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giovedì 19 novembre 2009

JELENA DOKIC, GLI ORCHI E LE FATE




Mi piace guardare la gente negli occhi, con grande discrezione. Un po' come i pazzi, immagino storie, vite, sofferenze, sentimenti nascosti e vuoti assordanti. Dicono tutto, gli occhi. Elaboro romanzi mentali di cinque minuti. Poi me li dimentico.
Jelena Dokic era uno scricciolo biondo di sedici anni. Biondissima e con un carattere fuori dal comune. Niente di speciale, l'ennesimo prodotto della nouvelle vague di lolite agonisticamente esaltate. Fulgida esponente del filone di adolescenti picchiatrici post Seles, che tanto male ha fatto al tennis femminile. Una semifinale a Wimbledon nel 1998, ed il numero 4 al mondo raggiunto in età adolescenziale, lasciavano presagire sfracelli. La guardavo distrattamente, e non potevo non notare una ferocia fragile, angosciante. Simile ad una tigre sanguinaria, con lo sguardo assassino e morto.
Un refolo terrorizzato nel fondo degli occhi, e l'imponente sagoma di un povero e disperato emigrante serbo, a scrutarla severamente. Un rozzo camionista, che a guardarlo, il sangue gelava nei polsi. Il burbero padre padrone con dissesti mentali e problemi d'alcolismo, vide nella “sua” creatura, un mezzo straordinario ed inatteso. Rancoroso strumento di rivalsa verso il mondo. Fatuo giostraio, domatore alterato ed evidente assassino senza ammazzare.
Comincia un tourbillon di nefandezze e schiavismi senza eguali. E forse con tanti precedenti e proseliti, solo un filo più velati. Jelena è sempre più marionetta indifesa, trascinata dall'Australia in Croazia, poi in Serbia, e ancora Croazia. Scenate folli, vaneggiamenti, accuse di sorteggi truccati, ritiri da tornei, deliranti minacce al Vaticano, reo a suo dire di voler lavare il cervello e rapire la sua creatura.
Carcere o centro d'igiene mentale apparivano l'unica destinazione ammissibile, per quel truce omaccione dalla barba eremitica. Al limite, un manicomio criminale. Invece continuavi a vederlo all'angolo della figlia, con l'espressione minacciosa da pericoloso e urlante disagiato, ad impartire dotte disposizioni tattiche alla giovane ed impotente figlia. E cosa poteva mai insegnarle quell'allenatore con la guerra feroce nelle vene, che non riusciva neppure a tenere una racchetta in mano, completamente sbronzo e violento. Qualcosa del tipo, “tira forte ed uccidila o ti ammazzo!”, “la sconfitta non esiste”. La Wta, con colpevole ritardo, viene incontro alla inerme Jelena. Impone al coach camionista di stare lontano dalla figlia e dai campi di tennis.
Jelena Dokic si smarrisce, scompare completamente. Inghiottita da qualcosa di più grande di lei, del tennis e delle regole dello sport. Senza il crudele domatore giostraio, e quella ferocia di carta pesta, che montava dalla paura, cerca ugualmente di ritornare. E' tremendamente grassa ed impresentabile. Vaga per i challenger come una ragazzotta obesa qualsiasi, e perde sempre. Il palcoscenico non è lo strapieno centrale in erba di Wimbledon, ma quello tristemente desolato di Martina Franca, in terra battuta. Non ci sono le fragole con la panna, ma qualche fico mandorlato. Nessun montepremi miliardario, solo qualche spicciolo per pagarsi le bollette. Non si gioca più la semifinale di uno slam, ma il primo turno di un torneo di qualificazione. E puntualmente lo perde.
Malgrado gli inquietanti presagi di una evidente pancetta traballante, quasi un ricordo del periodo buio che si trascina sotto pelle, quest'anno si riscopre atleta vera, a Melbourne, tornata di nuovo sua patria. Si arrende solo ai quarti di finale, dopo battaglie epiche, sostenuta dal pubblico, che la elegge a beniamina. Seguono altre sconfitte, ma è faccenda secondaria. Jelena si disfa finalmente del tremendo fardello dell'infanzia. In un'intervista shock, racconta della triste adolescenza da campionessa in erba, vittima di un padre padrone, di allenamenti disumani, della vittoria imposta come unica alternativa possibile alla violenza cieca. Una giovane marionetta violentata. Ora, la vittoria e la sconfitta hanno un altro valore, ammette.
Storie di vittorie opprimenti e sconfitte liberatorie. Tutto sembra mutato, tranne per il mangiafuoco squilibrato, che continua il criminoso delirio. Minaccia di far saltare l'ambasciata australiana, viene scoperto un arsenale di guerra nella sua abitazione. E finalmente lo conducono nelle patrie galere.
Il mese scorso, Jelena torna a vincere un torneo minore (Atene). Non è certo il Roland Garros, che forse non vincerà mai più, non è più una top ten, ma la numero 65 e rotti. Ma poco importa, ha ripreso la libertà di poter giocare, perdere e vivere. Ora è una giovane donna di quasi 27 anni, che ne dimostra 40. E negli occhi, ecco che ritorno al tema iniziale, mostra una luce diversa, con quel filo di malinconia vissuta e serena, senza più terrore angosciato.

4 commenti:

  1. ah...come godono le mie orecchie...bravo. Gli occhi dicono tutto, proprio tutto. E' quando non dicono che scatta l'allarme e c'è la patologia.
    Io tifo Dokic, non che abbia un gioco memorabile ma tifo per l'essere umano che vive la sua vita sapendo cos'è il dolore e la passione, l'ingiustizia e il successo, il peso delle proprie origini.
    Grazie per questo bel contributo. A presto. Bruno

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  2. Salve Bruno. Grazie per il commento. Non la tifo, ma rientratra le mie dieci preferite. Che poi sono soltanto sette, ma va bene. Ciao, alla prossima.

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  3. se non sbaglio non hai mai pubblicato una classifica delle tue tenniste preferite.. a questo punto sono curiosa!

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  4. Ciao, Eva. Si, non l'ho mai scritto. Semplicemente perchè non ne ho 10 (ma solo sei/sette). Appena arrivo a dieci lo scrivo. Al limite esondo con le over 40 e ci metto dentro Mandlikova e Temesvari.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.