venerdì 30 ottobre 2009

Romina Oprandi, l'audace volo di una tortorella ferita


La guardavi palleggiare durante il riscaldamento, cappellino al contrario calato in testa, pantaloncini e piercing sul labbro. E proprio non capivi cosa centrasse quella curiosa ragazzotta con il tennis. L'incontro cominciava, e la buffa e pesante sagoma bionda si tramutava in aggraziata e leggiadra tortorella volteggiante. Il campo diveniva un prato stracolmo si fiorellini delicati, che lei coglieva con dolcezza inebriante. Come per divertito miracolo degli dei, il grottesco elefantino d'improvviso prendeva a fluttuare come una piuma, leggera e leziosa, accarezzata e condotta da vento propizio. Il dipinto di un anacronistico mistero, inspiegabile agli occhi umani. Romina Oprandi, incurante di tutto, inscenava la sua opera burlesca, fatta di tagli, ricami e smorzate improvvise.
L'apice della sua storia da raccontare si ha nel 2006, durante gli Internazionali d'Italia di Roma. Non le ci volle molto per trascinare il pubblico del Foro, a tratti chiassoso e maleducato, ma competente e amante viscerale di personaggi curiosi e pieni di estro. Una partita via l'altra, la miseria di quattro games lasciati a Samantha Stosur, soltanto uno ad una impotente Vera Zvonareva. Divenne il piccolo fenomeno italiano, una giovinetta paffuta e dai nordici tratti del viso, gentile dono della svizzera tennistica, che non credendo in lei, la donò alla federazione italiana. Partendo dalle qualificazioni, un drop velenoso via l'altro, arriva ai quarti di finale, e l'allora ventenne Romina, proprio non vuole terminare la sua opera istrionica e burlesca, una variazione sul tema che sconfina quasi nell'irridente. Svetlana Kuznetsova, avversaria dei quarti, non riesce a capacitarsi, e neppure a prendere le misure a quella pulzelletta imprevedibile e incantatrice, guascona e impertinente. Una smorzata che ricade dolcemente morta dall'altra parte, piena di un candore inspiegabile e così atipico per un'impugnatura bimane. E poi lob chirurgici, volèe coraggiose e splendide, sorrisi genuini e rivoletti di ciccia. "Romina, Romina, tu mi piaci grassottina...", vien da cantare, mutando nome e rubando il testo ad un quadro di Botero o una vecchia canzone.
Il pubblico impazzisce per la fanciulla irriverente, e Romina non solo se la gioca contro la fortissima picchiatrice russa, ma va ad un punto ed un centimetro dalla vittoria. Poi d'improvviso si trascina semovente e sofferente, coi cosciotti paffuti e bardati, quasi fosse un'eroina di guerra azzoppata o un giovane balenottero spiaggiato e smarrito. Lotta, stringe i denti, riacciuffa il tiebreak finale prima di arrendersi 7-6 al terzo. Esce comunque tra il tripudio di una gente in crisi d'astinenza da beniamini italiani, e che quasi non crede ai suoi occhi nell'averne trovato una così geniale e piena di talento. Poco male, una semifinale al foro italico sfiorata d'un soffio, ma il futuro è della giovane italo-svizzera, che a vent'anni raggiunge il numero 46 al mondo.
Ma come in tutte le favole c'è il cattivo in agguato, qualcosa che intralcia il meritato lieto fine. E l'ostacolo è travestito da subdoli infortuni in serie, braccio e spalla, fino ad arrivare al crack definitivo. Il suono macabro di ossa che stridono sinistri e carni che si lacerano, vicende che racconta con distacco, quasi quel corpo non fosse suo. Il tennis non è tutto, riferisce, come a voler mascherare l'odio per quel destino cinico e baro, che le aveva tolto tutto, senza averle mai dato tutto quello che meritava. Nessuno riesce a trovare un rimedio ad un infortunio così subdolo e definitivo. Persino Justine Henin, regina aristocratica del tennis mondiale, per molti algida e spocchiosa, a causa di una scarsa inclinazione ai siparietti finti e ruffiani di altre, è colpita dalla storia. Mette a disposizione della giovane Romina, i suoi medici personali. Niente da fare, proprio non si riesce a venirne a capo. Come in un malvagio sortilegio, che la colpisce con la sua stessa arma prediletta, la smorzata senza ritorno. Il braccio è bloccato, lo stesso braccio che pareva intarsiato nella madreperla. Le dita non riescono a muoversi, figuriamoci impugnare una racchetta. Tanto vale non pensarci più, pensare a guarire per condurre una vita regolare. Dice basta a soli 21 anni, parte, inizia una vita normale, lavora all'estero come animatrice turistica.
Poi il braccio migliora, e la tentazione di riprovarci è troppo forte. Riprende ad agosto dello scorso anno, partendo dal basso, assieme a ragazze che non hanno un mignolo della sua classe, e che la battono in modo impietoso. Sul campo c'è solo la sagoma menomata e ferita di quella tortorella giuliva e graziosa, simile ad un venticello brioso. Vince qualche partita, tra un ritiro e l'altro, senza mai rientrare nel tennis che conta.
Concludo con una riflessione profonda, su cosa la spinge da oltre un anno a viaggiare con lo zaino a tracolla, in tornei che devono sembrarle un vero purgatorio, e del quale non può vedere la fine. Forse perchè il tennis le piace ancora molto, e pazienza se può giocare al 30% (ad essere generosi) di come faceva da giovane ed integra promessa del tennis mondiale. Ha solo 23 anni, e non rimane che la speranza. Che magari recuperi ancora, prendendosi una rivalsa sulla cattiva sorte. Già rientrare tra le prime cento, sarebbe un piccolo miracolo di tenacia e tecnica, violentate dal destino. Questo è almeno quello che spera chi ama il bel tennis.
La scorsa settimana leggo i risultati del torneo itf di Glasgow, e il nome stridente della povera Romina, che rema costantemente attorno al numero 300, sconfitta nettamente al secondo turno. E scrivo le righe di cui sopra. Ho parecchie doti (nascoste), di certo non quelle di chiaroveggenza o lettura dei tarocchi. E ne ho fornito prove lampanti. E neppure posseggo il talento di riuscire a portare bene. Ma a distanza di qualche giorno, arriva una notizia che apre il cuore a quella speranziella che avevo chiamato, flebile ma significativa. Quasi invocata. Ad Ortisei, torneo itf che si gioca tra le ridenti dolomiti, all'ultimo istante decidono di concedere una wild card a Romina. E la tortorella ferita non si lascia pregare. Vince 7-6 al terzo contro Lucie Sefarova, tennista di livello mondiale. Poi si ripete contro l'altra azzurra emergente Floris, e la promettente Brianti, spazzate via in sicurezza leggera. Ora la semifinale. Qualcosa si muove insomma, nel magnifico mondo di Romina.

giovedì 29 ottobre 2009

Master tennis degli svitati. (S)Gasquet, dalla cocaina al cocomero


Fine stragione, tempi di Master. Quasi fossero peste bubbonica, non guarderò nemmeno un'istantanea sgranata di un Kuznetsova-Azarenka, o Davydenko-Roddick. Ma i sorteggi degli ultimi tornei, come pilotati da mano magica, hanno aperto uno spiraglio inaspettato per i vari picassi di tutto il mondo. Una specie di Master ristretto degli svitati. Protagonisti di un godereccio gironcino all'italiana, due che il Master non lo giocheranno più nella vita, ed uno che invece non lo giocharà mai.
Già in terra asiatica si erano avuti i primi due confronti: Safin-Petzschner 6-2 3-6 6-1, e Gasquet-Petzschner 6-3 6-2. Di cui ho narrato abbondantemente (forse). Due parole (di numero) le merita il pittore naif tedesco. Dopo il suicidio increscioso agli Us Open contro Ferrero, non vince più una partita, che sia una. A Vienna, dove pure lo scorso anno, complici congiunture astrali irripetibili, aveva vinto il torneo partendo dalle qualificazioni, da forfait. Infortunio, si dice. Probabile indigestione, dopo essersi strafogato tre sacher torte. Infatti è infortunato, ma il giorno dopo sgambetta in un inutile doppio. Risibile dettaglio, scontando i punti della vittoria, è crollato inesorabilmente in classifica. Cosa vuoi aspettarti da uno simile? Il prossimo anno tornerà nel suo habitat naturale, i challenger. Colpa delle mie allucinazioni, faccio pubblica ammenda, e di aver scorto del talento cristallino in una cima di rapa lessata. Debbo smetterla coi funghi allucinogeni (e qui non farò nessun commento sull'affaire Agassi. Già disgustoso il suo tentativo di far pubblicità al libro. E poi perchè dovrei farla io, che ho tre visitatori?).
Finalisti del mini-master surreale, con una vittoria a testa, Safin e Gasquet. Ed infatti, eccoli fronteggiarsi a Sanpietroburgo. Ovviamente match di primo turno, perchè al secondo non ci arrivano mai. Fin dal riscaldamento, balza alla mente una strana associazione. Il viola seppia del parquet fa pendant col giovinotto francese. Nelle sue meningi infatti sono stipate delle seppie comatose con dei vispi baffetti arricciati. In quelle del russo, vivono di vita propria, delle locuste carnivore e deliranti. Ammetto di essere in forte imbarazzo, non so per chi nutrire più affetto. Il vecchio russo è al suo penultimo torneo prima di ritirarsi, e mi avvolge un sentimento di leggera malinconia. Il giovane francese si è già ritirato, ma non glielo hanno ancora riferito. Ed avrebbe bisogno come il pane di vittorie. Dopo i problemi legati alla cocaina, sta provando a ritrovarsi. Ma per uno già in disarmo di suo, doversi dibattere in aule di tribunali, pare la mazzata definitiva. Un talento limpido e riottoso, gettato al vento crudele.
I due cominciano come sanno, e come prevedibile. Hanno lo sguardo assente a se stessi. Alti e bassi mostruosi. Scambi da cineteca dell'impossibile, ed errori marchiani da cortocircuito cerebrale. Dei due, il più teso è il francesino. Getta via i colpi, come avesse fretta di scappare. Partorisce due fulminei doppi falli, e cede il servizio sul 2-2. Marat ricambia il favore con altri abomini tennistici, ma ha il pubblico tutto dalla sua, guasconeggia, ha affermato che l'ultimo tour-via crucis gli è garbato assai, perchè ha giocato senza aver nulla da perdere. Bontà sua.
I due continuano in una discontinuità tremebonda. Qualcuno digiuno di tennis, se per puro caso assistesse a cinque minuti in cui le rispettive ispirazioni coincidono, potrebbe essere indotto a pensare che siano il numero uno e numero due al mondo. Il miglior rovescio antico del circuito, contro il più bel rovescio bimane in circolazione (ancora per poco). Quando si sfidano nella diagonale sinistra, è puro godimento di uno spirito fin troppo violentato dai tanti Robredi. Marat però, ed è tutto dire, è più sereno, meno falloso. Alterna servizi annichilenti, accelerazioni anticipate di rovescio a drittoni fulminanti, poi altri rovesci con tanto di saltello, a discese a rete. Richard invece è tutto frenetico, una molla rassegnata. Prosegue con passettini timorosi e storti, come un anitroccolo storpio. Ha la faccia da piccola canaglia impaurita, ed il terrore vivo negli occhi, come perennemente inseguito da ghignanti demoni spaventosi con le unghie giallastre ed affilate. Ora somiglia ad un cocomero annacquato, fuori stagione. Getta via colpi e partita, come la sua carriera, con ansia frenetica. Serve malissimo per poter sperare in qualcosa. Il bellisssimo dritto fluettato, quasi imbracciasse delicatamente un fioretto, invece che una racchetta, non è mai in campo. E prosegue, mazzuolato dal russo in discreto stato di forma, come nei periodi non orribili: 7-6 6-4. Ora Gasquet deve prepararsi bene per il processo d'appello contro la sentenza di assoluzione per uso di cocaina. Oscuri e funesti presagi all'orizzonte della sua carriera.
Ultima considerazione, en passant. Il mini master degli svitati, coi tre miei protetti, lo vince Safin. Quello dei tre che si ritirerà. Per dire.

lunedì 26 ottobre 2009

Storie di talenti dimenticati. Youzhny, Baghdatis, Malisse, Young, Schiavone


Una settimana che svela storie di talenti, infortuni, promesse, carriere sprecate, come lagate da un invisibile file rouge. Ci rifletto e ne scrivo, dopo una fugace, ma avvincente lettura dello scontro politico in atto (a suon di battone, escort, marchette e trans a pagamento).
Il talento schizoide di Mikhail Youzhny viene fuori all'improvviso a Mosca, nel gelo del suo torneo di casa. L'autoflagellante russo dalle mascelle abnormi, come per magia, tira fuori dal suo cilindro di trucchi
e parrucchi, quel rovescio antico, melodioso e incantatore, col quale potrebbe stordire ed affettare quasi tutti, oppure cuocere, salare e pepare un ovetto alla coque. Trionfa e rimane un mistero buffo, come un simile personaggio non sia costantemente tra i primi dieci al mondo. Forse perchè è semi infermo di mente.
Tra le ghiacciate lande del nord della Svezia, rifiorisce d'incanto, il talento stroncato di Marcos Baghdatis (foto), cipriota dal sangue caldo. Dopo la finale dell'Australian Open 2006, si era perso tra infortuni fantozziani ed ebbri colpi di testa. Ben lungi dall'esser campione (neppure potenziale), Marcos, non sfigurerebbe tra i primi dieci, e non è nemmeno un finalista di major per caso, con credenziali tecniche inferiori ad uno Schuettler (per dire). Dell'antica sagoma con barba eremitica e capelli a mucchio selvaggio o nido di chiurlo, che tanto lo facevano somigliare allo yeti versione abbruttita, è rimasto solo il fisico da impiagato del catasto, il ventre pingue da consumatore abituale di matriciana e pajata, ma anche un braccio che avrebbe potuto essere da top player. E proprio il fisico di cristallo, tenuto insieme da nastro adesivo, ha reso la sua carriera un sirtaki agonizzante. Un lungo travaglio, che avrebbe spinto alla resa in molti. Lui, con la sua bella faccia da tarso marsupiale della patagonia, no. A 24 anni ha provato l'ennesima risalita, mescolandosi alle inumane tonnare dei challenger, dimore dei senza arte, parte e talento, come fosse uno Junqueira o un Falla qualsiasi. Encomiabile tentativo di calarsi nel purgatorio, premiato da tre vittorie, prima della improvvisa rinascita anche tra i "grandi", a Stoccolma, dove s'è bevuto in finale il migliore dei due fratelli gnomi Rochus, Olivier. Ora è tornato numero 41 al mondo. Niente male per uno che non è mai stato un campione. Ginocchia e schiena permettendo, il futuro è suo, più che di un Robredo.
A braccetto col cavallo (meglio, pony) pazzo cipriota, un'altro nobile decaduto, ridotto a star momentanea dei tornei minori, Xavier Malisse. Spreco di talento abbagliante. Più dotato ed attempato, ma con lo stesso volonteroso miraggio di ricostruirsi una carriera dignitosa, alla soglia dei trent'anni. Il belga, una finale di slam la mancò d'un soffio a Wimbledon, sconfitto più da una surreale tachicardia, che dai bei colpi di Nalbandian, proverbiale tennista di panza e creanza. Anche Xavier, come Marcos, limitato da una serie infinita di infortuni, con l'aggiunta di un'indole pigra, da messicano stanco in riva al mare, intento a ciucciare un cocktail al tamarindo. L'ex signor Capriati, ieri vince il challenger di Orleans, terra di pulzellette guerrigliere con le gote rubizze e paffute, vincendo tra l'altro, una tirata semifinale contro il mancino volleatore Llodra, match centododici volte più avvincente di un Nadal-Roddick. Non potrà più essere l'antagonista di Federer, neppure un top 10 incostante, ma almeno giocarsi le restanti cartucce nel 2010.
Storie di talenti sbandierati, promesse pompate e poi afflosciate, direttamente dagli States. Lui è Donald Young, talentino dalla mano dolce. Raffinato mancino afroamericano, nato a Chicago da famiglia benestante. Il predestinato, per molti. A soli dieci anni, quel moccioso si trovò di fronte a "sua immortalità: John McEnroe". Il tempo di qualche palleggio, e un Supermac allibito sentenziò e vaticinò mirabilie future per quel ragazzino. In pieno e pittoresco delirio sensazionalistico, se lo autonominò erede. "Vedrete che non mi sbaglio, il ragazzo ha una mano magica.". Mac che parla di "mano "magica" riferendosi ad altri, deve destare attenzione, come minimo. Ma stiamo ancora aspettando. Come attendiamo il destino di quella dozzina di pedatori, che Maradona ciclicamente battezza suoi successori. Stritolato da quella sentenza, Donald ha giocato un paio di stagioni a discreti livelli, affacciandosi brevemente tra i primi cento. Al culmine di un 2009 orribile, in cui non riesce a mettere in fila due vittorie nemmeno in un torneo condominiale, tra una voce di bella vita e l'altra, scivola fuori dai primi duecento. Obama-Young, profeta erede di Kennedy-McEnroe, suona come uno dei tanti bluff. A Cabasas, piccolo challenger Usa, ritorna in auge il suo nome, vincendo un bel torneo. Chi lo sa. Forse la profezia di McEnroe, merita ancora qualche credito. A priori. E per il fatto che il ragazzo ha solo vent'anni.
Ultima storiella, quella del talento offuscato e permaloso di Francesca Schiavone.
L'esperta milanese, dopo una serie interminable di sconfitte sul traguardo, fa sua la finale di Mosca. Fors'anche pungolata, infastidita ed appannata dalla stellina nascente di Flavia Pennetta, finisce per giovarne, trovando stimoli e motivazioni che parevano smarriti. "Leonessa", stanca di dover rispondere a domande di giornalisti subnormali sugli exploit di Flavia, riaffila denti ed unghie usurate, e riemerge di puro orgoglio. Non ha un bel carattere, il viso solare, l'appeal mediatico e la solidità acquisita dalla collega brindisina, ma al tennis gioca meglio, lavora bene la palla, ha schemi vari e completezza di gioco notevole. Vederla così in palla, è una buona notizia, in vista della prossima finale di Federation Cup.

giovedì 22 ottobre 2009

Safin, il vecchio Milan, Wozniacki. Surreali storie di postumi recalcitranti e giovani bamboline benefattrici



Ci sone giornate rivestite di una coltre di insana irrazionalità. Sottile ed inaspettata. L'ennesima, forse penultima puntata della via crucis di un campione artista, all'ultima danza. L'ultimo cristallino rigurgito di un uomo annoiato, da almeno un paio d'anni epitetato da più parti “pustumo ancora in vita”. Definizione calzante, che non tiene conto di sussulti imprevedibili, quasi spasmi involontari.
Nella recente tournè asiatica, Marat Safin aveva fornito chiari segni, se non di motivazioni, almeno della volontà di lasciare con qualche bella partita, lampi di inutili dimostrazioni. In linea con la sua ancor recente e schizoide carriera. Tra commemorazioni di presentatori con gli occhi a mandorla, premiazioni, targhe e regali. Un addio prolungato e celebrato all'infinito, ed inevitabilmente svilito. Un ottimo rosso invecchiato e annacquato. Scene francamente un po' patetiche, col gigante che li guardava come fossero tutti matti. Forse anche per una certa gratitudine, si era dimostrato disponibile a regalare un po' di sbiadito impegno. Lampi violenti che annichiliscono “mano de piedra” Gonzalez, uno dei picchiatori più in voga, sprazzi frustrati di rabbia antica contro il tacchino ceco Berdych.
A Mosca, un sorteggio malvagio, sembrava avergli tolto l'ultima fatua speranza di lasciare con un bel torneo, tra la sua gente. Sulla sua strada Nosferatu Davydenko o se volete l'Agassi andato a male, vampiresco numero 6 al mondo, che col suo bel tennis noioso come un film kazako, e pulito come una play station datata, solo pochi giorni prima aveva impallinato niente meno che Nadal e Djokovic. Quelli che il computer designa come il numero due e tre. Gli aspiranti al trono. Davydenko è il tennista più in forma del momento. Uno che a verderlo non gli daresti due lire, espressione mite e afflitta, propria di chi è vessato dal fisco. Magro, emaciato e pelato, con la maglietta che cade sul torace ossuto, quasi fosse una triste gruccia appendi abiti. Ma appena colpisce la palla, quell'omino si trasforma in mistero ancestrale, da studiare alla Nasa. Colpi puliti, anticipi impeccabili, timing eccellente sulla palla. Di fronte a lui, l'ex grande campione dal fisico imponente, l'espressione guascona e i colpi radenti e debordanti, oramai ridotto a semivuoto barattolo di birra, privo di energie fisiche e soprattutto mentali. Che speranze poteva avere Safin, contro quell'esangue e malmesso spiritello pelato in stato di grazia diabolico? Nessuna. O aspettare che le api assassine invadessero la terra. Un paradossale confronto, con l'umile mucchietto d'ossa strafavorito contro il gigante dalla mente di cristallo.
Il russo povero, con la faccia da smunto eroe transilvanico, comincia a macinare il suo gioco anticipato da piccolo robot. Quasi si avvertono suoni metallici e sempre uguali. E tanto dovrebbe bastare. Ma era la giornata dell'insondabile mistero, e succede che il paradosso, via via si trasformi in irrazionale normalità. Safin prende campo, a denti stretti e cuore caldo, abbatte il volenteroso lavoratore Nikolay. Lo stesso che era sembrato imbattibile per iberici frullanti e macchinosi serbi aspiranti al trono. Altri paradossi imbarazzanti. E in poco meno di due ore, con furiose rasoiate, un postumo in vita, dimostra l'inutilità dell'attuale tennis di vertice. Poi, per carità, probabile che domani Marat entri in campo coi residui di una sbronza di vodka, e raccolga le bucce di patata contro Korolev. Ma quella è un'altra storia, e forse nemmeno importa. (E spero non si sia notato che della partita ho visto solo qualche minuto di highlits).
Prosegue sullo stesso filo dell'inspiegabile razionalmente, la dimostrazione di antica forza del Milan, nel tempio del Santiago Bernabeu. Una squadra alla deriva, senza capo nè coda. Un manipolo di attempati ex campioni storti, ingobbiti come muli spompati e col fiato corto, al cospetto della miliardaria corazzata dei triliardi. Pompose goleade ipotizzate e promesse, iberiche speranze di contrappassi verso passate umiliazioni subite. Ma la sottile magia che resuscita cadaveri, donandogli brezze di antiche bellezze, mette la sua mano anche qui. Non è questione di soldi, squadra e gestione societaria smidollata e banditesca. Niente di giustificabile, se non con con quei colori che corrono e segnano da soli sospinti dagli Dei.
Divago pallonaro a parte, ritornando al tennis, triste sconfitta di scena di Flavia Pennetta, uscita col ginocchio dolente, un infortunio che mette a rischio anche la finale di Federation Cup. Nelle ridenti foreste del Benelux, invece, riporto l'episodio più gustoso della settimana, con protagonista l'omologa bionda e più forte, della nostra eroina. Caroline Wozniacki, deliziosa e soporifera bamboletta di cera polacco-danese, sta dominando della grossa contro l'attempata eroina locale Kremer. Ma anche lei, come una delicata e vellutata violetta, si fa la bua alla gamba bianchiccia, a metà primo set. Continua, stringe i denti, si trascina sofferente. Le cronache narrano di una Wozniacki semovente ed inoffensiva, che arriva ugualmente al 7-5 5-0. Semplicemente perchè la sua avversaria non riesce a mettere una pallina in campo. E Caroline, che fa? Si ritira. Lo fa per l'avversaria, e per il pubblico, che almeno potrà vedere una partita vera al secondo turno, perchè lei non sarebbe stata in grado di giocare un'altra partita. Così riferisce. Stupisce tutti, con un'azione di cristallina onestà surreale. E infatti la Wta, poco abituata a simili sprovveduti gesti di sportività, probabilmente aprirà un'accurata inchiesta. Con funeste ipotesi di scommesse clandestine all'orizzonte.

domenica 18 ottobre 2009

Masters 1000 Shanghai. Davydenko, l'alba dei morti viventi



Un torneo di una bruttezza avvilente. Tra assenze dei migliori, modestissime esibizioni degli altri, giunture scricchiolanti, infortuni reali e patetiche sceneggiate degne di teatri di terz'ordine. Ogni mattina, tra le 7,30 e le 8,15, ho sfidato polmoni intonsi di nicotina e rigurgiti di caffè, col raccapriccio che montava subdolo, sotto pelle. Gli unici due eroi reduci dall'intera visione di Djokovic-Simon e Djokovic-Davydenko, sono attualmente sotto osservazione in un neurodeliri, dopo aver avvistato la beata vergine Maria che gli preannunciava una gravidanza gemellare.
Certo, l'abnegazione, il sacrificio, la corsa, i muscoli, l'allenamento. Son tennisti che meritano rispetto, diamine. Chi lo ha stabilito cos'è il talento? Non è soltanto la capacità di accarezzare una pallina. E poi altre fregnacce gratuite, per giustificare la propria intima bruttezza e mancanza di talento. I mediocri fanno quei discorsi. Già me li vedo gli amanti del tennis pedatorio e arrotato, con le loro faccette subnormali alla Maximo Gonzalez (Bartezaghi). La realtà, è che senza il monarca Federer e gli altri due in possesso di braccio e personalità per metterlo in difficoltà, il tennis somiglia ad una morte lenta, senza ritorno. E senza l'appiglio della bellezza del gesto tecnico, come salvezza.
Un fatuo raggio di sole ottembrino, lo fornisce Feliciano Lopez (7). Mancino fotomodello iberico, che ogni tanto si ricorda di saper giocare uno dei più bei serve&volley del circuito. E col suo scarno manipolo di “Lopezzettes” obese al seguito, batte Ferrer (Help! Sos! Chiamate gli artificieri!) e Soderling, prima del ritiro contro Nadal. Djokovic (4-), di gran lunga il più forte quando non c'è nessuno, non riesce nemmeno a confermare questo prestigiosissimo titolo platonico. Uno che col rudimentale braccio di legno massello e le pupille fuori dalle orbite nell'atto di esalare l'ultimo rantolo da tagliatore di gole, è intimamente convinto di essere il più forte tennista degli ultimi vent'anni, nonché il personaggio più carismatico della storia dello sport. Ma per la serie, anche nell'orrore v'è un briciolo di giustizia, la sgraziata marionetta serba finisce col perdere dal draculesco Davydenko (7,5), umile e consapevole lavoratore dei campi, con l'espressione da 92enne Klaus Kinski (versione sano di mente). Il nostro Nosferatu sciorina un bel tennis ordinato e radiocomandato, da tignoso robottino tic-toc, e tanto basta per domare il tennis sciagura di Djokovic. Non contento, in finale, l'esangue spettro russo, trotta portando in giro il suo mucchietto d'ossa rattrappitte, e spazza via l'ectoplasma recalcitrante di Nadal (6). Lo spagnolo, sempre più calato nei nuovi panni di tennista mediocre, trova una incoraggiante finale battendo nessuno (Blake e Robredo), e grazie ad altri due ritiri.
Entusiasmante quanto una rutilante barzelletta del Premier, la lotta per gli ultimi due posti disponibili nei magnifici (va beh) 8 del Masters di Londra. Passo in avanti decisivo di Davydenko. Soderling (5,5) “Psycho killer” allucinato, va avanti a suon di agricoli sbraccioni intermittenti e tarantolati, e di più non può pensare di fare. Simon (5), trasparente come come carta velina stropicciata. Tsonga (5) in crisi involutiva, nervoso e litigioso con tutti, quando dovrebbe esserlo solo col parrucchiere. Verdasco (4,5), sbirulino dal tennis divertente, ma incostante e perdente nel dna. Gonzalez (3), una specie di er canaro svuotato. Monfils (4) si fa male. E non è certo uno dei tanti infortuni da logorio di fine stagione. Il muro di gomma squinternato, si mette in mutandoni dietro la linea, e tra una pirouette, una spaccata ed una danza tribale, rischia di attorcigliarsi e sfibrarsi i muscoli ad ogni punto. E s'infortuna ventisei volte in una stagione. Insomma, per il Master si qualificheranno i meno peggio. Garantirebbero maggiore spettacolo, chessò...il folle Youzhny o Koellerer, show-man da foto segnaletica (a proposito, sono in ansia. Che fine avrà fatto? Starà dedicandosi alla sua seconda attività, lo scuoiamento di capretti? probabile.)
Il picco più alto, nonché (confesso) unica partita che ho visto dall'inizio alla fine: Safin-Berdych. Che Berdych (0-) rappresenti il più grande bluff del circuito, si sapeva. Che sia esponenete di spicco del tennis lobotomizzato, e spari dritti ad occhi chiusi ad ogni palla, anche. Per dimostrare di essere uno dei più patetici antisportivi del circuito, non aveva bisogno di ulteriori e grottesche conferme. Succede che il più sopravvalutato tennista degli ultimi dieci anni, nel primo set viene preso letteralmente a sberle schioccanti da Safin (10), ex tennista in pectore, 6-3. E potrebbe già bastare per archiviare il caso. Poi il biondino inscena una pantomima disgustosa. Zoppìe, piedi che si trascinano, espressioni di grande dolore, stop medici, fisioterapisti che gli bendano il ginocchio per un presunto dolore alla coscia. E d'improvviso, appena si gioca un quindici, drittacci sparati in recupero, sgroppate violente, proditorie falcate in avanti a recuperare smorzate degne di Pietro Mennea a Città del Messico. Una delle cose più oscene cui si possa assistere su un campo da tennis. Marat Safin comincia a sbuffare e scrollare il testone, spreca una miriade di occasioni per chiudere. Il presunto campioncino talentuoso continua la recita per battere un quasi ex, che di solito si suicida da solo, anche contro un Ouanna qualsiasi. Nell'assoluta ignoranza, mi chiedo, sarebbe quel curioso e strisciante spara drittacci insensati, il fututo campione? Il russo, visibilmente fuori di testa (più del solito, cioè), perde il secondo 6-4, affonda 4-0 nel terzo e decisivo set. Trova energie mentali (?) per recuperare fino al 4-4, ma finisce 6-4 Berdych.
Marat saluta tutti, guardandosi bene dallo stringere l'untuosa mano molliccia del ceco, che se ne va tra i fischi fin troppo composti del pubblicco asiatico. Giusto il tempo per l'ennesimo teatrino d'addio del campione, con filmati e safinettes dagli occhi a mandorla strutte dal dolore, e mostrare una faccia che è tutto un programma. E' chiaro come il sole, a Marat di vincere non gliene importa nulla, ma di perdere in quel modo, ancora gli girano. Succede raramente che in conferenza stampa, un tennista dichiari esattamente ciò che ho pensato vedendo l'incontro. Safin in quel campo è ancora numero uno assoluto: “Il rispetto è qualcosa che ti guadagni con gli anni. In campo bisogna essere uomini, e non fingere un infortunio quando stai perderndo, per poi correre come un coniglio.". Ma ancora, "Berdych non è uno sportivo, e nemmeno un uomo.". Che altro dire, mito assoluto. 10+. Forse, azzardo, sarebbe ora di modificare la regola del time out medico, spesso usata quasi fosse un'arma tecnica. Un mezzo del quale Djokovic ne fece un arte, e Jelena Jankovic continua a farne una ragione di vita.
Capitolo a parte, per il tennis tricolore. Nota di merito per Fognini (6). Prende un aereo (uhuh) e va a giocare le qualificazioni in due tornei asiatici. Le passa, batte anche l'eterno talento imploso Gulbis. Niente di sensazionale per uno che vuol fare il tennista. Miracolo gaudioso se confrontato agli altri azzurri (quelli che dovrebbero essere da primi 10), che se ne stanno a casa, intenti a giocare tornei rionali alla bocciofila. Per dire come si è messi. Tra le donne, brava Francesca Schiavone (6,5). L'esperta milanese, ad Osaka, pesca un tabellone da saldi di fine anno, che non ritroverà nemmeno in un torneo di alpini semi-dilettanti della val Brembana. Poi perde l'ennesima finale della carriera, contro la più solida australiana Samantha Stosur (7). In chiaroscuro Flavia Pennetta (5,5). Dopo il prestigioso traguardo delle prime dieci, e che porta l'italia tennistica al pari di nazioni progredite come Nicaragua e Bielorussia, si è rilassata un attimo. Divaghi mondani e modaioli, nemmeno avesse vinto il grande slam per il secondo anno di fila. Normale che paghi un leggero calo. Non tutte sono così forti da saper conciliare le due cose. A Linz la brindisina viene spazzata via dalla bambolona belga Yanina Wickmayer (7). Giovane ed imponente picchiatrice, dalle doti fisiche spaventose. Lei si, entrerà tra le prime dieci e ci rimarrà per anni. Ipse dixit.

lunedì 12 ottobre 2009

Djokovic, il trionfo del nulla



Scusandomi per il vil plagio di una raffinata boutade presidenziale, Novak Djokovic, più simpatico che bravo, vince il torneo di Pechino. Il serbo si dimostra solido e costante, un autentico giocatore di vertice. Quando Federer riposa, Murray lecca le ferite, Nadal è ridotto ai minimi termini, Connors si ostina a non voler rientrare a 57anni, e Del Potro paga un'infiacchimento da festeggiamenti e da Yanina (uhuhuh...deve avere un guizzo niente male, Yanina), nei tornei di livello inferiore c'è sempre lui, Novak Djokovic. Se volete, “medioman” o “cosa brutta”. Anche perchè gli altri, Verdasco, Soderling o Cilic, pagano un inspiegabile timore riverenziale verso il dittatorello dalla scucchia volitiva, e l'abnorme testone spinoso. Proprio Marin Cilic, viene abbattuto dal serbo nella finale. Il croato, che pure aveva piallato con classe e pazienza i miseri resti di Nadal, si disperde.
Marin da Medjugorie, ha un bel talento per il tennis, gioca meglio del serbo, è più gradevole, possiede una notevole completezza di colpi per il tennis moderno. La sua palla viaggia più veloce, tira i suoi colpi con facilità e movimenti più brevi e naturali rispetto agli inguardabili e pachidermici sbraccioni di Djokovic. A guardarli distrattamente per qualche scambio, sembra ci siano almeno due categorie tra i due, a favore di Cilic. Ma l'indolente croato col talento stipato tra le sopraciglia unite si smarrisce, ritornando giovane gibbone dormiente. Perde quattro games di fila alla ripresa del match, affossa un facile smash ad un passo dal doppio break di vantaggio, serve ugualmente due volte per il secondo set, partorendo due games di battuta da film dell'orrore. Ed alla fine la spunta il regolarista sgraziato. Cilic ha ancora limiti di tenuta mentale, oltre a quelli sugli spostamenti, che lo faranno penare sulla terra e sull'erba ogm, ma è già un bel progetto di campioncino.
Scene di giubilo senza contegno sulle tribune. Pare, ma è solo una congettura maligna, che l'atp stia pensando di recintare con delle grate in stile maxiprocesso all'ucciardone, il box dell'entourage serbo, al solito sobrio e misurato. Sono molto distratto, ma non mi pare di intravvedere mamma Djokovic, vero spettacolo nello spettacolo, una che non ci pensa due volte a mostrare il pacifico segno del tagliagole all'avversario. Ma tant'è. Piaccia o non piaccia (a me un po' meno di un molare cavato a viva forza), Djokovic rimane comunque un personaggio. Uno che fa parlare, su cui poter ironizzare all'infinito. Per dire, uno che va in conferenza stampa con la divisa del Milan (questo Milan), o è da rinchiudere o il cervello non ce l'ha.
Due parole, ed un commento tecnico molto serio, merita Rafael Nadal. Dopo la mise rosa frou-frou del Roland Garros, degli stilisti svitati ce lo presentano in divisa verde ramarro, con mutandoni alla zompafossa, neri a quadrettoni. Sembra di vedere una tartaruga ninja sbiadita, uno smarrito pretoriano padano che fa lo spiaggiante sul lago Iseo o il vecchio coniglio sparapallina afflitto da mutazione genetica. A vista d'occhio è un giocatore diverso rispetto al passato. Corre come, e forse più di prima, ma ha perduto l'antica e disumana espolosività muscolare. Continua a trottare ed uncinare palline fuori dalle righe, neanche fosse capitan uncino l'arrotino. Ma non rimanda più inumani vincenti o arrotoni terrificanti nelle gengive dell'avversario. Ora i suoi colpi divengono facile preda di sapienti attaccanti piallatori come Del Potro o Cilic, che infatti, in semifinale lo demolisce con sapida fierezza. Carne da macello per giovani mattatori. Calma e gioventù che nei quarti non aveva avuto Marat Safin. E la partita del russo è finita dopo aver vinto un godurioso primo punto: palla corta, pallonetto, e stop volley. Poi basta, troppa fatica mentale aspettare il quarto colpo per demolire il muro maiorchino, pur pieno di falle, e ciao Pepp.
Forse sulla terra potrebbe vincere anche ridotto così. Ma fa comunque parecchia tristezza vedere il diavolaccio maiorchino conciato come un Muster qualsiasi. Con qualche chilo in meno, in questa seconda carriera, Nadal vale i primi dieci (forse qualcosa di più), ma si ferma sempre appena trova l'esecutore spietato ed in giornata di grazia. Poi in futuro chi può dirlo, non sono mica Nostradamus. Dopo che le ginocchia avranno ripreso solidità, chissà. Del resto, anche Seppi (o Bolelli) potranno entrare tra i primi dieci, ed io il prossimo anno posso tranquillamente vincere Wimbledon azzeccando due settimane di trance sbronza
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P.s.: Non avendo la stringa di blog v.m 18anni, mi scuso per la foto. Un pò forte, lo ammetto. Ma quella ho trovato. E così è lui, che ci posso fare. E giammai vi salti in mente che io utilizzi la stessa tecnica di Emilio Fede, solito mostrare un'indimenticabile foto di Prodi con la bocca a culo di gallina.

giovedì 8 ottobre 2009

La zampata di Marat, l'angoscia di Gasquet



Gian Giacomo Bartezaghi, assai avvezzo a vivere d'espedienti e scommesse in deprimenti sale gioco, ieri, col palinsesto in mano, m'aveva dato una dritta precisa: “Due set a zero Gonzalez su Safin, due set a zero Simon su Youzhny. Su queste due non si può proprio sbagliare.”.A Pechino, Marat Safin entra in campo tutto di nero, accolto dal tripudio strepitate della folla. Delle giovinette imbracciano un enorme cartellone: “Marat, we believe in you.”. Se ci credono loro. Il gigante russo comincia come una sfiammeggiante supernova abbagliante. Senza paura, timori e paturnie. Con l'espressione rilassata, tira dritto per dritto per la sua strada. Voglia il cielo, che qualcuno conosca quale. Sembra persino correre bene. Sul 2-2, salva una palla break con un miracoloso recupero, uscendo vincitore da uno scambio infinito. L'idea pazza che abbia voglia di giocare, che si sia svegliato bene, è nitidissima. Travestita dalla solita illusione degli stolti. Ultimamente ci ha abituato a mezz'ore di antica brillantezza, come svogliata concessione. Ma tant'è, sarà che il 41 di febbre mi fa delirare con più lungimiranza, ma mi dico che se solo vuole, è uno dei pochi capaci di colpi angolati, che disarmino le sassate furenti di Fernando Gonzalez. Se.
Ogni punto conquistato è uno strepitio orientaleggiante per l'eroe russo. E quando dopo un poderoso attacco di dritto, con ampi gesti delle mani sospinge fuori il lob di difesa del cileno, i decibel degli urletti raggiungono livelli imbarazzanti. Gonzalez, che pure è uno che ha fatto finali di slam e vale i primi dieci, assiste allo spettacolo senza poter fare nulla. Marat sfonda con fluide accelerazioni di controbalzo, folgoranti e precise. Ha persino un barlume di progetto tattico che balena in quel testone. Rovesci bimani angolati e dormienti, talvolta slice, ad impedire che “mano de piedra” esploda il randello terrificante di dritto, per poi partire con bordate mostruose, oggi anche efficaci. Le poche volte che Gonzo prova ad esplodere la carocchia fumante, totalmente fuori giri e posizione, sparacchia lontano dalle righe. Altro scambio nella diagonale rovescia, che sembra affettata da lame ora delicate, ora radenti, gancione di dritto a sfondare, magnifica volée di rovescio in allungo a chiudere. Marat s'invola 5-2. Il pubblico è in delirio. Inquadrano un'attempata donna sulla cinquantina, con gli occhi a mandorla dietro spessi occhiali, imbraccia un cartellone con la foto del russo, e la dicitura: “Marat sposami”. E' il chiaro segno del declino di un campione.
Ma il russo continua nell'incredibile stato di grazia marziana, vince il primo set 6-3, altro recupero miracoloso sulla smorzata del nastro, e volleetina facile facile. Roba da non credersi, corre pure. Mai visto giocare così da tre anni a questa parte. Ma la rottura è in agguato, basta un semplice punto. C'è da stare in guardia. Avanti di un break anche nel secondo, seguita a servire come in paradiso e non sbagliare nulla. Mano de piedra non sa proprio cosa fare, imprigionato nella diagonale rovescia. E non è nemmeno un colpo malvagio, prova a lavorarlo con perizia. Ma quell'altro pare sospinto dalle divinità di un tempo, per un giorno. Senza black out. Scalcia nervosamente una pallina, e viene giù il palazzetto, urletti eccitati e frementi di giovinette e vecchie bacucche. E ridono tutte, giulive e costipate. Un'altra imbraccia un pupazzetto. L'avvilito cileno prova a far capire che c'è anche lui, palleggia coi piedi come un virgulto pedatorio, e dal pubblico si leva qualche malvagio “buuuuh”. Assiste impotente ad uno spettacolo imprevedibile, con la sua bella faccia volitiva da teppista del bronx, in una delle puntate della serie televisiva “Starsky&Hutch”.
Ancora saette e bordate annichilenti del russo ispirato. Eccolo lì il vero numero uno al mondo, altro che chiacchiere. Se solo riuscisse a produrre quel gioco per più di un ora. Se, appunto. Ma tanto basta, oggi. Altro magnifico anticipo di rovescio, demivolè difesiva, e smash in gancio, stile Jimbo Connors d'annata. Spettacolo vero, dimostrazione di forza serena di uno a cui non importa più nulla. Chiude 6-3 6-4, e saluta con la stessa espressione di quando perde.
Domani lo attende Rafael Nadal. Il maiorchino fatica a battere terga prominenenti Blake, dopo aver rischiato persino contro l'ex uomo delle nevi Baghdatis, cipriota col fisico di cristallo, tenuto assieme dal nastro adesivo. Bartezaghi mi ha già dato il pronostico. Ma evito di riportarlo. Tra l'altro, in quel di Tokyo, Youzhny, in permesso premio dal neurodeliri di San Pietroburgo, la spunta in tre set su Simon.
Sempre in Giappone, Richard Gasquet prosegue il titubante ed apprensivo tentativo di rientro. Dopo la grottesca storiella del bacio alla cocaina con una pulzella e la grazia di un clemente Grand Jury, il ritorno per lui non è certo facile. Pare che Mariano Puerta si sia disperato. Poteva evitare la squalifica a 4 anni raccontando di un appassionato gioco di lingue con un camionista, pieno come un otre di nandrolone.
A Richard non deve essere sembrato vero di trovare Picasso Petzschner al primo turno. Ci vuole davvero uno sforzo di fantasia notevole, per trovare uno col cervello più in disarmo del suo. Anzi, l'altro non ce l'ha nemmeno, il cervello. Al suo posto una candela spenta, che per misteriosi motivi crea cera rovente. Picasso si produce in uno spettacolo aberrante. Qualcosa di inenarrabile. Il talentuoso francese ha l'espressione del viso serena come non accadeva dal 2005, e colpisce la triglia agonizzante tedesca, con sanguinosi e bellissimi rovesci. La missione di Picasso-scasso continua con proficui risultati. Rianimare anime in difficoltà spirituale. Sotto 3-6 1-3, il pittore surreale gioca il game perfetto. Rasoiata di dritto a uscire, attacco in back e virtuosa stop-volley ricamata, certosino passante di dritto lungolinea, ed altro dritto di puro polso, incrociato e radente, a pulire l'angolo. Tutto contento ed impettito, decide che può bastare così. Si deve concedere gradatamente alle platee, del resto. Gasquet vince 6-3 6-2 in un'ora scarsa.
Oggi il francese aveva un impegno più complicatp. Jo-Wielfred Tsonga, che sarà in uno stato di forma lontano da tempi passati, avrà anche un panettone impresentabile in testa, ma è comunque un giocatore di tennis. E infatti Richard si smarrisce, sbriciolandosi come friabile pasta sfoglia. Vince il primo set, poi comincia a trasmettere ansia. Vaga per il campo come un paperotto spaurito, stecca e affossa, piega la testa di lato dopo uno sconcertante errore e sbuffa inquieto. Senza lo straccio di un'idea tattica. O forse talmente tante, da mandare in cortocircuito la sua povera mente turbata. La realtà evidente è che si espone come un pugile suonato al dritto terrificante di Alì Tsonga, che lo investe (anche con un pizzico di pietà): 4-6 6-2 6-2. E il talentino col berretto calato al contrario, è sempre più disperso, tra galassie svalvolate.

lunedì 5 ottobre 2009

I tormenti della fragil serbiatta lagrimante



L'avevamo lasciata con gli occhi lucidi, al primo turno di New York. Sconfitta da Kateryna Bondarenko, dopo un tiebreak giocato da semi-lobotomizzata isterica. Seguirono strazianti dichiarazioni, proprio non riusciva a trovare un motivo alla disfatta. Con l'espressione piccata da decennale regina incontrastata del tennis, non si capacitava di una stagione orribile, proprio lei, Ana Ivanovic from Serbia, anni 22 da compiere. Mica Steffi Graf o Martina Navratilova a trent'anni. Si costerna, s'indigna con se stessa. E' convinta di essere la più forte di tutte. Sta lì l'inganno. Anche io pensavo di scrivere meglio di Hemingway e giocare meglio di Mecir. Poi qualcuno deve pur ricondurti alla realtà. A dire il vero, i chiari segni di un torpore psichico in fase di avanzata degenerazione, li avevo notati in un incontro dell'Australian Open. La reginetta spocchiosa, partorì 56 formidabili “ajde”, annesso gladiatorio gesto di guerra. Niente di trascendentale per i suoi standard, ma aveva fatto soltanto 52 punti. E lì, da profondo conoscitore del tennis, compresi che qualcosa non andava.
Ordunque, dopo gli US Open, triste e affranta, Ana decise per una soluzione drastica: Ritiro. Per due settimane. Della serie, tutti i giocatori si ritirano una ottantina di volte in carriera. Molti rimasero con lo champagne in mano, pronti a stappare. Poi Tokyo, altra allarmante sconfitta al primo turno, e nuova puntata de "le angoscie della giovin stellina del tennis mondiale". Ella, sul punto di lagrimare come nel leggendario confronto con Venus, dove un vile e gaglioffo malanno le impedì di lottare e morire schiantata contro un tir, ha partorito nuove folgoranti motivazioni, prospettive mica tanto serene. Grosso modo: Proprio non riesco a capire, non so darmi una spiegazione razionale. Scenerari strazianti, orizzonti funesti. Ritiro definitivo alle porte? No. Dolorosissima rinuncia al torneo di Beijing. La serba con gli occhi di cerbiatta, e le gote paffute, di indisponente livore, dichiara tremendi fastidi respiratori. Qualcuno (io) a mezza voce, le fa notare che, strepitare come una tarantola con pericolose turbe psichiche ad ogni punto, con più veemenza sui doppi falli altrui, magari non agevola la regal respirazione dalle sue gentili, delicate e graziosissime nari. Ma dubito qualcuno mi abbia ascoltato, dietro un lcd. Qualcuno del suo compostissimo entourage, mi avrebbe lapidato con pietre puntute.
Condisce la tremenda notizia, con considerazioni acutissime. In linea col suo tennis impotente (immaginate Alvaro Vitali che pretende di fare John Holmes. Eccolo il tennis di Ana), rilascia dichiarazioni importanti, parole che farebbero impallidire l'acume delle mie melanzane sott'olio, trinciate fine-fine. Si è allenata troppo, ammette a grandi linee. Poi, quando le lagrime salate sono sul punto di sgorgare, solcando il suo volto da madonnina creola, ecco che arriva al punto più annoso: la povera Ana, non ricorda nemmeno l'ultimo viaggio di piacere che ha fatto. Ed anche nella settimana di vacanza, non riesce a fare a meno del tennis. Povera stellina. Involontariamente (figuriamoci), ha svelato i chiari segni dei suoi insuccessi. Cosa si vuole pretendere da una ragazza cui un manipolo di maniscalchi con la faccia da bi-ergastolani, ha insegnato che il tennis è guerra, una partita ed un punto sono vita o morte? Che da quando aveva 4 anni, si sarà sentita dire che la sconfitta non esiste? Nulla. Cosa aggiungere? Niente.
Sforzandomi di scrivere due righe serie, la strepitante puledrina bruna, è diventata numero uno al mondo non ancora ventenne, per tutta una serie di motivi, che trascendono l'umana comprensione. Bisognerebbe guardare le stelle, e le loro paturnie. Ma il suo, era ed è un tennis arrangiato, improvvistato. Una urticante regolarità fallosa ed incostante (si, non sono diventato pazzo) e l'incapacità tecnica di cambiare schemi. A causa di quella manina olivastra, e quel braccio così bellino, quanto privo di un qualsivoglia tocco artigianale. Ma anche per l'evidente scarsa attitudine ad interpretare le partite, tentando qualcosa di differente. Uno assai cinico la chiamerebbe idiozia tennistica, ma io no. Sto esercitandomi a non essere crudele. Ma le questioni tecniche sono solo un contorno, le ragioni della crisi di Ana vanno ricercate nell'incapacità di concepire il tennis in modo leggero, come sport e senza l'assurdo tarlo ossessivo della vittoria, che inevitabilmente la porta alla sconfitta, ma soprattutto a mostrarsi grottesca e anacronistica su un campo. Perchè tra la mania ossessiva-compulsiva da goffa guerrigliera, e l'indolenza nell'affrontare un match, c'è anche una via di mezzo, che si chiama sport. Partite, tennis.
E allora, la soluzione? Che ne so, io. Dedicarsi alla moda o alla fiction d'amor struggente. Ma questo lo direbbe sempre quel cinico malvagio. Al limite, io consiglierei di liberarsi di chi la circonda, ma è mica affare semplice. Farsi una passeggiata sulla riviera romagnola, lasciarsi abbordare da un vitellone in agguato, con le gote rubiconde e il testosterone che esonda dal bulbo pilifero. Uno di quelli che “ci danno, che ci danno, Dio bono...” (citazione di un film intellettuale). Non farebbe molta fatica, perchè tocca ammetterlo, se ci si sforza di vederla solo in foto o quando non ha una racchetta in mano, Ana è assai attraente. E lì, nella quiete della Mauritius, dove il vitellone la porterebbe (a spese della serbiatta, ovvio), tra palme e noci di cocco, scoprirebbe che la vita ha un'infinità di altre sfumature, multicolori e piacevoli. Che non esistono solo palline e tie-break. Probabilmente tornerebbe, dopo tre mesi, con maggiore tranquillità interiore. Magari da numero 80 al mondo, ma chi se ne frega.
Invece, non credo di sbagliare, la manderanno un paio di mattine a fare shopping da Tiffany, e tornerà già tra una decina di giorni, più esaltata e convinta che mai. Come una bella puledrina strepitante ed invasata. Ammireremo i suoi ricercati balzelli esultanti, da anitra selvatica. La vedremo agitare il pugno ad ogni piè sospinto, alzando la deliziosa gambetta in sincrono (la foto è esemplificativa), con le regali chiappette serrate come a stringere un uovo di storione. Strillando le solite frasi d'odio cieco. Per poi frignare inconsolabile, dopo una sconfitta. Che peccato. Vitellone sfaccendato per Anina, cercasi.
Ok, perchè parlare di Ivanovic? Si potrebbe accennare ad una previsione sul primo turno di Tokyo tra Gasquet e Petzschner (oramai è chiaro, i sorteggi li fa il Moggi della psicoanalisi), alla goduriosa vittoria della farfalletta volleatrice Martinez Sanchez sulla Wozniacki. Scrivere dei successi di Davydenko e Simon, eccitanti ed invitanti quanto un brodino di cavolfiore. Ma persino del ritorno alla vittoria di Masha Sharapova a Tokyo, in una finale cui anche Gesù si è ribellato, inducendo al ritiro Jelena Jankovic per un infortunio allo zoccolo destro. Tutto si potrebbe, anche non scrivere niente. Ma oramai è tardi.