mercoledì 23 dicembre 2009

LEGGENDE DEL TENNIS. I PIU' GRANDI DI TUTTI I TEMPI

(quelli di cui ho visto direttamente, almeno qualche sprazzo)

1. John McEnroe. Genio assoluto, artista, ed irripetibile poeta maledetto del tennis. O semplicemente il braccio sinistro di un Dio ispirato e lucidamente allucinato. Un teenager coi boccoli rossicci e le lentiggini, maleducato, irriverente, e mostruosamente talentuoso. Non si allenava, perchè gli dei non si allenano. Il "supermoccioso" dal grugno imbronciato, si piazzava coi piedi paralleli alla riga, eplodeva servizi mancini ad uscire, ricamava volè addolcendole con mano benedetta da divinità squilibrate. Tutto smorfie e tic, tra un urlaccio ed una carezza, sconvolse il tennis, irrompendo come un ciclone irascibile, in un mondo sepolcrale e imbiancato. Prese le misure, e poi abbattè l'orso di ghiaccio Borg, fino a condurlo alla pazzia, al ritiro, alle droghe e adirittura alla Bertè. Odiato ed adorato nello spazio di pochi secondi, quelli che passano da un volgare improperio ed una racchetta fracassata, all'ennesimo tocco immacolato. Movimenti brevi e impercettibili, riflessi felini per ribattere risposte in salto, e te lo ritrovavi già a rete, pronto ad azzannarla con una rasoiata, o ad accarezzare la pallina, ammazzandola dolcemente. Come un suonatore alterato, capace di pizzicare il violino con una piuma di gabbiano. Tre anni da numero uno, sette slam vinti districandosi tra Borg, Vilas, Connors e Lendl. Mica Berasategui o Ferrero.
Poi il declino. Riottosi e furenti tentativi di ritornare a vincere uno slam. Stempiature arruffate da genio attempato e perso nella sua follia, al posto dei riccioli ribelli. Altri capolavori sinfonici, nel mezzo di scenate, smoccoli, ed occhiatacce taglienti. Solo contro il mondo, e con quel talento sovrannaturale, che non basta pìù. Come può accettarlo Supermac? Si ferma tre volte in semifinale, sul filo di lana. Troppo giovani e forti Edberg, Sampras, e gli Agassi, aiutati da racchette che legalizzano l'abominio dei missili terra aria nel tennis. Il semidio iracondo continua a lottare come un ossesso, contro se stesso, poi contro gli avversari. Infine scagliandosi verso giudici e banali righe, in un delirio di onnipotenza continuo, mescolato a follia paranoica. Perchè lui è Dio, ed un volgare inserviente, non può giudicare fuori un suo colpo. Dio non sbaglia mai, anche quando sbaglia. In Australia, riesce nell'impresa di farsi cacciare per triplice ingiuria e intimidazioni, proprio quando sembrava aver ritrovato una forma antica. Ora è uno splendido cinquantenne, che riversa le sue parabole divine nel circuito senior, dove è star assoluta. Sempre col genio che fuoriesce dai riccioli,
ora argentati ed elettrici.
2. Jimmy Connors. Su un campo secondario di Wimbledon, un signore di mezza età, mancino e coi capelli a caschetto, si barcamenava contro Mikael Pernfors. Lento e goffo, remava e rantolava impotente. Il punteggio recitava impietoso: 6-1 6-1 4-1 40-0 per il giovane svedese. Quel quarantenne imbolsito e rattoppato, non era uno qualsiasi, ma Jimmy Connors, al secolo "Jimbo". Alle spalle, un ventennio di carriera irripetibile, fatto di otto slam e quindici finali, record infiniti, dai tornei vinti, alle settimane passate al numero uno al mondo. Cosa spingeva Jimbo ad annaspare ancora su di un campo da tennis, e rischiare una gratuita umiliazione? L'amore, quasi attaccamento morboso per il campo, l'adredalina di un punto. La stessa grinta viscerale che lo condusse ai vertici. Lui, normotipo senza il talento di McEnroe o la forza di Borg, ma con un servizio inoffensivo ed un dritto arrangiato. Perchè Jimbo possedeva un solo colpo, il rovescio cesellato a due mani. Il resto era agonismo irriducibile che scorreva caldo nelle vene, quasi sottopelle. E grazie a quello, percorre almeno quattro generazioni tennistiche. Dalle sgranate immagini in bianco e nero di Rosewall, con racchetta in legno, fino alle bordate kitch di Agassi. Senza mai sfigurare. Dal giovane "Jimbo l'antipatico", al vecchiaccio sgorbutico ed adorabile, capace di calamitare cuori, infiammare folle impazzite, che lo conducevano ad imprese impossibili, in un rapporto magicamente simbiotico.
Tornando a quel campo londinese, Jimbo aggredisce un un rovescio, s'aggrappa alla rete, e chiude con una disperata volè in tuffo. Inizia ad agitare i pugni in avanti, lentamente, come in trance. Una follia quieta, quasi quel corpo fosse diretto da forze estranee. Ora era sotto 6-1 6-1 4-1 40-15. E cosa era cambiato? Tutto, e niente. La droga di un quindici, e l'insana idea che da li cominciava l'impresa. Gli occhi piccoli a fessura, che diventano biglie magnetiche da squalo. Ed è tutto un vorticoso susseguirsi di attacchi vincenti, saltelli da grillo, pugni roteanti. L'indomabile e intramontabile gladiatore riacciuffa il terzo set, vince il quarto, e trionfa al quinto, col pubblico in delirio. Ecco, quello era Jimbo, il vecchio mascalzone.
3. Miloslav Mecir. Come il felino sonnecchioso e pacioso, elastico e molleggiato, ti ammalia subdolamente, con palle dormienti e anestetizzanti, e poi infierisce con graffi d'autore, come squarci di luce intensa in un cielo di cemento. Dorme sornione, gioca, azzanna, morde, salta e passeggia sul soffitto, o fa le fusa. Mica lo puoi prevedere un gatto. Morbidezza ovattata, e lame affilate. Angoli impossibli, dipinti grazie al più bel rovescio a due mani della storia. Apparentemente lento e assopito, per poi ritrovartelo ovunque, coi suoi passi felpati e quasi invisibili. Personaggio surreale, che pareva vagare sul campo da tennis per caso, "Gattone Mecir". Barbetta rossiccia e incolta, espressione assente, distratta e ascetica. Palleggi morti e artigliate feline ed imprevedibili, che smarriscono avversari sgomenti. Sopperisce col talento naturale ed un rovescio piatto, accarezzato e letale, ad un fisico di carton gesso, ed un servizio da tennis femminile. E quanto avrebbe vinto, con un servizio appena decente? Ributtando debolmente la palla di là, fa due finali di major, ed arriva al numero 4 al mondo. Fedele al suo personaggio enigmatico, ombroso e misterioso, sparisce dalle scene a 26 anni, per irrecuperabili danni alla schiena. Per anni, fino a qando non lo si riavvista come surreale capitano della Slovacchia, nessuno ha più notizie di lui. Lontano da scene e riflettori del grande circo, l'avevo immaginato in riva ad un fiume dalle acque trasparenti e placide. Sempre con l'oziosa barbetta incurante, armato di canne e pazienza. Lancia ami, e attende l'abbocco giusto, senza fretta. Con la calma dei forti. Fino al movimento improvviso e fulmineo, come zampata mortifera.
4. Pat Cash. Pirata volleatore con la bandana a scacchi sulla folta chioma svolazzante, che si fionda a rete per assaltare il fortino. Australiano tipico, ortodosso del serve&volley gaudente e spettacolare. Radenti voli dopo il servizio, ad assecondare la rete, domarla con voleè piazzate, preludio a quella definitiva. Ora una sciabolata tagliente e finale, ora un delicato colpo di fioretto. Nel pieno stile dei canguri australiani da erba. Non avesse fatto il tennista, avrebbero sfruttato quella faccia intensa, spigolosa ed irregolare, per farne un attore del cinema. Il buono con l'espressione da duro degli spaghetti western, che annienta il fieramente cattivo Ivan Lendl, vincendo Wimbledon 1987. Rimarrà nella storia, la selvaggia ed irriverente scalata sulle teste incensate degli ottuagenari ed imbalsamati spettatori dell'All England Club, per raggiungere i suoi familiari. E' stato quello, il punto più alto di una carriera dignitosa, che avrebbe potuto essere grandissima, se quel fisico possente e menomato, avesse retto meglio le continue volate esplosive, come la molla di una fionda, o una cerbottana velenosa. Tra una volè e l'altra, un infortunio, operazioni, ritorni ed una schiena scricchiolante, mai guarita pienamente. E Pat, il canguro erbivoro dall'espressione piratesca, continua a giocare, tirare volèe e divertirsi nel circuito senior, più in forma ora, a 44anni, di quando ne aveva 25.
5. Petr Korda. Ragazzo ceco col fisico da anitroccolo deperito ed un braccio rivestito d'oro zecchino. Nato per ammorbidire palline e disegnare nitide geometrie sul velluto. A metà tra l'eccentrico e il surreale, lo vidi sul centrale di Fluishing meadows, opposto ad Andre Agassi. Lo yankee multicolore nato a Las Vegas, maleducato e sgargiante come un bacherozzo mutante, ed uno sconosciuto ragazzo dall'aria afflitta, nato nelle sperdute lande della Cechia. E il povero figlio dell'est ribatteva le palline infocate del parruccone americano, con disarmante semplicità. Rasoiate radenti di rovescio, che restituiva dall'altra parte al doppio della velocità. Come saette di ritorno, senza alcuno sforzo, semplicemente con la sensibilità di quel braccio esile e bianchiccio. Una specie di Mecir, meno gattone, ma forse ancor più incisivo. Quel bizzarro ceco coi capelli biondi e dritti i testa, e la perenne espressione da cartone animato disegnato male, raccoglie meno di quanto il suo sconfinato talento, avrebbe consentito. Come tutti i geniali artisti inconsapevoli, si esprime a sprazzi. Tra grige giornate svogliate, ed ispirate sinfonie che somigliano a deliri orchestrati dagli dei. Perde in finale a Parigi da Courier, continua a barcamenarsi tra mediocrità e violenti picchi di chi non è campione, ma se in giornata di grazia, i campioni li batte. Poi, oramai trentenne, alla stagione d'addio, gli riesce l'ultima sinfonia. Vince l'Open d'Australia, ed è giusto così. Perchè uno come Petr che abbandona il tennis senza aver vinto uno slam, è come Gesù che invece di moltiplicare i pani, prende a ceffoni i pescatori affamati, imitando belzebù.
6. Goran Ivanisevic. La follia pura, applicata al tennis. L'irascibile croato, più matto di un cavallo matto, è stato tutto ed il contrario di tutto. Bagliori autentici di talento cristallino, fra le crepe di una mente votata all'autolesionismo, ed occhi pazzi. Tra servizi mancini debordanti, attacchi a mente spenta, crisi di nervi, volèe uncinate, racchette frantumate, appariva l'ennesimo talento incompiuto. Quella del croato smilzo non era follia creata ad arte, come i tanti replicanti dei giorni recenti, ma indole innata. Goran era nato per mostrare gran tennis, guardare il mondo con occhi inquieti e folli, e farsi del male. Fallisce più volte d'un soffio il trionfo nell'adorato torneo di Wimbledon, crollando proprio sul filo del traguardo. Arriva il 2001, e la sua schiena è oramai ridotta in tanti brandelli, tenuti assieme da ragioni che sfiorano il misticismo. Come il cervello, insomma. Un purosangue pronto al malinconico abbattimento. E dove vuole andare quel matto, se nemmeno il fisico regge più? Si presenta ugualmente ai nastri di partenza, partendo dalle retrovie. Quasi sospinto da forze sovrannaturali, esce vincitore da una serie di battaglie giocate col coltello a serramanico tra i denti. Arriva in fondo, tra l'incredulità generale. In finale, quasi per un sortilegio divino, un film scritto da menti sadicamente malvage, trova un altro malinconico campione all'ultimo guizzo, Pat Rafter. Il croato folle è ferito, stanco ed elettrico. Una molla rattoppata che procede per inerzia. Pare un reduce di guerra con irreversibili turbe psichiche. Ma raccoglie le ultime stille di energia per vincere l'agognata coppa di Wimbledon. Perchè al mondo v'è giustizia.
7. Pat Rafter. Esplosivo vollatore australiano, con la faccia angelica da bravo ragazzo dannato. Servizi come frustate elastiche, e la rete aggredita in modo dirompente ed ossessivo. Un puma assetato ed elegante, che morde il nastro e copre la rete con balzi di esplosiva fluidità. Potenza, esuberanza fisica imperiosa e dolcezza di mano, che si mesciano, per farne il prototipo dell'attaccante naturale. Una ammaliante complusività, densa di stilosi gesti tecnici. Erede naturale di Pat Cash, ed ultimo esponente della scuola di volleatori erbivori australiani, oramai tragicamente estinta. A suon di discese a rete, si ritagliò un posto importante, tra il regno del terrore di Sampras, e gli anticipi robotoci del flipper Agassi. Come crocodile dundee che ipnotizza e squarta i cocodrilli che infestano la rete. Rimasi folgorato da una sua esibizione sulla lenta terra di Parigi, commentata da un eccitato bisteccone Galeazzi. Incurante della superficie inadatta, dei tremendi arrotoni del terraiolo doc Bruguera, e di tutto il resto, lottò e (ovviamente) perse, in un continuo ed ossessivo piano tattico d'aggressione, come a non voler pensare al domani. Trionfa due volte a New York, ma per un bizzarro gioco del destino, non riesce mai a vincere sui veloci prati in erba di Wimbledon. Proprio laddove la soffice e (allora) velocissima erba, era proscenio ideale per le sue volèe da sanguinario coguaro acrobatico. Nell'ultimo anno di carriera, cede 9-7 al quinto a Goran Ivanisevic, in una finale per cuori duri ed insensibili. Smette ancora giovane ed in auge, perchè la schiena non regge più, e la mente non è più capace di assecondare i vorticosi ritmi del circo.
8. Henri Leconte. "Riton" Leconte. Un magnifico quadro d'autore venuto male. Espressioni da francese tutto pernacchiette, moine e smorfie teatrali. Una specie di Alain Delon sessantenne, col triplo mento e la pancetta da acqua bertier, a metà tra l'impiegato del catasto ed un contadino bretone ebbro di vino, col viso rubizzo. Eppure, sul campo era capace di creare tennis dal nulla, come pochi, a suon di ricami e anticipi, come lampi, quasi in demivolè da fondo campo. Mancino come tutti gli altri geni. Oscenamente incompiuto ed incostante, da autentico artista naif. Una specie di onda increspata del mare, simile ad un boccolo riottoso di schiuma, che asseconda il venticello dispettoso. Sempre tra alti e bassi, ispirazioni celesti ed avvilenti amnesie. Col solo braccio, quasi parte a se stante dotata di vita autonoma ripetto al fisico ineistente ed alla mente fulminata, raggiunge la finale di uno slam, in casa sua, al Roland Garros. E la gioca quasi in catalessi, bianco in volto come un cencio, completamente svuotato e bloccato da una ottundente pressione cerebrale. Contro Mats Wilander, raccoglie un paio di games negli ultimi due set, e qualche immeritata salva di fischi, da un pubblico che non lo ha mai amato troppo.
9. Yannick Noah. Sono passati 26 anni, da quando un ragazzo francese nato in Camerun, trionfò nel torneo di casa, nel regno di Parigi. Capelli rasta, fisico imponente ed atletico, atteggiamento guascone e carisma naturale, che ne fece un idolo assoluto della gente. A metà tra il ballerino tribale, lo spadaccino ed il pugile, Yannick rimase nel gotha tennistico degli anni 80/90, senza mai riuscire a ripetere l'expoloit parigino, ma continuando ad infiammare platee adoranti. Grazie ad un tennis senza colpi vincenti, ma primordiale, brutale e spettacolare. Uno tsunami inarrestabile, prodigio nefasto di una natura inarrestabile. Il figlio delle colonie francesi continuò ad abbrancare volèe, agganciare palline in cielo a piè pari, con virtuosismi atletici mai visti, e schiacciarle con smash di potenza devastate. Autentico aizzatore le folle, anche per via di un carattere da show man istrionico.
10. Stefan Edberg. Lo svedese di ghiaccio, può apparire anche una sorpresa nella mia classifica di svitati, con le pieghe del genio tra le nervature del braccio, e la pazzia fluttuante nel cervello. Ma Stefan era qualcosa da studiare nelle scuole tennis o negli uffici della nasa, come perfezione assoluta del gesto tecnico. Servizio e volè continuo, su prime e seconde palla lavorate, non per fare il punto, ma per cogliere l'attimo fuggente, e riuscire ad agganciare l'adorato nastro della rete. La arpionava con placida e gradevole ossessione, lavorando la più bella volè di rovescio d'approccio che abbia mai visto. Fluido e sinuoso come l'algido cigno, che sguazza elegante, su lande innevate ed abbaglianti. Vederlo volleare come stesse danzando su nuvole ovattate, riusciva a far dimenticare un carattere gelido e distaccato, da insopportabile gentlemen, a tratti castrato e incastonato nel gesto tennistico. Ha la ventura di imbattersi nei campioni nati a cavallo di due generazioni formidabili, gente della levatura di Becker, Lendl, Wilander, Agassi e Sampras. E la cosa non gli impedisce di arrivare al numero uno e vincere sei tornei dello slam. In epoca di moria delle vacche, ne avrebbe portati a casa una dozzina.

mercoledì 16 dicembre 2009

CLASSIFICA DELLE DIECI TENNISTE PIU' SEXY AL MONDO. NEL COLPIRE UNA PALLINA

Mi è venuta in sogno Mara Carfagna. Qualcosa di simile ad un incubo mortale, insomma. Portava un copricapo simile alla pulzelletta d'Orleans, ed era acconciata e vestita come Rita Levi Montalcini - versione settant'anni più giovane, ma con settanta mila trigliardi di neuroni in meno -. Mi guardava con occhi spaventosi. Poi ha squillato con tono severo: "E lei, miserabile blogger, non ha mai scritto un post sulla classifica delle donne che preferisce. Cos'è lei, un maschilista? Un invertito? E' forse un attentatore islamico? Uno di quei mussulmani, che considerano noi donne come oggetti?".
E allora, pena la dolorosissima chiusura di questo spazio, provvedo. E con grosso esercizio di fantasia, ne ho trovato dieci.

1 - Maria Josè Martinez Sanchez. Dopo un decennio speso tra goffi e suicidi voli nei campi secondari, la mancina iberica è riuscita a crearsi uno spazio nel tennis che conta. Simile ad una gioviale utopia. Da giovane falena morente e rassegnata, a graziosa e variopinta farfalletta volleatrice. Svolazza e ricama, progettando evoluzioni incantatorici, lievi e intermittenti. Quasi brandendo un fiorellino di lillà in mano, ischerza top ten nitrenti e starlette agghindate all'ultimo grido. Lotta alla pari contro erculee vatusse dalla pelle d'ebano o pachidermiche russe dal randello fumante. Quello della mancina di spagna, è un tennis che riconcilia alla vita leggera, ed al tennis giulivo. Servizi mancini e volèe temerarie, drop shot in risposta, pallonetti fuori dal tempo e da schemi oramai appiattiti e sempre uguali. Un altro drop, una stop volley, un tuffo a rete, e ancora ginocchia sbucciate nel tentativo di arpionare un passante che pesa una tonnellata, con braccio leggero. Un garrulo balzello via l'altro, Maria Josè, a 27 anni, arriva tra le prime trenta, e domina nei tornei di doppio. Rende semplice quello che sembrava soltanto un disegno fieramente suicida. Scombinare grigi progetti di un tennis stereotipato, monotono, giocato ad occhi chiusi, e senza cervello. A volte prevale con gaiezza leggera, spesso si espone fragile ed indifesa, ai grigi cannoni dell'orrore insuperabile. E tanto basta.
2 - Romina Oprandi. Una vezzosa tortorella, nata per sfidare leggi non scritte. Banali e scontate, per il solo fatto di essere leggi. La pingue e goffa ragazzotta bionda cresciuta tra i monti svizzeri, si trasforma come d'incanto, in leggera tortorella che ammanta, calamita e ricama guadenti palline smorzate, come foglie mortenti, che assecondano un venticello inquieto. Tra giovanili consacrazioni, un indimenticabile torneo romano, muscoli e tendini lacerati, ostinati tentativi di ritorno, e rassegnazioni mascherate dallo scoramento, prova a riprendere quel volo quasi surreale, e rivestito da un alone di magia inspiegabile, stroncato sul più bello. Rema e annaspa, ferita e semovente. Col braccio che porta ancora i segni visibili del tremendo sfregio, ritorna in sordina. Ogni volta convinta di poterla spuntare, anche contro malvage leggi della medicina, che hanno emesso il crudele verdetto. E intanto vince qualche partita. Riavvista le prime duecento. Aspettando la prossima smorzata. E un'altra legge, di cui prendersi burle.
3 - Kimiko Date. La favola dell'ardimentosa piccola samurai con gli occhi a fessura. Docili e minacciosi. La racchetta, nelle sue minuscole manine gialle, pare una spada enorme, buffa e smisurata. Lei così piccina, con braccia e gambe tanto corte, da fare tenerezza. Rintuzza e colpisce con coraggio, d'anticipo, sfruttando altrui mattonellate dissennate. Trotta con passetti brevi e fulminei, si tuffa a rete senza paura, gioca volèe tanto arrangiate, quanto graziose nella loro kamikaze temerarietà. Metodica, calma e combattiva come un tascabile guerriero del sol levante. Perchè la vera forza sta dentro di noi, vien da ripetere guardando quella zazzera svolazzante su un fisico gracile e minuto. Porta i suoi 160 centimetri scarsi col nasino sulla rete, ed al numero 4 al mondo. Più non poteva. Dice basta a 26anni. Ritorna tredici anni dopo, senza clamori, come fosse cosa normale, alla soglia dei quarant'anni. Con lo stesso sguardo arrembante, e mostrando grandezze impalpabili ed invisibili all'occhio mano. Vince un torneo battendo tre top 20, e rientra tre le prime cento. Con la semplicità delle cose grandi. Aspettando un altro assalto aggraziato.
4 - Carla Suarez Navarro. La sagoma da paperotto sghembo che cammina scoordinato e goffo, con la gambe grassocce sotto un ridicolo gonnellino ondulato. Riccioli corti in testa, faccia e denti da roditore, ma con un melodioso rovescio classico, che te lo affetta e suona in tutte le salse. Una specie di simpatico ed inoffensivo cartone animato, che si anima trasformandosi in tigrotto di Mompracem. E tira il più bel rovescio ad una mano del circuito femminile. Il modo in cui disinnesca e poi attacca e batte l'erculea portaerei Venus Williams, è quasi esercizio di scherma ricarcata. Come fosse mirabile spadaccina baffuta e con l'apparecchio ai denti sporgenti. L'illusoria fiammella di speranza iniziale, si spegne progressivamente. Dopo una stagione costellata da infortuni e sconfitte in serie, il futuro rimane un mistero buffo. Come ogni cosa, del resto.
5 - Roberta Vinci. Il vintage italiano al potere. Roberta Vinci da Taranto, non è una campionessa. Non lo sarà mai. Emerge come doppista assieme a Flavia Pennetta, della quale è infinitamente più dotata. La differente carriera di entrambe, è sotto gli occhi di tutti. Il fisico non è tutto, ma è parecchio, del resto. E con quel corpo da fantino, Robertina riesce a fare miracoli. Tragliuzza e affetta la palla come poche. Attacca e gioca con sensibilità di mano, e classicheggianti schemi da tennis anni '70/80. I discreti successi ottenuti, e la costante presenza tre le prime cinquanta al mondo, somiglia ad un prodigio che ripaga la tecnica ed un tennis leggero. Con l'innegabile sfizio, ogni tanto, di mandare al manicomio avversarie più fisicate, ma dal tennis lobotomizzato. Semplicemente stordendole col rovescio in back. Perchè, per sua stessa e soddisfatta ammissione "certe ragazze sono proprio stupide, colpiscono forte e ad occhi chiusi. Basta rimandargli una palla lavorata, e non capiscono più nulla.". Non è molto, ma è abbastanza.
6 - Amelie Mauresmo. Il magico mondo di Amelie, ha chiuso il suo sipario. A trent'anni, ha deciso di mettere fine alla sua carriera. Forse trascinandosi un paio d'anni di troppo, con comparsate mediocri che non le rendono pienamente onore. Passo maschio e portamento da sceriffo baffuto, spalle muscolate da minatore kazako, mascella prominente e tatuaggi da biergastolana inoffensiva. Ci sarebbe tutto per evitare accuratamente ogni suo incontro. Poi osservi qualche scambio, e rimani incantato dalla classe di Amelie. Tennista completa, attaccante che sa fare tutto con una racchetta in mano, modellando palline con tocco virtuoso. Sovente soffocata dalla tensione nei momenti chiave. Una coltre d'angoscia che l'avvolge e le fa tremare la manina sul più bello. Malgrado i tentennamenti da amazzone, con le stesse debolezze caratteriali di un uomo fragile, arriva al numero uno, trionfa a Wimbledon, dove non si vince mai per caso. Poi qualche infortunio ed un sempre crescente logorio mentale, la fanno scivolare nel limbo delle normali. O in quello delle talentuose senza carattere. Il confine tra il "magico mondo di Amelie" e la saga degli "orrori autolesionisti della povera Amelie", è sempre labile. Comunqe sia, mancherà parecchio a chi ama il buon tennis.
7- Jelena Dokic. Eccola, un'altra lolita del tennis. Si disse. Bionda, caruccia, bizzosa ed agonista indemoniata. Aizzata da genitori-allenatori-domatori-aguzzini a masceherare la fragilità, con feroce livore da guerra sportiva. Riescono a costruirle attorno un castello di carta pesta, finto, doloroso e subdolo. Come tante, troppe. Da campioncina ossessionata, vittima impotente di violenza fisica e psicologica, a ventisettenne ragazza matura di media classifica, coi tratti del viso finalmente addolciti e distesi. Da Wimbledon a Latina. Passando per tristi storie di schiavitù folli, di un padre-padrone orco, che l'ha usata come scudo verso i propri fallimenti d'uomo, ad apparizioni nei tornei minori. Umilianti per molti. Non certo per lei, che ha conosciuto quella reale, che trascende un torneo, o la perdita di un quindici. Con forza interore fuori dal comune, si ricostruisce una carriera decorosa, anche come risultati sportivi. Oramai donna, perde e vince, e pò pensare che non è poi la fine del mondo. Come una normale numero 60 al mondo, libera.
8 - Melanie Oudin. Niente di speciale. Ma nell'orrore, emerge anche la normalità, quasi fosse una gemma preziosa del momento. Tra tante invasate scalpitanti e grugnenti agonismo di marzapane scaduto, mancate top model riciclate al tennis, imponenti ed insensate picchiatrici selvagge, la teenager americana mi è apparsa un miracolo della semplicità. Faccia da biondina americana cresciuta a base di cheesburger e patatine fritte, mascella paffuta e volitiva, occhi grandi e vispi da giovinetta impertinente. Fisico minuto e tracagnotto da torello, agonismo genuino e mai ossessivamente fuori luogo. Se a questo si aggiungono bei colpi al rimbalzo, piatti e poco arrotati, maturità e solidità mentale impressionanti, soprattutto per una diciottenne con la faccia da cenerentola disincantata o eroina della pubblicità dei bubble-gum, si ha il quadro nitido di una grande promessa. Si rivela a Wimbledon, esplode a New York, trasformandosi in irriverente nipotina di Jimmy Connors. Mi gioco qualcosa di importante, se lo trovo, che entrerà, prima o poi, tra le prime dieci al mondo. E lo scrive uno che aveva pronosticato un futuro da top 20 a Franck Dancevic. "Ad occhi chiusi, profetizzai". Per dire.
9 - Sorana Cirstea. Calderoli, Borghezio et similia, mi perdoneranno. Il giovin leprotto dei carpazi, rumena con arrembante coda di cavallo corvina, è una discreta tennista. La sua è una presenza puramente simbolica, per tragica esclusione. Al suo posto potrei inserirne un paio di dozzine. In soldoni, tutte quelle che hanno battuto almeno una esponente del triunvirato. Quello della strepitante insipienza smidollata e urlante. Quale? Sharapova-Ivanovic-Jankovic.
10 - Anna Kournikova. Già vi vedo strabuzzare gli occhietti. "Sto Picasso è partito di melone definitivamente!". E invece c'è una spiegazione, tremendamente logica. Peccato che io non abbia una logica, in niente. La prima, è che dovevo pur arrivare ad elencarne dieci. Poi, ammettiamolo, è davvero bella ed elegante, Anna. Bionda, sinuosa e femminile. Con un sorriso accattivante, maliziosamente innocente. Precursore inconsapevole del tremendo filone successivo, fatto di top model imprestate al tennis, e che continuano a sfilare e sfoderare sui campi, il loro nulla fastidioso. Odo in lontananza "Vabbè, questo ce lo siamo giocato.". Ma lei, la siberana autentica, con atto di grande onestà, compreso di riscuotere più successo altrove, ha optato per il mondo luccicante della moda, abbandonando la racchetta. Mai fastidiosa, quando giocava. Non trascinandosi più su un campo da tennis, rimane la migliore di tutte. Al più, ancora giovane, si limita a divertenti e gradevoli esibizioni in tornei veterani.

domenica 6 dicembre 2009

La Spagna si prende la Coppa Davis



Non è che ci fossero molti dubbi sull'esito finale. Ma se si esclude l'ammirevole tentativo di Stepanek il venerdì, è stata una finale assai deludente. Vinti i due singolari, gli iberici si sono giocati il match point nel doppio, schierando una coppia poco affiatata, ma di livello e ben assortita: Anvedi come perde Nando Verdasco (alias coraggiosissimo impalmatore di serbiatte) e Feliciano Lopez, il fotomodello volleatore.
Dall'altra parte, il capitano ceco prova a tirare due totani morti dal cilindro: Radek Stepanek (alias temerario impalmatore di serbiatte-bis), gran protagonista sconfitto ieri, ottimo interprete degli schemi di doppio, ma attempagto e per giunta ciucco di fatica come un mulo tibetano, affiancato niente meno che da Thomas Berdych, che già in singolare si era dimostrato di una imbarazzante pochezza. Pretendere che il tacchino sparacchiante giochi un buon doppio, è come chiedere ad una vongola verace di recitare a memoria la Divina Commedia. Navratil, omaccione con antologica capigliatura da tamarro anni '80, deve averci pensato tutta la notte, ed alla fine, in quel testone abnorme ha concluso che Stepanek-Berdych fosse proprio un gran bel doppio. Ah, si. In fin dei conti, niente di così strano. C'è una logica di fondo. Si era illuso che sommando due giocatori di maggior livello individuale, si avessero più chance che con una coppia semi-sconoscita a livello individuale, ma competitiva nei vari tornei di doppio. Doveva solo scegliere il modo di perdere. Ha optato per il peggiore.
Bene inteso, vedo solo il terzo set. In campo è dominio totale degli iberici, che si completano a vicenda. Nando, in forma monumentale, tira gran saette a rimbalzo, e risposte martellanti. Feliciano si limita a timbrare il cartellino, servendo bene ed esibendo buone volèe, perchè è uno dei pochi a saperle giocare ancora. Dall'altra parte, qualcosa che sfiora la tragicommedia, nemmeno Fantozzi-Filini al torneo aziendale dell'ufficio sinistri ("Vadi ragoniere, vadi...", "No geometra, vadi lei!".). Stepanek, complice anche una faccia che aiuta, sembra un cadavere deambulante. Berdych approccia le volèe, come se dovesse ogni volta ammazzare un piccione con una scudisciata. Tremendo.
Vincono gli spagnoli in tre set, e portano a casa anche la coppia. Bene, bravi. Gioia, tripudio, vamos a go-go. Bene per Nadal, che chiude una stagione difficile, con un successo importante, benchè di squadra (anzi, squadrone). E non sto qui a dirvi la fregnaccia della coppa Davis più importante di uno slam, un campionato del mondo a squadre, etc...Che già ci pensano Galeazzi e l'ottimo Barazzutti, quello si, un doppio spumeggiante. La Rai infatti, rispolvera a sorpresa Bisteccone, al posto del povero insipiente Fabretti. Forse qualcuno si sarà accorto di quanto risultasse penoso per gli spettatori, ma anche per lui stesso. E Giampiero da il meglio di se stesso. Stanco e annoiato, ogni tanto grugnisce farfugliando frasi incomprensibili su toreri e plaza de toro. Poi all'improvviso piazza la zampata del campione, come gattone Mecir. Galeazzi, bene inteso, non è minimamente aggiornato. E' rimasto fieramente ancorato al torneo di Roma 93', ai vari Becker, Muster, Perez Roldan, Gaudenzi...Ma se ne sbatte e non lo nasconde. Ha il gran pregio di non prendersi troppo sul serio o dimostrarsi gran saccente, per poi prodursi in figuracce ignomignose. Per dire, sul finale, in non chalance, piazza la stoccata da iperbolico allegorista ridanciano. Stepanek gioca una demivolè, quasi scavandola dalla terra, e lui: "Questa qui è la famigerata volè alla pescatrice...". Per dire.

sabato 5 dicembre 2009

Finale di Coppa Davis, Stepanek l'incompiuto


La versione menomata e rabberciata di Rafa Nadal, basta e avanza per portare avanti la Spagna sulla Repbblica Ceca. Di fronte a lui, la più fulgida espressione del nulla fattosi tennis, Thomas Berdych. L'iberico lotta per un set contro fantasmi e malanni, poi domina in scioltezza. Barazzutti ed il solerte Fabretti, non perdono tempo a rammentarci quanto il maiorchino giochi corto, lo rimarcano con petulanza insostenibile. Lo sappiamo da quattro mesi buoni. Lo sanno anche le massaie di Bagheria e le mondine di Brugherio. Il capitano azzurro, si lascia avvolgere dalla spirale insopportabile del Fabretti, per il quale la rai non riesce ancora a trovare un impiego da vice aiutante ciabattino. Eppure all'inizio pareva dominato e silente, ponderato a non esporsi alla proverbiale sequela di amenità. Ma lasciamo perdere, quando la tivvì di stato metterà una scimmia marsupiale o un pappagallo ara, a commentare il tennis, sarà sempre troppo tardi.
Un umile Nadal ridicolizza la spocchia insipiente e addirittura baldanzosa del ceco. Sembra un paradosso, al limite una minchiata, ma è la spiegazione di tutto. Berdych è l'eterna promessa, mascherata da mistero buffo. Uno smunto ragazzotto con la stessa intelligenza tennistica di una cicoria. E il tacchino albino imbalsamato e sparacchiante, si esibisce. Si piazza in mezzo al campo come una semovente statua di piombo e tira drittacci, dentro o fuori. Sempre fuori. Non saprei se definirlo tennis lobotomizzato o idiota. Propendo per "picchiatore demente". 7-5 6-0 6-2, e tutti a casa. E sfido chiunque a convincermi che il ceco sia un tennista. L'attuale John McEnroe, o Stefan Edberg, avrebbero offerto una resistenza più decorosa, ad un Nadal comunqe buono. Breve digressione a proposito dello svedese, che in forma smagliante, lascia le briciole ad El Aynaoui e Philippusis, nel Master veterani di Londra.
Secondo match, e con mia grande sorpresa, scopro che il capitano spagnolo rinuncia alle fatue evoluzioni circensi di Nando Verdasco, schierando David Ferrer. Voglio dire, Ferrer. Vivido orrore mi percorre le vene, mesciandosi all'alcool. Una scelta di pavida sicurezza. Al posto di un imprevedibile top player perdente coi più forti, un ingobbito regolarista terricolo di seconda fascia, che se quelli di mezza classifica giocano male, l'incontro lo porta a casa. Ma al limite. Quando si dice la lungimiranza. Opposto al numero due (cinque o sei) di Spagna, lo stagionato ma sempre gradevole volleatore ceco, Radek Stepanek. Perennemente mezzo principe e mezzo ranocchio, ma che da oltre un decennio delizia le platee di mezzo mondo, col suo tennis d'attacco, completo ed imprevedibile. E pazienza se il guizzante Fabretti ce lo introduce come "tignoso giocatore da terra battuta". Che ne sa il miserrimo, lo avrà visto giocare bene solo a Roma. O meglio, lo avrà visto a Roma, e basta (impegnato a commentare la Roccasecca-Santamaria Capua Vetere, di ciclismo amatori over 75). Dopo un simile virtuosismo, decido di eliminare il sonoro, e far tacere per sempre l'inverecondo topo gigio squillante.
Accade che Radek si produce in un inizio semplicemete meraviglioso. Pura goduria dell'anima. Una sconfinata gamma di tocchetti, ricami, smorzate, attacchi, rovesci vincenti, difese della rete da satropo danzante. Tennis meraviglia. Reggerà anche nel secondo set? Mi chiedo. Il povero arrotino iberico, rema spaesato. Il tapino, quasi conscio del suo orrore, non sa e non puo' fare nulla contro un tennis simile. E seguita ad arrotare come un maniscalco frustrato e pure falloso. Lo spettro di Nando Verdasco, con capigliatura alla Little Tony, comincia ad aleggiare sulla Spagna. E Stepanek, con la brutta faccia delle migliori occasioni, insiste nel suo spettacolo. Colpi facili, leggeri e morenti, come foglie smosse da un venticello ispirato. Simile a una danzatrice in calzamaglia, che accarezza nuvole melliflue, in punta di piedi. Una umiliante lezione di tennis, con tratti di sadismo divertito. Reggerà anche nel terzo? Mi chiedo. Senza sonoro, mi attanaglia il morbo insipiente di Fabretti, forse. E intanto, incurante dell'ignobile gazzarra sugli spalti, degna della corsa dei tori di Pamplona, vola 6-1 6-2.
Non sono un menagramo, E' normale non fidarsi. Il ceco col volto di ramarro e dalla mano benedetta, più volte si è smarrito, dopo inizi abbaglianti. Basta conoscerli, i propri ram-polli. Ed infatti, appena rallenta il ritmo, la pantegana iberica rialza l'orrida testolina. Corre e arrota incurvato. Il match diventa battaglia estenuante, Stepanek non riesce più a danzare con continità su nuvole ovattate. Affonda nel marasma delle sabbie mobili accuratamente preparate dagli spagnoli. Nadal, cui la coppa Davis dona uno spirito da invasato mica da ridere, si agita tutto in panchina, con la faccia da giamubrrasca indemoniato, fa un tifo infernale. Di quelli che ti fa venir voglia di prenderlo a racchettate nelle gengive, se per sventura ti aggrada l'avversario.
Il terzo va allo spagnolo. Con sommo dispiacere devo abbandonare la visione. Ho un tavolo prenotato da "Angioletto il guercione". Una raffinata cenetta a base di pesce, bagnata da un bianco greco di tufo, niente male. E infatti me ne trinco due bottiglie. Mica pagavo io. Penso che Stepanek, elegante, stremato e semovente, finirà per cedere 13-11 al quinto, al pedalatore di Spagna. Stamani, leggo 8-6 al quinto Ferrer. Cambia poco. Peccato, avrebbe potuto riaccendere una finale dall'esito scontato.
A proposito di tennisti "taratuffi" - le ostriche proletarie - Petzschner perde da (Brands chi? boh.) nei quarti a Salisbrgo. Che gran peccato. Ero pronto ad arrivarci a piedi, in caso di finale Koellerer-Petzschner.

lunedì 30 novembre 2009

Master di Londra, Davydenko incoronato Mastro




Un Master fatto di grande equilibrio, partite combattute, in cui tutti battono tutti e perdono con tutti. Provo a mettermi nei tristi panni della Gelmini, e fare un bilancio scolastico. Tra Maestri russi dalla spaventosa sagoma draculesca (Davydenko), rudi professori emergenti (Del Potro), supplenti esaltati (Soderling), annoiati presidi dal sangue blu (Federer), simil-Pierino virtuosi dell'onanismo acrobatico (Murray), bulletti senza cervello (Djokovic), ex capi d'istituto rivoluzionari (Nadal), studentelli pavidamente zompettanti (Verdasco).
Davydenko: 8. La forza della schiva semplicità al potere. Il cencio esangue, senza capelli, e che porta a spasso spallucce scoscese e fisico da cavalletta deperita, diventa il meritato “maestro dei maestri”. Stretto in una maglietta accollata, e pantaloncini ascellari di fantozziana memoria, esibisce un tennis essenziale, pulito e utile alla bisogna. Tutt'altro che gradevole a vedersi, ma al tennis gioca meglio di tanti sopravvalutati fantocci tracotanti da prima pagina. Piedini artritici sempre piantati nel campo, e continui anticipi da play station. Senza mai arretrare di un centimetro, il nostro bell'eroe transilvanico, sfinisce un Federer svagato, e in finale disinnesca le alabarde infuocate di Del Potro. Con la forza della semplicità, e sfruttando l'arma dell'anticipo, e angolazioni esasperate. Davydenko è il più forte dei non campioni. E quando campioni non ce ne sono o giocano con sufficienza urticante, lui la partita la porta a casa. Con modestia ed umiltà operaia trottante. E alla fine Nosferatu sorride gentile, quasi schernendosi. Un refolo di ammirazione sgorga spontanea, pensando a quando ha ammesso con candore, che non vincerà mai uno slam. Nell'epoca in cui cani, porci e simil Bolelli indisponenti, fanno proclami altisonanti e fuori dalla grazia di Dio, vien (quasi) da tifare Davydenko.
Del Potro: 6,5. Perde, vince, perde ancora. Ma lascia l'impressione che lo ritroveremo a grandi livelli per un decennio. Reduce da acciacchi fisici, e meritati sollazzi con la leggiadra Yanina, non lo credevo capace della finale. Riprende un match quasi perso contro Soderling, esibendo carattere da scafato combattente della Pampa. Più che l'evidente roncola furente, a colpire è la solidità mentale raggiunta dal ventenne bombardiere dagli occhi taglienti. In finale non riesce mai ad entrare in partita, restando con il colpo in canna, disarmato dalle angolazioni prodigiose del russo. Qualcuno dovrebbe spiegargli che nei pressi della rete non ci sono branchi di piranha affamati.
Federer: 5,5. Sua maestà danzante sulle punte, quasi annoiato dal ciarpame volgare e petulante. O se volete, giovin signore bizzoso ed accigliato, per l'insolenza della schiavitù, che osa destarlo dal riposo dei giusti. Comincia ogni partita in babbucce e vestaglia di kashmir. Svogliato come chi è obbligato a tirar banali palline. Si presenta a Londra vagamente inquartato e semovente, ma soprattutto svuotato mentalmente. Incredibili passaggi a vuoto e partenze false, più facilmente recuperabili nel tre set su cinque, che non nelle partite al meglio dei tre. Deprecabile atteggiamento di fastidio, dritti raccapriccianti e scalcioni a palline, neanche fosse un Ferrer talentuoso. Perde ancora con Del Potro, calato oramai nella parte di arrembante killer spietato. Arriva comunque in semifinale, ma basta un Davydenko qualsiasi per rispedirlo alle meritate vacanze, alle gemelline, e a gozzoviglianti banchetti a base di amorevoli manicaretti preparati da Mirka.
Soderling: 6,5. Eroe per caso. Chiamato all'ultimo minuto come riserva di Roddick, non lo fa rimpiangere (non ci voleva poi molto). Immaginate un boscaiolo eremita, in arrotolate maniche di camicia scozzese a quadrettini rossi e neri. Spacca i suoi tronchi d'abete nella quiete assordante della montagna, e d'improvviso impazzisce. Brandisce l'accetta come a voler sterminare tutti, in piena trance omicida. Strabuzza gli occhi orrendi e appallati, e gioca partite da esaltato psycho killer della racchetta. Ecco, così vedo Soderling. Sorprendente semifinalista, arriva ad un passo dallo sfondare anche Del Potro, smarrendosi sul più bello. Pervaso dal talento cristallino dell'antipatia naturale, se ne va imbufalito, infischiandosene di speaker e saluti al pubblico.
Djokovic: 5. Avvezzo ad eufemismi e fregnacce, mi sembrava il più in forma di tutti. Nel circostante clima da gita di fine anno, infortuni, e squilibri mentali, rimaneva il più accreditato alla vittoria finale, sfruttando la sua oscena regolarità. Non gli riesce neanche quello. Paga una sola sconfitta, disarmante e avvilente, contro un Soderling esagitato. Lo vedremo nel 2010. Purtroppo.
Murray: 5. Che dire. Un inerme fuscello iracondo, che rema frustrato, in balia delle roncole altrui. Oramai schiavo di un presunto talento, e delle sue, sovente suicide, capacità strategiche. Si attende sempre che inizi a giocare. E non lo fa mai. Per carità, sfortunatissimo nell'uscire per differenza games (uno). Altra tragedia per gli inglesi in crisi d'astinenza, arrivati ad innamorarsi di un figlio dell'odiata terra scozzese.
Verdasco: 4. Anvedi come perde Nando, è sempre lui. Il mio mito. Zompettante agonista di plexiglas. Dal famigerato 6-4 al quinto patito con Nadal a Melbourne, il secondo mancino di Spagna s'è inventato perdente di gran temperamento cinematografico. Vero artista della sconfitta acrobatica. Uno sconfinato repertorio da virgulto, servizi velenosi, attacchi mancini, angolazioni ed anticipi briosi, volèe e difese della rete acrobatiche. Anche a Londra gioca alla pari e a tratti meglio di tutti, ma finisce sempre con lo scivolare goffamente sul traguardo, come Dorando Petri. Oramai lo sanno tutti.
Nadal: s.v. L'unico a non vincere nemmeno un set. Da quando è tornato, è sempre crollato miseramente al cospetto dei primi dieci. Niente di nuovo, dunque. Eppure m'ero illuso che a Londra potesse scovare residue riserve d'orgoglio. Ma senza forza, chi ha fatto del tennis muscolare una ragione di vita, non può nulla. L'anima finisce per perire, agonizzante, non sorretta da quel fisico gladiatorio, esasperato in modo folle, per diventare quello che era. Finisce per assecondarlo tristemente, con rassegnazione. Sforzandomi nell'esercizio della metafora raffinata, il Nadal attuale è come un uomo senza pene, che pretende di infilarsi un preservativo. Uno e trino, essendo anche ferrato in preparazioni atletiche e medicina dello sport, posseggo in tasca l'unica soluzione. Sbattersene di sponsor, classifiche e punti, e stare fermo per sei mesi. Aspettare che le giunture possano nuovamente sopportare il suo tennis sovrumano, per qualche anno ancora. Anzi, vi preannuncio una trattativa in corso con zio Toni. Vedremo, chiedo molto: Una cassa di beck's giornaliera.

sabato 28 novembre 2009

Master di Londra, Davydenko e Soderling passeggiano sullo spettro di Nadal



Lo guardi durante il cambio campo, e pensi che quello strano esserino smunto e senza capelli, debba spirare di vecchiaia da un momento all'altro. Esalare l'ultimo triste respiro, di una vita passata a timbrare il cartellino. E invece il mucchietto d'ossa rattrappite, gioca un gran bel tennis, semplice e anticipato. Una formichina operaia e pulita. Un Agassi rachitico, che non si droga come un cavallo. E nemmeno di gerovital, per mascherare i suoi 86 anni biologici. Nikolay Davydenko batte in tre set Soderling, e giunge con pieno merito in semifinale. Rispedisce a casa Djokovic (gaudemus!), che osservava l'incontro speranzoso, con la scucchia ritorta e l'espressione pensosa.
Perde, ma passa ugualmente Robin Soderling. Lo svedese riesce ad evitare il suo incubo ricorrente, Federer, in semifinale. Perchè contro lo svizzero ha perso circa una dozzina di incontri, comprese un paio di sfide a rubamazzetto. La sconfitta, nulla toglie al gran torneo giocato dallo svedese, arrivato a Londra come sostituto di Roddick, e senza nulla da perdere. In una settimana da redivivo Psycho killer allucinato, demolisce Djokovic e pialla senza pietà Nadal. Senza sbagliare nulla, quasi in trance ignorante. Con l'espressione da triglia lessata, e gli occhi a palla da esaltato, che non sa nemmeno dove si trova, e cosa stia facendo.
Anche il girone dell'orrore strisciante dunque, deciso sul filo di lana, con tre atleti appaiati a due vittorie. A differenza dell'altro raggruppamento, almeno, decide la differenza set, e non quella dei games. A farne le spese, Novak Djokovic. Il serbo mostra la proverbiale protervia e supponenza del suo nulla fastidioso. Paga la sconfitta patita contro Soderling, in due set. Prestazione di imbarazzante bruttezza fallosa. Col serbo disgustato da se stesso. Semifinali allineate, Federer-Davydenko e Del Potro-Soderling.
Discorso a parte per Rafael Nadal. L'ex numero uno perde contro tutti, e non vince nemmeno un set. Vederlo annaspare contro Davydenko, provoca una strana sensazione. Quasi di umana pietà. Sotto 1-6, recupera due volte il break di svantaggio nel secondo, inutilmente, con gli ultimi rigurgiti riottosi di una personalità da combattente, oramai ingabbiata in un corpo che non risponde più. Spasmi di agonismo angosciato, e nient'altro. L'espressione e gli sguardi, che prima erano di sfida e spavalda baldanza temeraria verso tutti (compreso l'intoccabile Re immacolato), ora sono occhiate circospette e terrorizzate, poi incredule e recalcitranti, e infine scorate e rassegnate a non poter nulla. Il termometro della sua situazione, la da il pubblico. Lo incita e sostiene, come si fa coi deboli, con gli ex grandi campioni in disarmo, o prossimi al pre-pensionamento. Come fu per l'ultratrentenne McEnroe all'ultimo spettacolo, o al 42 enne Connors, o al recente Safin. Il problema è che Nadal, di anni ne ha 23. La gente si appassiona con le angosce del campione perduto, e sancisce inequivocabilmente la debolezza dell'atleta.
Il maiorchino sbaglia come e quanto non aveva mai fatto. Bardato di un verde ramarro morente, frulla a vuoto, arrota colpi orrendi e corti, offrendosi alle impietose bordate degli altri. E amen. Viene da chiedersi se sia giusto esporlo in questo modo, con partite che richiamano bibliche sofferenze di crocifissioni e vie crucis sanguinolente. O non sia meglio, se non abbatterlo come si fa coi purosangue azzoppati, almeno aspettare che ritorni in condizioni di decenza. Ora è un vero spettro, una controfigura vuota di quello che fu. Di gran lunga il più debole degli otto finalisti. Forse avrebbe vinto solo contro Verdasco, ma quello perderebbe anche contro Borg 53enne. Guarda in faccia l'avversario, si spaventa tutto, si agita da gran combattente scenico e perde, il buon Nando. Leggo l'intervista, e Nadal si dice sereno. Deve solo lavorare. Se lo dice lui, tocca credergli.

venerdì 27 novembre 2009

Master di Londra, la ruota della fortuna premia Federer e Del Potro



La regola del gironcino all'italiana poteva portare ad epiloghi bizzarri, si sapeva. Ma che si arrivasse a decidere i qualificati in base al numero di games vinti, è apparsa vicenda grottesca. Ed a parità di games, un simil Sandro Bondi, si sarebbe messo lì, a scartabellare e conteggiare anche i quindici vinti e persi.
Queste sono le regole del Master, occorre adeguarsi. Contrarie allo spirito del tennis, in cui vince chi batte tutti, nessuno si gioca scudetti e retrocessioni. Sua maestà unta dalle divinità "racchettare", Federer, s'inchina per la seconda volta, con classe, alle alabarde furenti del bombardiere Del Potro, presentatosi a Londra in sorprendenti e smaglianti condizioni di forma. Comincia a delinearsi una seconda psicosi per il campione svizzero? Troppo presto, attendiamo. Dopo le arrotate mancine di Nadal, (in canotta, ai tempi che furono), a mandarlo al manicomio ora sono le sassate della pertica argentina (in canotta pure lui). Che le divinità siano allergiche alle canotte? E come dargli torto. Semplicemente inguardabili i tennisti in canotta, vittime di stilisti da ergastolo ed isolamento diurno.
Riassunto ed epilogo folle, del girone nobile. Quasi fosse una giostra, o un conteggio da pizzicagnoli con disturbi mentali: Roger Federer regola di incostante giustezza imperiale, Murray e Verdasco, in tre set. Svagato e falloso, si arrende in tre set a Juan Martin Del Potro, ma passa ugualmente. L'argentino che pure aveva perso da Andy Murray, si qualifica lo stesso. Perché ha vinto un game in più, così riferisce il pizzicagnolo.
E chissà la reazione dello scozzese, e soprattutto della bacucca mamma ultrà, sempre composta, neanche fosse una hooligan degli Hibernians, piena di birra come un otre. Immagino, ma è una malignità, soddisfazione doppia per Giovan Martino. E' risaputo come l'argentino vorrebbe più di ogni altra cosa, ricacciare in gola gli urticanti “c'mon” dello scozzese, esalati ad ogni (e dico ogni) punto, a suon di pallate nel gargarozzo. Magari un giorno ci riuscirà anche nello scontro diretto. Beffa a parte, Murray continua a giocare con spocchia indolente. Quasi fosse annoiato da se stesso. E come dargli torto.
Discorso a parte per Fernando Verdasco. "Un nome, un mito, un applauso.". Lo spagnolo, ovviamente, non rientra nella “ruota della fortuna”, e in nessun conteggio di games. Che fosse arrivato a Londra come divertente e scenica comparsa, si sapeva. Che sia proverbiale perdente di classe, anche. Il mancino iberico, si agita come un virglto tarantolato imbrattato nella senape, e per non fare torto a nessuno, riesce nell'impresa di perdere 7-6 al terzo sia con Del Potro che con Murray. E per due set, illude (chi non lo conosce), di poter sgambettare anche Federer. "Anvedi come gioca Nando, è proprio la fine der monno! Anvedi come perde ben! Ammazzalo chi é!". I dotti diranno che gli manca solo qualcosa per fare il salto di qualità. Certo, quel dettaglio infinitesimale che distingue i perdenti dai campioni.

lunedì 23 novembre 2009

Master di Londra, i pronostici dell'esperto


Se non avete la fortuna di avere un ippodromo o cinodromo a portata di mano, può essere sufficiente anche una qualsivoglia saletta scommesse. C'è tutto un microcosmo all'interno, tra coloro che col collo all'insù, assistono alle varie corse. Fumo, rabbia, rancore, disperazione. Vecchi smoccolanti e seminfartuati, che d'improvviso assumono un colorito violaceo. Ad alcuni si gonfia la carotide e sembra stiano per crepare. Molti gridano come matti. I più furbi invocano la madonna, altri accusano la Cia, l'FBI e la massoneria di truccare tutto. Certi altri si aggirano per la sala col fare da gran dritti, e studiano minuziosamente il da farsi. Ecco, vorrei farvi diventare come loro. Oltre che ai cavalli ed alle manifestazioni pedatorie, si può benissimo scommettere anche sul tennis.
Vi fornisco generosamente qualche dritta per il Master di Londra, che chiude la stagione.
I migliori 8 della classifica, si sfidano nella splendida cornice indoor di Londra. Due gironi all'italiana da 4, con i primi due che passano il turno, semifinali incrociate, finale, e poi vincerà Federer. Con vivo sgomento ho letto la composizione dei gironi. Da una lato Federer, Murray, Del Potro e Verdasco. Dall'altro, Nadal, Djokovic, Davydenko e Soderling. Quasi un malvagio Dio della racchetta, in sottana, si fosse divertito a spartire le acque: “Ora fanciulli, quelli bravi, talentuosi e che giocane bene, da una parte. Gli altri, i fabbri ferrai, maniscalchi ed arrotapalline, dall'altra". Pare che Djokovic si sia ribellato. “Pur'io ci ho il talento!”. Ha affermato, torcendo la scucchia volitiva e sbarrando orrendamente gli occhi. “Ajde”, hanno strillato all'unisono, dal suo angolo. A dimostrazione, s'è esibito nel circense gioco delle tre biglie, ed in un paio di imitazioni gustosissime.
Ma veniamo ai pronostici. Il girone nobile dipende da alcune variabili. Quanta voglia avrà l'unto dal signore, di sporcare la maglietta con volgare e plebeo sudore? Poca, e arriverà primo. Nessuna, e si accontenterà del secondo posto. L'altro qualificato uscirà dal confronto Murray e Del Potro. Rivalità del futuro. Futuro, appunto. Entrambi potenziali sfidanti del regno. Nessuno dei due sta in piedi ed è capace di giocare a buoni livelli per due mesi di fila. Dovrebbe passare Murray, ma solo perché il bombardiere furente di Tandil, pare in condizioni da clinica della mutua. E Verdasco? Squillerà qualcuno. Certo, c'è anche lui. Credo lo abbiano invitato solo per movimentare il tutto, col suo gioco d'anticipo mancino assai gradevole. Poi, vincere è un'altra faccenda. Passerà in semifinale, in caso di ritiro di Murray e Del Potro.
Nell'altro raggruppamento, il girone dell'orrore strisciante, vedo Djokovic e Nadal su tutti. Ma occhio a Davydenko. Nosferatu, recentemente (da qualche parte), li ha mazzuolati entrambi, uno dietro l'altro. Il cencio russo é la prima alternativa a Nadal, se il maiorchino dovesse frullare sotto ritmo. Soderling riuscirà a vincere un set.
Se tanto mi da tanto, semifinali esaltanti quanto un primo piano intenso del Ministro Larussa, che invoca più gendarmi nelle città: Federer-Nadal, con l'elvetico danzante che potrà togliersi qualche sassolino, infierendo sugli umili resti dello spagnolo, (una volta) improvvido assaltatore alla diligenza. Se poi lo svizzero dovesse mostrare insofferenza anche verso questo Nadal impalpabile, si configurerebbero i chiari sintomi di una neuropsicopatologia inquietante. Ma non avverrà. Seconda semifinale, Djokovic-Murray, con vittoria abbastanza agevole del primo.
Finale prevedibile, Djokovic-Federer. Il serbo giullare è un esperto del Master di fine anno, per un semplice motivo: Gli altri, nel corso della stagione, riescono ad esprime picchi di gran gioco, alternati a black out imbarazzanti. Ed arrivano distrutti a dicembre. Lui invece, gioca sempre allo stesso modo, non soffre dei cali degli altri. Tanto gli basta per battere simil cadaveri deambulanti, e tutto tronfio, sospinto dai proclami della mamma ultrà, si convince d'essere gran campione. L'esito della finale è incerto, lo ammetto. Ma se Federer gioca con tre dita, invece che con due, vincerà senza alcun patema. Nostradams dixit.
In conclusione pensavo ad un “mio” Master. Nel girone del “delirio”: Youzhny, Petzschner, Gasquet, Safin. In quello dell'"Utopia fluttuante": Haas, Stakhovsky, Dent e Santoro. Arbitro, John McEnroe. Forse avverrà nel 2010, anno di grazia. Certo. E il Premier di Arcore si dimetterà, la Santanchè verrà arrestata per apologia di fascismo ed oltraggio alla pubblica decenza, i leghisti, con la loro bella faccia da leghisti, saranno condotti in un'isola deserta, danzeranno ebbri su musiche celtiche, si faranno persino il federalismo e vivranno in una pace idilliaca, col ceppo padano incontaminato. Attendete fiduciosi.

giovedì 19 novembre 2009

JELENA DOKIC, GLI ORCHI E LE FATE




Mi piace guardare la gente negli occhi, con grande discrezione. Un po' come i pazzi, immagino storie, vite, sofferenze, sentimenti nascosti e vuoti assordanti. Dicono tutto, gli occhi. Elaboro romanzi mentali di cinque minuti. Poi me li dimentico.
Jelena Dokic era uno scricciolo biondo di sedici anni. Biondissima e con un carattere fuori dal comune. Niente di speciale, l'ennesimo prodotto della nouvelle vague di lolite agonisticamente esaltate. Fulgida esponente del filone di adolescenti picchiatrici post Seles, che tanto male ha fatto al tennis femminile. Una semifinale a Wimbledon nel 1998, ed il numero 4 al mondo raggiunto in età adolescenziale, lasciavano presagire sfracelli. La guardavo distrattamente, e non potevo non notare una ferocia fragile, angosciante. Simile ad una tigre sanguinaria, con lo sguardo assassino e morto.
Un refolo terrorizzato nel fondo degli occhi, e l'imponente sagoma di un povero e disperato emigrante serbo, a scrutarla severamente. Un rozzo camionista, che a guardarlo, il sangue gelava nei polsi. Il burbero padre padrone con dissesti mentali e problemi d'alcolismo, vide nella “sua” creatura, un mezzo straordinario ed inatteso. Rancoroso strumento di rivalsa verso il mondo. Fatuo giostraio, domatore alterato ed evidente assassino senza ammazzare.
Comincia un tourbillon di nefandezze e schiavismi senza eguali. E forse con tanti precedenti e proseliti, solo un filo più velati. Jelena è sempre più marionetta indifesa, trascinata dall'Australia in Croazia, poi in Serbia, e ancora Croazia. Scenate folli, vaneggiamenti, accuse di sorteggi truccati, ritiri da tornei, deliranti minacce al Vaticano, reo a suo dire di voler lavare il cervello e rapire la sua creatura.
Carcere o centro d'igiene mentale apparivano l'unica destinazione ammissibile, per quel truce omaccione dalla barba eremitica. Al limite, un manicomio criminale. Invece continuavi a vederlo all'angolo della figlia, con l'espressione minacciosa da pericoloso e urlante disagiato, ad impartire dotte disposizioni tattiche alla giovane ed impotente figlia. E cosa poteva mai insegnarle quell'allenatore con la guerra feroce nelle vene, che non riusciva neppure a tenere una racchetta in mano, completamente sbronzo e violento. Qualcosa del tipo, “tira forte ed uccidila o ti ammazzo!”, “la sconfitta non esiste”. La Wta, con colpevole ritardo, viene incontro alla inerme Jelena. Impone al coach camionista di stare lontano dalla figlia e dai campi di tennis.
Jelena Dokic si smarrisce, scompare completamente. Inghiottita da qualcosa di più grande di lei, del tennis e delle regole dello sport. Senza il crudele domatore giostraio, e quella ferocia di carta pesta, che montava dalla paura, cerca ugualmente di ritornare. E' tremendamente grassa ed impresentabile. Vaga per i challenger come una ragazzotta obesa qualsiasi, e perde sempre. Il palcoscenico non è lo strapieno centrale in erba di Wimbledon, ma quello tristemente desolato di Martina Franca, in terra battuta. Non ci sono le fragole con la panna, ma qualche fico mandorlato. Nessun montepremi miliardario, solo qualche spicciolo per pagarsi le bollette. Non si gioca più la semifinale di uno slam, ma il primo turno di un torneo di qualificazione. E puntualmente lo perde.
Malgrado gli inquietanti presagi di una evidente pancetta traballante, quasi un ricordo del periodo buio che si trascina sotto pelle, quest'anno si riscopre atleta vera, a Melbourne, tornata di nuovo sua patria. Si arrende solo ai quarti di finale, dopo battaglie epiche, sostenuta dal pubblico, che la elegge a beniamina. Seguono altre sconfitte, ma è faccenda secondaria. Jelena si disfa finalmente del tremendo fardello dell'infanzia. In un'intervista shock, racconta della triste adolescenza da campionessa in erba, vittima di un padre padrone, di allenamenti disumani, della vittoria imposta come unica alternativa possibile alla violenza cieca. Una giovane marionetta violentata. Ora, la vittoria e la sconfitta hanno un altro valore, ammette.
Storie di vittorie opprimenti e sconfitte liberatorie. Tutto sembra mutato, tranne per il mangiafuoco squilibrato, che continua il criminoso delirio. Minaccia di far saltare l'ambasciata australiana, viene scoperto un arsenale di guerra nella sua abitazione. E finalmente lo conducono nelle patrie galere.
Il mese scorso, Jelena torna a vincere un torneo minore (Atene). Non è certo il Roland Garros, che forse non vincerà mai più, non è più una top ten, ma la numero 65 e rotti. Ma poco importa, ha ripreso la libertà di poter giocare, perdere e vivere. Ora è una giovane donna di quasi 27 anni, che ne dimostra 40. E negli occhi, ecco che ritorno al tema iniziale, mostra una luce diversa, con quel filo di malinconia vissuta e serena, senza più terrore angosciato.

lunedì 16 novembre 2009

Parigi Bercy, ci sono abitanti nel pianeta Nibiru. Ecco le prove



Tra sonnolenze dei più forti, malinconici addii, e fulgidi esempi di stupro tennistico, cosa rimane? Niente, o Philipp Picasso Petzschner. Il pittore tedesco era alla difficile ricerca della sesta sconfitta di fila. Al limite passare il turno e poi battere Federer in due set. La terra sarebbe implosa di sgomento, con oltre due anni di anticipo. Era tutto scritto nelle profezie Maya-bis, malgrado le reticenze del pentagono su questa verità scomoda. Di fronte a lui, Julien Benneteu, francese dal tennis a tratti brioso, perdente buono per ogni superficie e stagione. Picasso comincia ispiratissimo e concentrato. Saette, pennellate morbide e suadenti a dipingere angoli folli, in una sinfonia delirante. Un alieno, proveniente dall'oscuro ed inesistente pianeta di Nibiru. Ha i tratti del viso tirati, deciso come non mai. Pare persino convinto di essere un tennista. Uno di quelli bravi, che fanno i quindici e vincono le partite.
Dura fino al 6-4 5-5, poi gli si spegne l'ottundente lampadina fulminata, stipata nella scatola cranica, e ritorna aspirante vice-apprendista venditore di granite alla menta piperita. In Lapponia. Deambula storto, sparacchia pallate oscene e fuori di senno, esibendo la proverbiale espressione da triglia lessata con spruzzatina di limone. In pochi minuti eccolo, il nostro Picasso-scasso, in tutto il suo essere sofisticatamente inetto e smagliante: 4-6 7-5 5-0 Benneteau.
Inquadrano l'allenatore del tedesco. Ebbene, non vi stupite, Petzschner ha un allenatore, non un dottore della mente. Il poveraccio ha le mani nei capelli inesistenti e l'espressione distrutta. Si chiede perché nella vita abbia voluto fare l'allenatore di tennis e non il raccoglitore di cicorie nella foresta nera. La sua creatura svitata, vaga impotente e quasi divertito del suo nulla assoluto. Ride, mastica qualcosa, sbuffa e ride ancora. Poi comincia un teatrino meraviglioso. Ghirigori circensi e tocchetti irridenti, di quelli che non si provano nemmeno in allenamento. Chiama l'istant replay su una palla uscita di tre metri abbondanti. E gliela concedono. Il pubblico ride di gusto. Pure l'arbitro ride e scuote la testa. Lui fa spallucce e aggrotta le sopracciglia orrende. Seguita a ricamare l'impossibile, chiama un'altra moviola, con l'avversario già pronto a servire dall'altra parte. Crea finalmente il suo punto: smorzata velenosa di rovescio, pallonettino burlesco, altra smorzata irridente, ed ancora pallonetto vincente. Risolino subnormale, pure l'arbitro ride, di nuovo. Ridono tutti. Benneteau con la lingua penzolante, lo scruta come si fa coi matti pericolosi.
Si ritrova 3-5 da 0-5, e per poco non gli riesce l'immortale rimonta, da raccontare nei libri di psicologia spiccia o di ricette esquimesi. Rimonta stroncata sul nascere, quando lui stesso capisce di potercela fare, tornando ad interpretare il serioso tennista. Ecco svelato cosa deve essere Petzschner. Spettacolo fatuo e folkloristico. Onanismo cerebrale. Null'altro. Come tennista regolare, è poco convincente a se stesso.
Dopo simile spettacolo di genialità surreale, ed i successivi struggenti addii di Safin e dell'eroe di casa Fabrice Santoro, il torneo ha esaurito ogni miserabile interesse. Del russo ho già scritto abbondantemente. Il “coccodrillo” sul maghetto francese, lo rinvio. Pare che “magicien” abbia deciso d'iscriversi all'Open d'Australia, volendo diventare il primo tennista capace di giocare slam a cavallo di quattro decenni. Del resto, confesso, non ho seguito nemmeno un fotogramma, periglioso per la mia incolumità spirituale.
Si arriva a Djokovic-Monfils. Non è difficile azzardare una finale di atroce bruttezza estetica. Il solo pensiero potrebbe provocare un improvviso incanutimento dei peli pubici, all'improvvido spettatore. Ci sono poche cose, capaci di parificare un simile abbrutimento dell'animo. Chessò, un comizio di "moderazione xenofoba delle libertà" della On. Santanchè, nei vari salotti tivvì, in cui va per la maggiore.
Il serbo, al di là delle banali disquisizioni estetiche e volendosi addentrare nella manovalanza spiccia, si conferma tennista di grande costanza e solidità. In autunno torna sempre alla ribalta, grazie alla sua macchinosa regolarità. Raccatta quello che lasciano gli altri, con sapida bruttezza. Le foglie morte cadono malinconiche, parallelamente al tennis ricercatamente morente di Murray. Sua maestà unta dal signore, Federer, riposa il sonno dei giusti. Novello “bell'addormentato nel bosco” versione sacra. Dispensa intelligentemente i suoi nobili sforzi nei tornei del grande slam, degli altri, cosa può impipargli? Li affronta con lo stesso impegno mentale ed animus pugnandi offerto, quando uno schiavetto gnomo gli lima le unghie del mignolo regale. Lui può. Del Potro, esaurita la sua missione superiore, giustiziare epicamente Safin, si rompe. Nadal è oramai rassegnato a non poter/dover più ripetere quei picchi disumani dello scorso anno, e che lo avrebbero inevitabilmente portato a schiattare come una cicala rifrullante.
Ad intralciare la strada del serbo, ecco spuntare, denso di fiero raccapriccio, Gael Monfils. Reduce da 126 infortuni muscolari, dovuti all'intorcinamento muscolare cui si espone, a causa del suo urticante non-tennis ossessivamente difensivo. Il dinoccolato ginnasta francese, tra una spaccata spettacolare assai ed un recupero sgraziato e ritorto, avvinghiato ai teloni di fondo, raggiunge la finale. Amen. Lo guardi in faccia, con la sua bella lingua penzoloni dopo l'ennesimo recupero orrendo, e pensi che il tennis giocato col braccio sia oramai morto. Alla fine, chiedo venia, proprio non so chi dei due abbia potuto “vincere”.

giovedì 12 novembre 2009

MARAT SAFIN, TRIBUTO ALL'ULTIMO ISTRIONE DEL TENNIS



Quasi fosse la trama di un film studiato da tempo, saluta nel malinconico, romantico e struggente palcoscenico di una città unica come Parigi. E se ne va alla sua maniera, prepotente, delirante e magicamente perdente.
Marat Safin non è mai stato uno qualsiasi, eccessivo nel bene, e troppe volte nel male. Si è guadagnato sul campo quel sostegno commovente e mai visto, che gli dedica il pubblico francese. Come tutti gli artisti geniali e sregolati, avrebbe potuto finire contro il modesto manovale Ascione, dopo una prestazione svogliata, orrendamente frustrante, per lui, prima ancora che per chi guardava impotente sugli spalti o davanti ad un televisore. Ci è mancato solo un punto, un centimetro. Ma la fredda normalità non gli è mai appartenuta, ed eccolo salvarsi e congedarsi dal tennis con una prestazione maiuscola, in uno stadio strepitante, contro un avversario potente e determinato, il vero numero due al mondo, Juan Martin del Potro.
Una partita bella, bellissima, che stenti a credere reale. Quasi atroce. E per questo, forse ancor più crudele di un rapido ed indolente commiato contro un Melzer o un Levine. Dove non ci sono giustificazioni ancestrali. L'indispensabile per farti chiedere ancora una volta, per l'ultima: “Perché?”. Perché tutte quelle passerelle incolori e rassegnatamente folli, degli ultimi tempi. E chi diavolo sono io a dovergli domandare perché? Lo saprà lui, il perché.
Il vecchio russo sfida la giovane sensazione argentina viso a viso, con l'espressione di chi ha in testa l'impresa. Nella mente, pare ci siano tanti serpentelli agitati. Un groviglio frenetico e urlante. Il genio, maledetto o benedetto. E' aggressivo, pronto a spaccare il parquet, prima che il pistolero argentino possa fargli male. Fino all'ultimo respiro. A un certo punto lo si vede arpionare un volatone antico di controbalzo, aggredisce con veemenza la rete, doma il missile che l'altro gli scaglia tra i piedi, grazie ad una demivolè benedetta e stoppata di rovescio, che doppia con una stop volley deliziosa in allungo. L'altro si prodiga in un recupero impossibile, e lui prova a concludere con l'ennesimo ricamo inutile per il tennis, utile a rendere il punto un quadro quadro immortale. E quel ricamo a campo spalancato, muore tristemente a metà rete. Lui se la ride, e ride pure Juan Martin. La carriera di Marat Safin, sta tutta in quel punto.
L'istrione carismatico non sfrutta l'inizio esplosivo, il primo set è dell'argentino, 6-4. Ci si aspetterebbe un crollo repentino, non sorprenderebbe certo, chi lo ha visto arrabattarsi contro Robredo a Roma. Ma anche il secondo set è tirato. Marat regge il passo. Gioca alla pari, frustate, affondi devastanti e prepotenti prese della rete. Il pubblico sconfina nel commovente, già sull'0-15 inizia dei timidi battimano d'incoraggiamento per quel gigante tormentato, cui chiede l'ultima impresa. E lui ci prova, mica no. Interrompe bruscamente i battimano, e scaglia bordate di servizio.
Il tempo di ammirare un'altra risposta futurista e vincente, sul servizio bomba dell'argentino, e chiedersi un'altra volta “perché?”, che si arriva rapidamente al capolinea. 5-5 e palla break. Pochissimo meno di un match point. Si salva ancora dal baratro, e quando nel game successivo gli riesce il capolavoro in ribattuta, il palazzetto pare esplodere, in un'apoteosi irreale. 6-4 5-7. Quell'imbarazzante "postumo in vita" degli ultimi tempi, all'ultima uscita, fa partita pari contro il virgulto ragazzo argentino, imbattibile picchiatore e vincitore dell'ultimo US Open. Chi lo avrebbe detto. Capace di stupirci, nel bene e nel male, fino all'ultimo. Che Marat sarebbe altrimenti.
Una sola, piccola distrazione, gli costa il break ad inizio del terzo set. Pare finita, evita miracolosamente il doppio break, di puro orgoglio. Il pubblico pretende che non molli, e lui rimane ancorato alla partita, esplodendo diamanti grezzi che nascono dalla pazzia pura. L'argentino non sembra gradire lo scomodo ruolo di turpe boia, killer finale, ma tiene duro e picchia forte, perché deve farlo, è il suo mestiere. Quasi spinto da quelle stesse divinità che lo strinsero/costrinsero in un talento enorme, Marat vede il baratro, e si salva ancora: 4-5. Al cambio campo, sugli spalti inscenano addirittura una ola improvvisata, non sanno più che fare. Marat si guarda attorno con occhiate panoramiche, sorride impertinente. Quasi divertita indifferenza e molto compiacimento. Tutto quello per lui, chi lo avrebbe detto quand'era un ragazzone russo che non sapeva dove poter allenarsi. “Ma guardali quegli stupidotti, è solo una partita...”, pare dirsi.
Ma quando nel game successivo, incoccia una risposta incrociata impossibile e vincente di dritto, si spera nell'ennesimo miracolo. Ci vorrebbe il lieto fine, occorrerebbe un avversario che allentasse il freno per due punti di fila, che sbagliasse qualcosa. Ma Giovan Martino il campanaro è tipo poco sensibile o avvezzo a simili smielati sentimentalismi di quart'ordine. Azzecca una serie di prime imprendibili, e Marat saluta. 6-4 5-7 6-4. Del Potro, quasi si scusa, sedendosi al fianco.
Solo il tempo dell'ennesimo teatrino d'addio, questa volta quello definitivo e finale. Lui che caracolla al centro del campo, il filmato di dedica, una targhetta, tanti colleghi attuali e passati a rendergli il giusto tributo, con deferenza. Pronto a stupirsi e stupirci ancora, riveste quell'espressione beffarda e guascona, di inattesi lucciconi. Qualche frase, ci si aspetta l'ultima istrionica pennellata anche al microfono. Lui invece, per un attimo ritorna il povero ragazzone russo con una vecchia racchetta, a cui alcuni osservatori diedero l'opportunità di averne due o tre, e anche un campo da tennis vero in cui allenarsi. Ringrazia il tennis per quello che gli ha dato, e grazie al quale ora potrà permettersi una seconda vita. Ed in un periodo in cui presunti ex fenomeni pelati di Las Vegas affermano di aver detestato lo sport col quale si sono arricchiti, e seguitano a voler fare soldi gettando fango sullo stesso, le parole del russo sono un altro esempio della sua grandezza. In campo e fuori.
Lui si, realmente, non ha mai amato questo sport. Più che altro non ha amato le dinamiche, i meccanismi, la competizione eccessiva e una freneticità sempre uguale. Ma non omette di ringraziarlo per quello che gli ha dato. Inimitabile istrione e campione a folli sprazzi, arrivederci. Chissà tra un anno e mezzo, se cambierà idea, tra quattro o cinque mischiato agli altri ex, nei tornei dei veterani, o dovunque deciderà, lui.

martedì 10 novembre 2009

Marat Safin e l'ultima pallina a Parigi




A Parigi, sanno sempre fare le cose in grande. Il sorteggio, con mano candida, sembrava aver scritto un finale scontato. Forse fin troppo banale, per la carriera dell'artista sregolato. Un primo turno di pura passerella, contro un viandante di casa, e poi l'addio, con tanto di apoteosi, contro Del Potro. Un'uscita di scena degna, contro un avversario degno, nel suo torneo preferito (e vinto tre volte), Parigi Bercy.
Accendo lo strumento multimediale, e scorgo il nostro eroe russo che veleggia in carrozza. 6-4 2-1. L'avversario è un buffo ragazotto, Thierry Ascione si chiama. I francesi lo pronunciano “Assion”, ovvio, con la boccuccia tutta tirata. Tennista mediocre, sparring ideale per la penultima passeggiata del campione. Marat è calmo e sbarbato, simile a quello che meravigliò il mondo nel 1998. Che sia un oscuro e volontario presagio? Avanti di un break anche nel secondo, comincia a disunirsi. Prende a sparacchiare orride pallate, gettate via con estrema noncuranza. Noia e rassegnazione. L'eroe per caso Ascione ritorna in vita, pronto a guastare quel copione, così pateticamente ovvio e melenso. Ha una carriera spesa nei campi secondari dei challenger, il buon Thierry. E l'uomo normale ci mette tanta volontà e serietà, costretto nel suo bel fisico da carpentiere drogato di rosetta alla mortadella. Stempiato, con barbettina eremitica e ventre dilatato, appena celato da maglietta sbluffata. Accoglie i generosi cadeaux dell'ex numero uno russo, che a 29anni smetterà, dopo tanti successi, soldi e due slam vinti. Lui a smettere non ci pensa, a 28 anni è numero 168 al mondo, e negli slam ha vinto solo due volte (due partite, però).
Marat seguita nella sua missione suicida, scrolla le spalle e scaglia qualche racchetta sul carpet. Tutto lì. Parente stretto di colui che rese fenomeno imbattibile un certo Ouanna. Ascione non si disunisce, è imperscrutabile, non fa una smorfia, gioca un tennis agricolo e arrangiato, ma tanto basta. 6-4 4-6. Ed anche nel terzo mena le danze mortifere, assecondando gli orrori del gigante, che salva palle break simili alla trillante campanella dell'ultimo giro.
Sul 4-4 nel terzo, rinsavisco per trenta secondi. Per Dio, Ascione. Thierry Ascione. Va benissimo scombinare i piani, l'imprevedibilità, e tutte le fregnacce possibili. Ma, voglio dire, Ascione no...l'ultimo incontro, perso contro Ascione. Mi sembra veramente troppo. Provo a partorire le congetture più fantasiose. Magari si starà divertendo. Come facevo io a 12 anni, con mio cugino di 8. Lo lasciavo arrivare a 6-3 4-2, e poi iniziavo a giocare.
Il pubblico parigino è tutto per Marat, lo asseconda e sostiene come si fa con un moribondo. E provo per un attimo a mettermi nei tristi panni dell'enfant du pays. Lui, parigino, che dopo un'umile carriera nei bassifondi, si trova ad un passo da una vittoria prestigiosa, ma il pubblico di casa invece di esaltarsi per lui, sostiene a pieni polmoni lo svogliato gigante d'argilla. Ci sarebbe di che avvilirsi.
Trotta come un vitello sgraziato e sovrappeso Thierry, ed in un clima surreale, si trova ad un punto dall'impresa, col russo al servizio, 4-5 15-40. Eccolo l'ultimo punto di Safin su un campo di gioco, forse. Chissà cosa gli passerà per la mente, mi chiedo. Tanti flashback, plausibile. Forse niente, probabile. Marat spara un ace centrale, poi ancora un altro. Affossa un dritto rabberciato, e concede un terzo match point. Altro ace ad annullarlo. Tre possibili ultimi punti di una carriera, tramutati in ace. Salva la ghirba, Marat, 5-5. A suo modo. E ora vorrà vincere, forse. Magari. Il pubblico, stolto, ci crede, si eccita. Thierry Ascione non fa una piega, e continua nel suo lavoro di modesto pedatore. Lui, in fondo, cosa c'entra. Fino al 6-6, tiebreak finale, che Marat Safin chiude in sicurezza 7/3.
I francesi sanno anche fare i titoli, dal sentimentale “Safin fait durer le plaisir” al realistico "Safin fait des heures sups", leggo stamattina. Tra piacere ed altre due ore di straordinario, il confine è assai labile. Ora, come da copione, Del Potro. “Non sarà difficile perdere contro di lui”, chiosa l'impareggiabile istrione.