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giovedì 12 novembre 2009

MARAT SAFIN, TRIBUTO ALL'ULTIMO ISTRIONE DEL TENNIS



Quasi fosse la trama di un film studiato da tempo, saluta nel malinconico, romantico e struggente palcoscenico di una città unica come Parigi. E se ne va alla sua maniera, prepotente, delirante e magicamente perdente.
Marat Safin non è mai stato uno qualsiasi, eccessivo nel bene, e troppe volte nel male. Si è guadagnato sul campo quel sostegno commovente e mai visto, che gli dedica il pubblico francese. Come tutti gli artisti geniali e sregolati, avrebbe potuto finire contro il modesto manovale Ascione, dopo una prestazione svogliata, orrendamente frustrante, per lui, prima ancora che per chi guardava impotente sugli spalti o davanti ad un televisore. Ci è mancato solo un punto, un centimetro. Ma la fredda normalità non gli è mai appartenuta, ed eccolo salvarsi e congedarsi dal tennis con una prestazione maiuscola, in uno stadio strepitante, contro un avversario potente e determinato, il vero numero due al mondo, Juan Martin del Potro.
Una partita bella, bellissima, che stenti a credere reale. Quasi atroce. E per questo, forse ancor più crudele di un rapido ed indolente commiato contro un Melzer o un Levine. Dove non ci sono giustificazioni ancestrali. L'indispensabile per farti chiedere ancora una volta, per l'ultima: “Perché?”. Perché tutte quelle passerelle incolori e rassegnatamente folli, degli ultimi tempi. E chi diavolo sono io a dovergli domandare perché? Lo saprà lui, il perché.
Il vecchio russo sfida la giovane sensazione argentina viso a viso, con l'espressione di chi ha in testa l'impresa. Nella mente, pare ci siano tanti serpentelli agitati. Un groviglio frenetico e urlante. Il genio, maledetto o benedetto. E' aggressivo, pronto a spaccare il parquet, prima che il pistolero argentino possa fargli male. Fino all'ultimo respiro. A un certo punto lo si vede arpionare un volatone antico di controbalzo, aggredisce con veemenza la rete, doma il missile che l'altro gli scaglia tra i piedi, grazie ad una demivolè benedetta e stoppata di rovescio, che doppia con una stop volley deliziosa in allungo. L'altro si prodiga in un recupero impossibile, e lui prova a concludere con l'ennesimo ricamo inutile per il tennis, utile a rendere il punto un quadro quadro immortale. E quel ricamo a campo spalancato, muore tristemente a metà rete. Lui se la ride, e ride pure Juan Martin. La carriera di Marat Safin, sta tutta in quel punto.
L'istrione carismatico non sfrutta l'inizio esplosivo, il primo set è dell'argentino, 6-4. Ci si aspetterebbe un crollo repentino, non sorprenderebbe certo, chi lo ha visto arrabattarsi contro Robredo a Roma. Ma anche il secondo set è tirato. Marat regge il passo. Gioca alla pari, frustate, affondi devastanti e prepotenti prese della rete. Il pubblico sconfina nel commovente, già sull'0-15 inizia dei timidi battimano d'incoraggiamento per quel gigante tormentato, cui chiede l'ultima impresa. E lui ci prova, mica no. Interrompe bruscamente i battimano, e scaglia bordate di servizio.
Il tempo di ammirare un'altra risposta futurista e vincente, sul servizio bomba dell'argentino, e chiedersi un'altra volta “perché?”, che si arriva rapidamente al capolinea. 5-5 e palla break. Pochissimo meno di un match point. Si salva ancora dal baratro, e quando nel game successivo gli riesce il capolavoro in ribattuta, il palazzetto pare esplodere, in un'apoteosi irreale. 6-4 5-7. Quell'imbarazzante "postumo in vita" degli ultimi tempi, all'ultima uscita, fa partita pari contro il virgulto ragazzo argentino, imbattibile picchiatore e vincitore dell'ultimo US Open. Chi lo avrebbe detto. Capace di stupirci, nel bene e nel male, fino all'ultimo. Che Marat sarebbe altrimenti.
Una sola, piccola distrazione, gli costa il break ad inizio del terzo set. Pare finita, evita miracolosamente il doppio break, di puro orgoglio. Il pubblico pretende che non molli, e lui rimane ancorato alla partita, esplodendo diamanti grezzi che nascono dalla pazzia pura. L'argentino non sembra gradire lo scomodo ruolo di turpe boia, killer finale, ma tiene duro e picchia forte, perché deve farlo, è il suo mestiere. Quasi spinto da quelle stesse divinità che lo strinsero/costrinsero in un talento enorme, Marat vede il baratro, e si salva ancora: 4-5. Al cambio campo, sugli spalti inscenano addirittura una ola improvvisata, non sanno più che fare. Marat si guarda attorno con occhiate panoramiche, sorride impertinente. Quasi divertita indifferenza e molto compiacimento. Tutto quello per lui, chi lo avrebbe detto quand'era un ragazzone russo che non sapeva dove poter allenarsi. “Ma guardali quegli stupidotti, è solo una partita...”, pare dirsi.
Ma quando nel game successivo, incoccia una risposta incrociata impossibile e vincente di dritto, si spera nell'ennesimo miracolo. Ci vorrebbe il lieto fine, occorrerebbe un avversario che allentasse il freno per due punti di fila, che sbagliasse qualcosa. Ma Giovan Martino il campanaro è tipo poco sensibile o avvezzo a simili smielati sentimentalismi di quart'ordine. Azzecca una serie di prime imprendibili, e Marat saluta. 6-4 5-7 6-4. Del Potro, quasi si scusa, sedendosi al fianco.
Solo il tempo dell'ennesimo teatrino d'addio, questa volta quello definitivo e finale. Lui che caracolla al centro del campo, il filmato di dedica, una targhetta, tanti colleghi attuali e passati a rendergli il giusto tributo, con deferenza. Pronto a stupirsi e stupirci ancora, riveste quell'espressione beffarda e guascona, di inattesi lucciconi. Qualche frase, ci si aspetta l'ultima istrionica pennellata anche al microfono. Lui invece, per un attimo ritorna il povero ragazzone russo con una vecchia racchetta, a cui alcuni osservatori diedero l'opportunità di averne due o tre, e anche un campo da tennis vero in cui allenarsi. Ringrazia il tennis per quello che gli ha dato, e grazie al quale ora potrà permettersi una seconda vita. Ed in un periodo in cui presunti ex fenomeni pelati di Las Vegas affermano di aver detestato lo sport col quale si sono arricchiti, e seguitano a voler fare soldi gettando fango sullo stesso, le parole del russo sono un altro esempio della sua grandezza. In campo e fuori.
Lui si, realmente, non ha mai amato questo sport. Più che altro non ha amato le dinamiche, i meccanismi, la competizione eccessiva e una freneticità sempre uguale. Ma non omette di ringraziarlo per quello che gli ha dato. Inimitabile istrione e campione a folli sprazzi, arrivederci. Chissà tra un anno e mezzo, se cambierà idea, tra quattro o cinque mischiato agli altri ex, nei tornei dei veterani, o dovunque deciderà, lui.

4 commenti:


Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.