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domenica 15 luglio 2012

ITALIANS DO IT BETTER



Ascoltando lo schiamazzar dei natanti, come un eco lontano e conciliante il riposo dei giusti, ho immaginato cose bellissime. E orrende. No, non erano solo i culi ondeggianti delle spiaggianti. E nemmeno le mefitiche alghe che galleggiano nelle acque in cui i bimbi sguazzano giulivi. Il sole a strapiombo assecondava pensieri sconci, ludicamente rievocativi sul tennis all’epoca di Zeman. E mi rendo conto di una tragica realtà: Non ho mai dedicato agli attuali alfieri dell’Italtennis un articolo. Un sontuoso ritratto, diciamo. Eppure mi diverte molto scriverne. Perché in ciascuno di loro vi è un comico paradosso da raccontare, tipicamente italiano. 
Chi ha l’intelletto sviluppato almeno quanto quello del babuino, capirà come a far sbocciare un senso di comicità sublime non siano esclusivamente i tennisti italiani, quanto il contorno: Gli obnubilati e poetici cantori del tricolore. Chi in quei modesti atleti da anni continua a vedere il simbolo dell’eccellenza. Della professionalità, del brioso divertimento, del talento purissimo. Qualcuno ci crede davvero, e non si possono mica osteggiare in partenza le visioni mistiche. Altri lo fanno perché nazionalisti convinti, i restanti perché pagati. O tutte queste cose messe assieme. Non me ne viene in mente nemmeno uno ancora a piede libero, ma insomma, mi riferisco a quelli che affermano con piena convinzione di risultare credibili che Errani è talentuosa come Federer (o Sampras, se volete volare bassi). Ma si sa, d’estate un uomo normale può trasformarsi in feroce assassino, figuriamoci chi già è vittima di un morbo. 


Andreas Seppi. Nasce in riva al fiume Caldaro, o più poeticamente  Kaltaren in sinuosa lingua madre, il nostro funambolico istrione numero uno. Un nome, una sentenza assoluta, finale. Ed in quei luoghi incantati, asettici e dal muto candore, che si forgia il talento di Andreas Seppi. Cristallino e trasparente. Invisibile, quasi. Tratti somatici tirolesi, biondo dall'occhio ceruleo, e sguardo timidamente gentile. Si presta a meraviglia alle più disparate ironie, senza nemmeno guardarlo giocare. Di quel lago di Kaltaren, Seppi racchiude in se parecchio. Lo immagino giovin putto discolaccio, mentre pattina sui lastroni di ghiaccio durante i rigori dello inverno e poi bagna timidamente i piedi quando le acque del lago si disgelano ai primi tepori della discreta estate montanara. Tennista di una noia quasi catacombale. Avvezzo all’anticipo che sfrutta i colpi e la potenza dell’avversario, finisce per sembrare una sterile macchinetta sparapalline sfiatellate. Sempre uguale a se stessa, monotona. La morte del genio e dell’estemporaneità tennistica. A queste soporifere caratteristiche tecniche, l’eroe caldarense abbina un carattere di mitezza irreale, inumano quasi. Combattivo e pugnace quanto un’albina capra montanara, coriaceo ed impermeabile come scolapasta di marzapane. 
Un mix talmente folle che vederlo tra i primi cinquanta, appariva miracolo. Funambolismi inventati su quell’espressione che è un dipinto creato da pubblicitari del mulino bianco strafatti di “Camille”. Invece è stato bravo a dare una sterzata alla sua carriera, a 28anni. Dalla surreale epifania gothic-noir di Eastbourne dove danza leggiadro come cinciallegra inspiegabilmente erbivora, ai recenti buoni risultati che lo portano a ridosso dei primi venti, e per cinque set a lottare come un leone narcotizzato, sullo Chatrier contro Djokovic. Frutto di un sapiente lavoro con preparatori atletici in gamba. Ci vuole poco, insomma.
Fabio Fognini: Il deviante affresco di un paradosso vivente. Ci vuol costanza, genialità e grandezza ultraterrena per farsi perdonare le più atroci nefandezze comportamentali. Basta una giocata, una carezza maestosamente dolce. Devi, in sintesi, essere John McEnroe o Dio. Se invece sei solo Fabio Fognini e ti arrabatti attorno al numero sessanta in virtù di un impettito e timido talentino inferiore a quello di almeno quaranta altri top 100, il comportarsi come ineducato genietto della lampada risuona surreale. Non è talento ribelle, ma sterile e catastale pazzia da manicomio. La differenza tra il fare cose geniali e pensare di poterle fare possedendo capacità appena sufficienti, rimane enorme. Invece eccolo il nostro impettito e tracotante “McSafin” de Portofino. Sregolato genio inventato. Qualche bel colpo ed accelerazione virtuosamente pigra, in un mare di protervia. Teatraleggia, incazzoso e strafottente, spaccando racchette. Smoccola con arbitri ed avversari. A volte li insulta, spesso sembra deriderli con quel risolino che è uno dei suoi colpi migliori. Scenate clamorose e plateali. Dopo le quali s’eclissa tristemente. Non è infatti nemmeno quello scafato marpione che dalle quasi paranoiche sfuriate contro il mondo assorbe linfa vitale e partorisce il capolavoro. Perché genio non è. E nessuno lo perseguiterà mai. 
Braccio buono, non eccelso. Tra buone difese ed accelerazioni improvvise o ricami spesso suicidi, rimane comunque tennista imprevedibile. Che dà il meglio di se nei match al quinto set, dove gli schizoidi andamenti umorali trovano un paracadute. Infatti, miglior risultato rimane quel quarto di finale a Parigi, oltre alla recente finale a Bucarest. Dopo tutto questo, un match tra un italiano ed un top ten lo farei giocare a lui. Per quel pizzico d’imprevedibilità che almeno ti fa sembrare l’incontro non chiuso in partenza. E perché in rimani curioso di capire se quel talento che a gesti dice di avere possa appalesarsi come il quinto mistero di Fatima. 
Potito Starace. Il volto è di quelli che rimandano alla commedia dell’arte, al teatro di Eduardo. Ad una maschera del cinema di Troisi, al limite. Stridente con la vis soporifera di un tennis ammorbante, senza quel colpo finale che potrebbe fargli fare il salto di categoria. Occhi tristi solcati da un naso aquilino che lo fa sembrare un Coppi azzoppato che si arrampica insolitamente scomposto sul Gavia. Potito Starace da ormai un decennio porta la bandiera del tennis italiano, rendendone al tempo stesso evidenti i limiti e lo storico provincialismo. Può far ammattire Rafael Nadal con smorzate compulsive e tattica terricola, o arrivare ad un passo dalla vittoria sul Dio greco Marat a Parigi. Ma rimane un tennista prevedibile e monosuperficie. Compiuto nella sua scientifica e volontaria incompiutezza. Completamente nullo ed inefficace appena usciti fuori dalle paludi rosse. I tornei sul veloce per lui somigliano ad un bestemmione terrificante. Una tassa remunerata lautamente, che si guadagna con calcoli da ragioniere e challenger dopolavoristici. E’ un esponente del vecchio mondo, in un certo senso. Quando se eri terraiolo, terraiolo morivi. E allora via, col suo tennis che a guardarlo ti fa venir voglia di smanettare su un ipotetico telecomando per levare l’effetto moviola o film muto anni ’30. E con quella faccia tragica da emigrante italiano all’estero, continua scientificamente a tenersi a bagnomaria nella classifica. Ha guadagnato abbastanza da poter vivere il resto dei suoi giorni su un atollo, assieme alla sua ragazza (che secondo voci di radio-pettegolezzo-tennis pare sia una vezzosa tennista italiana). Il che infondo mi fa pensare che tra i due, il pirla sia io. 
Simone Bolelli. Uno dei più grandi bluff tennistici italiani (forse mondiali) dell’ultimo ventennio. Bastano due ottimi tornei messi in croce a farne il prescelto. Il fuoriclasse che finalmente ti nasce in casa. E che non abbisogna di turpi allenamenti ed altre bestemmie pagane. Nasce e muore però, giusto il tempo di una stagione. Perché a quel dritto naturale, anche bello e fluido a vedersi, devastante nell’uno-due che segue al potente servizio, il nostro “piccolo Federer monco” abbina il nulla assoluto. Un dannoso niente, zavorrato da limiti imbarazzanti che non vuole limare. Movimento assente che lo fa sembrare piantata statua di sale, risposta impresentabile frutto di bradipeschi riflessi da animali preistorici ed estinti, e rovescio che balla la mazurca. 
Ok, avvista i primi quaranta. Non sarà il Federer descritto dai soliti miopi intenditori, ma un docile talentino da avviare ad una buona carriera. Ed è lì che il paradosso di Bolelli si appalesa orrendamente. Il mite ragazzo di Budrio sprofonda in una crisi senza fine. Si ferma a quel prevedibile “pim-pum-pam” di dritto. Avvitato su se stesso, mentre gli altri sfrecciano come ossessi. Normale conseguenza è il perenne galleggiare nel purgatorio delle sue contraddizioni, a ridosso dei primi cento. Con scienziati coach che provano a scuoterlo e finiscono con l’esaurimento nervoso. Qualcuno un po’ estroso cerca di fare di un esplosivo tennista da veloce un tennista da terra, dove non si noteranno i pachidermici limiti in risposta, ma al tempo stesso si smussano le uniche armi che ancora possiede (lo sparo di servizio-dritto) e divengono sbalorditivi i limiti di corsa. Questo pare il 38enne Balbo delle ultime stagioni. Il carattere ed il coraggio non si imparano. Se dormiente, può venir fuori in situazioni di furore e necessità. In quella che nello sport può essere definita “fame”. Qualcosa che Bolelli non potrà mai provare. Ed allora lasciamolo così,  innamorato e felice della sua Ximena, moderatamente ricco e per qualche anno ancora tennista da numero 118 al mondo con qualche picco (si spera). In fondo siamo italiani, ci sia accontenta di poco. 
Filippo Volandri: Il Marat Safin nostrano, almeno nella stessa misura in cui il suo tennis rimanda a quello di un Karlovic al caciucco. Parli di Volandri, e non puoi non partire da quello storico incontro sul centrale del Foro Italico che ribolliva di un’eccitazione antica. A suon di sfrontati rovesci ad una mano che esplode in modo ispirato, gli riuscì lo scalpo di una vita: Far fuori niente meno che Roger Federer, il dominatore del tennis mondiale. Un successo del quale ancora si bulla in giro, al bar, con gli amici del burraco. O che gli serve per trovare parcheggio a Formentera, nelle cui stradine lo immagino furoreggiare col leggendario Moto Guzzi, tutto di bianco vestito e con velina accollata: “Hey amico, che ce lo sai che una volta ho battuto Federer, io?”. Spesso funziona, altre volte il parcheggiatore abusivo si fa una risata. Altri, un americano, un francese o indonesiano, avrebbero trovato stimoli e convinzioni per costruirsi una bella carriera. Migliorare quel debolissimo servizio da circolo parrocchiale degli infermi reduci della seconda guerra mondiale con la gotta, in primis. Filippo invece si perde, diventa una specie di spaghetti-Marat mignon. Tra “velinismi”, infortuni, progetti di reality e mondanità che scaturisce dall’improvvisa notorietà, finisce per perdere di vista il tennis. Sempre e solo su terra e con un servizio ugualmente imbarazzante, più debole e vulnerabile delle seconda di servizio di Serena Williams, tre anni fa riparte dai challenger nostrani ottenendo il minimo sindacale per il finale di una carriere decorosa, che poteva essere ottima. Anche lui, ma soprattutto lui, esprime pienamente l’italico ardore impermeabile a contaminazioni e cambiamenti. Terraiolo sono nato, e terraiolo rimango. I colpi che ho a 18 anni, continuerò ad averli a 31. Meglio un numero 80 oggi senza troppa fatica, che un numero 30 domani rischiando di farmi prendere i crampi alle meningi. 
Flavio Cipolla. Un virtuoso Renato Rascel tra i giganti corazzieri dei nostri tempi. E in uno sport sempre più indirizzato verso la fisicità, i primi 80 al mondo raggiunti dal fantino romano sono un piccolo capolavoro dell’ingegno italico più puro. Un ammirevole e compulsivo affetta, rattoppa, corri, taglia e cuci con cui per due volte ha saputo riemergere e raggiungere risultati di tutto rispetto. Paziente e virtuoso, non si può che ammirare Flavio Cipolla.  Divertente vederlo battersi di puro cesello contro i molti stoccafissi bombaroli delle nouvelle vague. Con l’arguzia di chi deve sopravvivere nella savana sfruttando la scaltrezza. Nascondendo palline e mandando al manicomio qualche top player sparso, vedi Roddick, Wawrinka o Davydenko. 
Paolo Lorenzi. Mi diverte, inebria pur nell’assoluta mancanza di gesta tennistiche esteticamente apprezzabili. In questo ragazzo senese-romano rivedo un eroismo antico e sprezzante coraggio. Mi conquistano l’entusiasmo, il disincanto e le gioia per il tennis. Ovvio, i colpi, l’estetica pura ed il divertimento, viaggiano sul binario opposto. Instancabile giramondo, esplode ad ottimi livelli entrando nei primi cento due anni fa, alla soglia dei trent’anni. Con la soddisfazione di giocare gli slam, di divertirsi volleando su erba contro Djokovic, o mettere sotto il mostro Nadal sulla sua terra di Roma per un’ora e mezza. Entusiasmo e leggerezza, a questo mi rimanda Paolo Lorenzi. Uno di quelli che non si potrà mai criticare. Che perda o che vinca. 
Alessandro Giannessi. Il dazio che l’Italia paga al nadalismo. Ma "magara" direbbe qualcuno. Un mancino potenzialmente solido, in sostanza. Promessa del nostro tennis, a 22 anni. Serafico e buono di testa, grazie a qualche exploit nei challengers entra tra i primi 150. Niente di sensazionale, anzi. Un tennista da terra battuta che se saprà fare il passo decisivo anche negli Atp e migliorare il rovescio (colpo che non è debole, ma proprio non si riesce a vedere dove sia) può avere una carriera da primi cento. O alla Starace, magari con quella bizzarra convinzione che il tennis moderno per 2/3 si gioca sul veloce. 
Matteo Viola. Uno dei misteri gaudiosi intrisi di maggiore misticismo. Tennista con bagaglio tecnico ristretto a mezzo colpo in croce, che per ragioni tutt’ora razionalmente inspiegabili riesce ad ottenere sorprendenti risultati ovunque. Nell’ultima stagione è salito a ridosso dei cento sciorinando rimonte impossibili negli slam (qualificazioni). Servizio da circolo anchilosati di Sarzana imparato alla scuola Karlovic (cattedra di ruolo appartenente a Volandri), dritto inesistente, mezzo rovescio. Ma tigna e palle quadre come se ne incrociano raramente. Lo vidi per sbaglio anni fa, e mi sembrò più completo e talentuoso il fratello (che invece fatica a stare nei mille). Viola è però un simbolo. Simulacro ed esempio vivente di come senza colpi e con le stimmate da terraiolo di nascita e battesimo, ma col carattere e la convinzione, si possono ottenere risultati dignitosi. Persino sul cemento o erba. Dategli il dritto ed il servizio di Bolelli, ed avremo un top 40 serio. 
Alessio Di Mauro. Trentacinquenne ormai agli ultimi colpi di una carriera da ottimo ed antiestetico podista delle retrovie. Tennista “generoso”, come si diceva dei medianacci di un tempo coi piedi storti. Si applica, dà tutto in campo senza potersi risparmiare. Il picco di una clamorosa carriera è la top 100, la finale di Buenos Aires ed il main draw di qualche slam (compreso Wimbledon, dove il sorteggio poteva riservargli anche Federer). Soffermarsi a vedere cinque minuti questo mancino cagnaccio siciliano, può provocarvi delle turbe psichiche. Ma a qualche giovincello altezzoso potrebbe invece insegnare l’umiltà e la voglia di soffrire. L’inflazionato aggettivo “pallettaro” sarebbe riduttivo per lui, sprecato quasi. Di Mauro è la sublimazione esasperata di quell’arte. E’ un podista “pallettaronista”, al limite. 
Gianluca Naso. E cosa diavolo c’entra questo carneade assoluto? Dirà qualcuno. Ebbè, proprio oggi si giocava una finale di challenger a San Benedetto, e me ne sono ricordato per quello. "Massì, mettiamoci anche quest'altro fenomeno da circo", mi son detto. Visto che è gaudiosamente esploso, con un poco di ritardo. E perché scrivere di Trevisan offenderebbe la mia intelligenza, già povera di suo. Un buon match a Roma contro Canas quattro anni fa, e da lì i più deliranti cori entusiastici del radical chicchismo in salsa vetero patriottica. Appena sentii Max Giusti (il comico volontario che però fa piangere) parlarne molto bene, pensai che il suo destino fosse segnato. Un piccolo Bolelli che è già microscopico di suo. Con carattere da pseudo Fognini lagnoso e stufoso. E con questo mix letale, cosa vuoi attenderti dalla sua carriera? Che a 25 anni rischi di affacciarsi per la prima volta tra i primi duecento. Per carità, il braccio sarebbe anche buono. Il dritto lo gioca in modo esplosivo, esalando versi da rigurgito post bagno al mare dopo aver mangiato l’impepata di cozze, di rovescio è esteticamente godibile. Il resto, il carattere soprattutto, è ancora da quasi semidilettantismo.
Gianluigi Quinzi. Dritto da Nadal, rovescio stile Connors, carattere che è un mix tra i due. Servizio diabolico e tocco morbido similare a Supermac. Corsa da Ferrer, concentrazione che farebbe impallidire Bjorn Borg 1980. Se facciamo bene attenzione, potrebbe anche volare come Goldrake. Ora, ironie a parte, questo sedicenne sembra avere doti fuori dal comune. Avviato ad una buonissima carriera da pro, facendo salvi imprevisti ed altro. Di una cosa almeno sono certo, viste le attese profondamente malate che stanno riponendo su questo adolescente. Se farà “solo” una buona carriera da competitivo top 15/20 capace di vincere Atp senza essere il messia che attendono come i Re Magi submentali, tra molti appassionati potrebbero esserci suicidi di massa. In semicerchio, tenendosi per mano.

2 commenti:

  1. Sono anch'io impressionato in maniera negativa dalle pressioni su Quinzi. Voglio dire, ha 16 anni il ragazzo, lasciatelo crescere in pace senza troppe pressioni. Se guardiamo gli albi d'oro degli slam juniores spesso sono perfetti sconosciuti, anzi credo che la grande maggioranza dei "baby-fenomeni" manco sia arrivata in top 20. Prendiamo alcuni "fenomeni" italiani come Nargiso e la Garrone che a livello juniores facevano fuoco e fiamme e poi una volta arrivati tra i pro han fatto ben poco. Insomma, lasciatelo in pace poveretto che cresca in tranquillità senza mettergli addosso sta pressione.

    Quanto a miss "Golden Set" beh, per certi versi la ammiro perché ci mette una grinta veramente invidiabile e se avesse un talento pari alla grinta sarebbe la numero 1 del mondo. Vedere uno scricciolo così che al Rolando le suonava alle varie vatusse era anche divertente. Indipendentemente dal livello imbarazzante della WTA, che effettivamente è forse l'unico motivo per cui la Errani e la Schiavone sono arrivate in fondo al Rolando e in top 10.

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    1. Quinzi l'ho visto al Bonfiglio, e mi ha fatto una ottima impressione, anche di testa. Poi sembra sia gestito anche bene. Ma da qui al farne un campione fatto e finito anche tra i pro, ce ne corre. Sono tante, infinite, le variabili da mettere in conto. Non ci vorrebbe molto a rispolverare le frasi sull'ex numero 1 junior Trevisan. Meno folli, ma del tipo "Io ne ho visti tanti giovani, ma come tira questo ragazzo...". A 23 anni è numero 653.
      La spiegazione di tanta enfasi, è il digiuno atavico. La fame incredibile (che sfocia nel ridicolo) di un campione in Italia dopo quasi 40 anni. Non solo dei tifosi affetti da bimbominchismo, ma anche attempati addetti ai lavori con gotta cerebrale.
      Su "miss Golden Set" messa come l'hai detta, va benissimo. Grinta e forza di volontà sovrumane che le hanno fatto superare evidenti lacune tecniche. Il dramma è leggere chi la dipinge un talento naturale come Federer o Sampras, e bombardiera da 40 vincenti a match.
      Ma lì, come scritto, si è a livello di potenziali serial killer che con il caldo di luglio vanno fuori di melone. :)
      Ciao, a presto.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.