Ma non si dà per vinto. Altra frustata in risposta, simile ad un colpo di rasoio. Fluttua e rimane sospeso nell’aria per qualche secondo, come una libellula inquieta. E poi scatto folle e rabbiosa volée condita da straziante rantolo. Sempre con quei maledetti dieci centimetri di ritardo e le ginocchia che non si piegano come un tempo. E chi se ne fotte. Eccolo il set point. Ennesimo ricamo vincente a rete. Sembra, vincente. Anzi no. Speedy Gonzalez lo riprende quando il genio è già con le braccia levate al cielo che esala un urlaccio degno di un vecchio lupo antartico innamorato in una notte di plenilunio. Tocca ancora di dritto. L'iberico riprende anche quella. Poi l'americano chiude finalmente con volèe di rovescio a campo vuoto. Mac è ancora vivo. Il pubblico lo ha capito, lo sottolinea con un boato tipicamente yankee, da concerto degli Who. La gente lo adora. L’antipatico, anziano e in calo, suscita sempre sensazioni di forte e patetico amore. L’odio e l’amore vanno sempre di pari passo con la pietà.

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Ed è lì che comincia la marcia trionfale del McEnroe minore. Che non vincerà più uno slam, al limite può andarci vicino, avvistarlo e accarezzarlo, ma capace ancora di calamitare emozioni come pochi. Per chi non si nutre di allori e coppe, rimane gran cosa. Vinto il quarto, è pronto a dare battaglia anche nel decisivo quinto set. L’avversario è ben allenato, più giovane e pimpante. Ha l'aria simpatica, da furbo scugnizzo, Emilio. Non lo puoi odiare, anche sforzandoti. Dopo un nastro fortunato, si scusa garbatamente. E l'altro vorrebbe azzannargli la jugulare. John è stanco, attempato, logoro. Ma possiede la magia nel braccio, e quella spesso fa la differenza, al di là di abusate leggi del tempo. E l’innata indole del numero uno. Anche se è appena ventitrè al mondo.
Le due adorabili civette al microfono, ora hanno maggiori dubbi. “E chi lo sa adesso, diventa tutto imprevedibile.”. Poi ripartono a capo basso. “Eh, alla distanza, dopo quattro ore…con quelle gambe che non si piegano più come un tempo…c’è bisogno di un miracolo per il vecchio Mac…”. Sarà perché gli occhi annebbiati del tifoso non vanno oltre, ma non lo vedo così anziano e indifeso. Anzi, lotta come un satanasso malgrado le quattro ore di battaglia rusticana. Guizza e abbranca volée con brutale dolcezza. Arpiona qualsiasi straccio, gettandosi in avanti nel suo utopico desiderio di salvezza. Si aggrappa al servizio, con parabole dense di curaro affettato, fino al break decisivo agguantato con ferocia di squalo elegante. Il pubblico non sta nella pelle. Il genio va a sedersi, medita, fa qualche smorfia solenne. E’ intimamente fiero di aver smentito ancora tutti. Sta solo vincendo con Emilio Sanchez, ma si crede il numero uno di ogni era. Forse lo è. Può darsi lo sia tutt’ora. Mai mettersi contro le divinità. E chiude. Mac ha vinto. Vincerà ancora, per un paio d’anni. E pazienza se ci sono Sampras o Agassi, e una nuova generazione di giovani virgulti avvezzi a spaccar palline senza poesia, con racchette sempre più simili a lancia razzi. Mi addormento un po’ più felice, nell’utilitaria.
Fui svegliato da un urlo lacerante. Era mattino. Mi sporgo dal finestrino. C’è mio padre con un pigiama verdino e mia madre in vestaglia fiorellata. Mi guardano. Il vecchio ha un ciuffo di capelli che gli pende sugli occhi arrossati. Un altro ritto in testa. Si agita scomposto, urla contro mia madre:
“Lo vedi che è pazzo? Lo vedi? Neanche adesso vuoi darmi ragione? Nemmeno ora lo vuoi capire che è pazzo? Eh? Mi ha scaricato la batteria della macchina! Assassino! Delinquente! Ed io come vado a lavorare adesso?”.
In realtà era in ferie fino a metà settembre, ma si era inventato di dover lavorare. Pur di farmi sentire in colpa. Indicò a mia madre una lattina di birra. “E’ già alcolizzato, TUO figlio, che vergogna! Alla sua età!”. Rientrò in casa. Rifletteva, seduto e silente. Poi si verso del vino nel bicchiere. Alle 7,15 di mattina. Feci una lunga passeggiata mattutina, ascoltando solo il rumore del selciato sotto le mie scarpe. E la rugiada che si scioglieva ai primi raggi di un sole malato. Ogni tanto mi avvicinavo a un albero, contemplando il trasparente guscio delle cicale. Le larve abbandonavano la guaina trasparente e spiccavano i loro voli pazzi. E cantavano, fino a schiattare. Che strana giostra la vita. Erano già schiattate tutte, il tempo di un'estate. Afferravo quel guscio secco e sottilissimo, aperto sulla schiena. V’era proprio tutto. Anche la forma appuntita delle zampe. Lo prendevo nella mano e lo schiacciavo. Si sbriciolava in mille pezzi ed intimamente pensavo potesse essere Lendl, Hitler o mio padre.

10 commenti:

  1. coraggio, oggi a monaco dimitrov ha vinto al terzo contro baghdatis dopo aver annullato due matchpoint, e ora è in programma youhzny-petzschner: scampoli di grazia e incoscienza sotto cieli plumbei...

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  2. Sì, ho saputo. Ma non è che il bulgaro mi ecciti poi così tanto. Pare giochi anche il doppio assieme al Picasso (il pittore come partner cerca sempre gente col talento -quasi- uguale al suo, ovvio). Che battesse Youzhny a Monaco era prevedibile. Lo scorso anno i due offrirono un gran spettacolo.
    Ciao.

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  3. Post meraviglioso, grazie.
    Non ti cito tutte le cose che mi sono piaciute ma -"serve per la cernita delle olive?-, beh sono quelle brutte situazioni in cui realizzi di non c'entrare niente con chi ti circonda, lo sono state per me almeno in situazioni differenti.
    Sono stata assente un pò, i batteri mi hanno attaccato, ma sarò più forte di loro.
    Intanto mi "godo" le sabbie di Madrid e vedo i miei "pupilli" cadere come mosche.
    Finalmente ho scoperto quanti anni hai, sono brava in matematica ;)

    Jess

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  4. Ciao, grazie.
    Sì, tutti presi a schioppettate. Esecutore materiale Gimeno Traver. Solo Llodra s'è salvato d'un soffio.
    Ho visto un poco di Djokovic-Ferrer, prima che mi dessi alle droghe sintetiche.
    Per la prima volta in cinque anni simpatizzavo per il serbo. Volevo FORTEMENTE il 2-0. Ovviamente, si conferma tennista ORRENDO. Ha perso un set, per farmi dispetto e farmi perdere 250 euro. Orrendo, orrendo. Semplicemente. Orrendo. =)
    Ciao.

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  5. Orrendo! Ma meno orrendo di Ferrer? Per me no. Ferrer non mi è mai piaciuto, ma si è guadagnato la mia totale antipatia (facendo scemare l'ammirazione che gli si doveva per l'impegno)dopo aver rubato il posto al master di fine anno a Youzny o Melzer.
    Nel contempo orrendamente prende il break da Bellucci (vincerà lo stesso). Ho appena letto l'ode a Bellucci con annessi commenti da futuro top five. O___o Non ci credo, solo perchè ha vinto 3 partite di fila?

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  6. Torna tra noi Picasso, dopo Madrid ci serve il tuo sostegno. La forza bruta regna ovunque, non c'è più scampo.

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  7. @Star,
    sono tue tipi di repellenza differenti. Difficile fare una scala di valori. Certo che vedere l'iberico tutto ingobbito ed eccitato, vincere un set solo per farmi perdere...quando era MATEMATICO cedesse al terzo...non ha contribuito a rendermelI simpatici.
    "ODE A BELLUCCI?" "TOP 5?". Chi? dove? quando? I malati di mente ci sono sempre, in ogni ambito. L'importante è leggerli con lo stesso spirito con cui si guarda una trasmissione della D'Urso o di Vespa. O il tg Studio aperto. =)
    @Fabio,
    io ci sono. Ci sono sempre stato. Non c'è più scampo, certo. Tra trent'anni i match di tennis si giocheranno al "simulatore" per play station (o alla Wii). O con prove fisiche d'idoneità mostrocistica in palestra. Attendiamo, fiduciosi.

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  8. Ciao Picasso, complimenti per il restyling (se si scrive così) del blog.
    Io ho un ricordo di una Slazenger in legno e di un campo di cemento sotto il solo cocente, mi sono molto identificato nel tuo racconto.
    Quanto a McEnroe, ho imparato ad apprezzarlo con gli anni. Quando ero piccolo, dovrei vergognarmi, vista la sua "Bergomizzazione", simpatizzavo per Mats Wilander, forse perché su quel campo di cemento provavo rovesci bimani contro il muro.
    Non mi dispiacque la sua parabola però: anno 1988, tre slam su quattro, numero 1 del mondo per dieci minuti e poi il nulla.

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  9. Ciao a te, Arturo.
    Restyling (o come diavolo si scriverà)...grazie, ma ho solo pigiato dei pulsanti a caso, ed è venuta fuori questa roba vagamente vintage. Non so se la manterò, o opterò per un rsa shoking. Qualcuno via mail mi ha detto che la scrittura è troppo piccola. E che non riesce a leggere ciò che forse non è nemmeno scritto. In sostanza, boh =).
    Mats Wilander, insomma, non mi è mai piaciuto troppo. Certo quel 1988 è stato fantastico. Tre slam su quattro e la grande capacità di reincventarsi attaccante per neutralizzare Lendl. Ogni tanto lo vedo nel Senior Tour, prendere delle epocali stese da Supermac...=)
    Ciao, a presto.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.