.

.

sabato 28 agosto 2010

PETE SAMPRAS: I 39 ANNI DI PISTOL PETE



Compie trentanove anni Pete Sampras, simbolo del tennis nell'Era Open. Tra vittorie, innumerevoli record e colpi di fluida esplosività. Con l'unico cruccio della terra parigina.


Il fragile teenager che farà la storia. Le grandi leggende, a volte, iniziano con buffi paradossi. Sul centrale di Parigi, gli organizzatori hanno programmato un secondo turno curioso, tra due teen-ager americani: Michael Chang e Pete Sampras. Grandi promesse, si raccontava in quel lontano 1989. Da un lato un diciassettenne con le gambe corte e gli occhi a mandorla che ne tradiscono la discendenza cinese. Contro di lui un gracile e ciondolante ragazzo bruno, dai tipici tratti somatici ellenici ad indicarne i natali materni. Il cielo parigino era quasi una colata di cemento, e ben si sposava con un match deludente. Il più giovane, ma già navigato cino-americano polverizzò le titubanti evoluzioni del talentuoso avversario, con un eloquente 6-1 periodico. Troppo acerbo Pete, gracile, impaurito dallo scenario, slegato, quasi goffo nel tenersi in piedi sull'argilla. Qualche buon colpo a svelarne le stimmate de fuoriclasse, poi il vuoto imbarazzante. E questo sarebbe il futuro campionissimo? Veniva da chiedersi. Quel risultato, riletto qualche anno dopo avrebbe fatto sorridere. Il giovane Pete continuò il processo di maturazione. In fondo bastava costruire un minimo di fisico e fiducia attorno a quei colpi di una naturalezza devastante. Già qualche mese dopo, a New York, mostrò il suo reale potenziale. Cinque set di gran battaglia per far fuori Mats Wilander. Non certo l'ultimo arrivato, ma campione in carica, ex numero uno, nonché autore di 3/4 di slam l'anno precedente. Stanco, si arrese poi a Jay Berger, curioso esemplare americano che a causa di una schiena svitata, serviva con un circense movimento, passandosi il braccio dietro al collo come uno squilibrato pizzaiolo acrobatico.
Una nuova stella, in una generazione di fenomeni. L'anno successivo è quello della definitiva esplosione. A Flushing Meadows inizia una cavalcata imperiosamente magica, fatta di gioventù, freschezza, colpi prodigiosi e serenità mentale da campione scafato. Un mix che non può non risultare vincente. Si sbarazza di Ivan Lendl, poi in semifinale incrocia John McEnroe, trentunenne genio alla furibonda ricerca di un altro successo. Inevitabile avvertire un senso di frustrazione impotente nel volto accigliato del vecchio John. Si ha la smarrente sensazione che il match rappresenti il passaggio dal tennis antico a quello moderno, con picchi di futurismo ispirato. "Così giocano i marziani!" vien da esclamare vedendo quei colpi fulminanti, partire senza tracce di fatica o forzature disumane. Un match impeccabile, servizi esplosivi e saette di dritto che non lasciano scampo. Il vecchio leone strappò un set di puro furore agonistico, prima di arrendersi alla nuova abbagliante stella del tennis mondiale. Pete si ripeté, schiantando in finale Andre Agassi in tre set. In pochi giorni aveva cancellato due vecchie leggende del decennio precedente, e ridimensionato il suo coetaneo dalla zazzera ossigenata, diventando il più giovane vincitore degli Us Open, appena diciannovenne.
Il suo purissimo talento venne ad incastonarsi come gemma luccicante in un panorama zeppo di campioni. Da Lendl e McEnroe al triste canto del cigno, ad Edberg e Becker che si spartivano i bottini sui terreni rapidi. Ed attorno un nugulo di giovani e rampanti connazionali, fulgida nidiata intagliata con lo stampino: Il frenetico tennis d'anticipo simile ad un flipper di Agassi, o il curioso dritto baseball di Jim Courier, fino al già citato Micheal Chang, fenomenale nel tirare fuori risorse impossibili da un fisico e un repertorio modestissimo. Ma tra tutti, Pete possedeva qualcosa in più. La capacità di coniugare il tennis classico alle velocità lunari imposte dai nuovi materiali e dal tennis moderno. La naturalezza di un talento a tratti disarmante. Colpi di velocità e violenza impressionante, partoriti con la minima fatica. Se il talento è l'abilità di ottenere il massimo col minimo sforzo, Pete era talento puro che camminava. Lucido architetto dalla mano geniale. Tra un punto e l'altro ciondolava con la lingua penzoloni e la testa bassa, inelegante e scoordinato nei movimenti, le braccia lunghe e l'incedere da primate pluviale. A metà Forrest Gump e il parto scellerato fuoriuscito dalla matita di un fumettista. E proprio non ti aspettavi che colpisse la palla in quel modo fulmineo, al tempo stesso fluido, coordinato ed impeccabilmente preciso.
Il tempio di Wimbedon. In molti cominciavano però a temere che quella fiammata potesse rimanere isolata. Al limite circoscritta ai campi in cemento, i cui rimbalzi veloci e regolari sublimavano il tennis balisticamente immacolato di Sampras. "Pistol Pete", appunto, per quella velocità di stilettata, che non dava tregua. L'approccio all'erba di Wimbledon presentava alcune curiosità. Rare eccezioni di orsi svedesi a parte, da quelle parti si vinceva giocando serve&volley. E Pete, malgrado falsità storiche tramandate da miopi voci narranti, non ha mai praticato lo schema con continuità. L'americano si esaltava nel devastante schema servizio-dritto, riuscendo al più a chiudere il punto con bellissime zampate di volo, grazie ad una mano morbida come pochi. Per molti insomma, difficilmente avrebbe vinto sui prati inglesi. Persino troppo veloce quel servizio per consentirgli di prendere la rete con comodità. Dovrebbe servire a 3/4 della velocità, per arrivare bene a rete, come l'elegante "tacchino freddo" (citando il sommo "bisteccone") Edberg, si diceva. E invece l'americano cresciuto a Palo Verde seppe costruirsi un metodo infallibile, tutto suo. Sulla sua prima annichilente, nemmeno nembo kid travestito da superman poteva nulla. Poi seconda più lenta, ma sempre offensiva per prendere la rete e giocare uno splendido serve&volley o chiudere col dritto radente. Se a questo si aggiunge riflessi e gran destrezza nella risposta d'incontro, divenne praticamente ingiocabile sull'erba, ancor più che altrove. E a Wimbledon erige il suo tempio personale. Vittime sparse, l'ossessionato e spiritato cavallo pazzo Ivanisevic, Rafter, il Becker agli ultimi stanchi tuffi erbivori. Stabilisce il record assoluto di sette vittorie tra il 1993 ed il 2000, e quello dei cinque sigilli consecutivi del solito spettro Borg (quasi uno spiritello dispettoso per aspiranti recordman), lo manca solo per l'intromissione di Richard Krajicek nel '96.
Sei anni da dominatore, tra record, lacrime e rivalità. Sampras sale in vetta, e continua a vincere senza sosta. Anche tra le lacrime ed il dolore per la perdita del suo coach amico Tim Gullickson, e lo sconforto che lo coglie durante un match, poi vinto con coraggio, contro Courier a Melbourne '95. Il nuovo dominatore del tennis mondiale trova in Andre Agassi il degno antagonista, sempre presente nel film della sua carriera. Lontani anni luce i due, e con personalità talmente contrastanti da creare un'ideale rivalità lunga un decennio, annacquata soltanto da un alone di finto buonismo amichevole, a mascherare un'antipatia strisciante. Istrionico al limite dello sbruffone il kid di Las Vegas, elegante e pacato l'americano di sangue ellenico. Sgargiante e kitch Agassi, sobrio e classicheggiante Sampras. Showman intrattenitore dalla (spesso forzata) battuta a comando Andre, riservato ed introverso Pete. Scialacquatore e viveur l'uno, gran risparmiatore al limite della taccagneria l'altro. I loro destini si intrecciarono per anni in innumerevoli battaglie, con Sampras che ovviamente fece prevalere sul campo il suo maggior tasso di talento.
"Pistol Pete" macina record e vittorie a velocità impressionante, quasi simile a quel dritto sfoderato come una colt. Supera Roy Emerson nella particolare classifica di slam vinti, portandone a casa 14. In Australia vince due volte, e New York s'impone in cinque occasioni (come solo Connors e poi Federer) e gioca otto finali (agganciando Lendl). Rimane per sei anni al numero uno al mondo, 286 settimane consecutive. Record tornato di stretta attualità dopo il frustrato tentativo di scalzarlo ad opera di Federer. Ed è proprio l'avvento dell'elvetico a mettere in dubbio il suo ruolo di più grande tennista dell'era open. Ragionieri pazzi e pizzicagnoli di ogni risma hanno misurato sul bilancino di precisione ogni cosa, con perizia da pazzi: Vittorie, numero di sconfitte, differenti avversari, logaritmi svalvolati, percentuali e coefficienti di difficoltà applicati al teorema di Euclide tennistico. Insulse diatribe di chi trascende dall'emozione che rasenta la follia, e non può comprendere come il più grande di ogni era geologica è, e sarà solo uno: John McEnroe, il Verbo.
L'incubo "rosso", il lento declino e l'ultimo guizzo. L'infinito campione americano, capace di dominare le scene per anni, non riuscirà mai nell'impresa di domare l'infida terra parigina. Su quei campi, oltre a perdere d'incisività nei sui colpi vincenti, diveniva lampante l'unica pecca del suo gioco: Il rovescio. Ad una mano ed efficace nelle soluzioni in back o d'incontro, insufficiente se giocato coperto. In quegli anni il Roland Garros era proscenio del tennis fisico e muscolare, arrotatamente pedalato. Picchi di increscioso tennis da "horror vacui" rappresentati da Muster, Bruguera o Albert Costa. Persino Berasategui faceva finale in quei tempi di gramo scempio estetico. Solo cocenti delusioni per in numero uno, annesse umiliazioni impensabili. Dall'iniziale disfatta con Chang, passando per Schaller, e chiudendo malinconicamente nel 2002 contro l'italiano Gaudenzi. Senza mai trovare i giusti accorgimenti, spesso intrappolato e vulnerabile nella diagonale rovescia. Bastava che un quasi mestierante in giornata di grazia scalpellasse su quel lato, o con servizi in kick ad uscire da sinistra, ed il gioco era fatto. Solo nel 1996 si avvicinò al successo, sconfitto in semifinale dal futuro vincitore del torneo, Kafelnikov.
Il declino, lento ed implacabile, arrivò all'inizio del nuovo millennio. Quasi simbolica, la sconfitta a Wimbledon 2001 contro Federer. Un suggestivo passaggio di consegne con quello che sembrava l'erede naturale, per talento e stile di gioco. A New York, nel 2000 e nel 2001 prima un monumentale Safin, poi il giovane Hewitt gli sbarrano la strada in finale. Ma c'è ancora il tempo per un ultimo sussulto, malgrado l'inevitabile logorio fisico. Dopo una stagione deludente, ormai trentunenne, nel 2002 Pete piazza una zampata antica, afferrando il quinto titolo a Flushing Meadows, ed il quattordicesimo major. In finale, quasi per un gioco del destino, proprio contro lo storico avversario di sempre, Andre Agassi. E Pete chiude praticamente lì, come fanno i grandi campioni, lasciando da vincente.

2 commenti:

  1. ......e non può comprendere come il più grande di ogni era geologica è, e sarà solo uno: John McEnroe, il Verbo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. E lo dici a me, che anche adesso a 53 anni mi masturbo voluttuosamente vedendolo giocare nel championstour, spendendo le notti a trovare qualche streaming mnalesiano? Forse ti sei perso/a qualche puntata.
      Qui celebravo l'oggettiva grandezza di Pete Sampras. Il Verbo è altro, è altrove. Cerca e sarai fortunato/a.
      Saluti

      Elimina


Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.