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domenica 7 marzo 2010

Lendl, i cinquant'anni di Ivan il terribile


Mezzo secolo da Ivan Lendl, tra record e vittorie di uno dei campioni simbolo del tennis degli anni '80.
I difficili inizi tra i mostri sacri. Alto, smilzo, introverso, col viso angolare e spigoloso che ben ne dipinge un carattere introverso e poco avvezzo ad ammiccamenti mediatici, Ivan Lendl irrompe nel circuito tennistico ad inizio anni '80. Arriva facilmente tra i primi della classifica, a suon di dritti possenti e geometrici, fondamentali che rasentano la perizia di un cecchino. Emerge in una generazioni intasata di campioni. Vince tanto Ivan, certo, ma sul più bello è frustrato nei suoi tentativi di consacrarsi nell'olimpo tennistico, col trionfo in uno slam. Ivan pare non avere la personalità e convinzione dei propri mezzi per poter abbattere simili mostri sacri. Diviene "perdente" per eccellenza. Non ha il talento naturale di McEnroe, la grinta irriducibile di Jimbo Connors, e nemmeno la forza mentale e l'esplosività nei piedi di Borg. Ma rimane lì, con costanza e meticolosità maniacale, si costruisce giorno dopo giorno. Migliorandosi in un modo che sublima la scienza balistica applicata alla cinetica dello sport. Borg si stanca e smette. Jimbo è oramai oltre la trentina. Rimane quel boccoluto yankee irascibile, che accarezza palline in modo beffardo.
La svolta di una carriera. Ivan raggiunge un'altra finale di slam nel 1984, a Parigi. Di fronte a lui, John Mcenroe. Si assiste alla più impressionante dimostrazione/lezione di serve&volley della storia, su terra battuta. Il mancino americano affonda senza pietà sui meccanici e frustrati colpi del cecoslovacco, 6-3 6-2 3-1. Quasi un'umiliazione. Ma è lì che succede qualcosa. La carriera di Ivan subisce la svolta decisiva, spazzando via l'aura da perdente, che lo circondava come un incubo. Supermac inevitabilmente cala il suo ritmo disumano, si scompone quasi incredulo e getta via il match. Ma è impeccabile Lendl nel rimanerci ancorato ed a portarselo a casa al quinto set. Una dimostrazione di grande maturità, quasi una tesi di laurea. Perché qualcosa cambia nella sua testa, si convince di poter essere il numero uno. McEnroe spegnerà mentalmente la sua fiamma, e dall'anno dopo non sarà mai più capace di primeggiare. Per chi nega quanto il tennis sia "mente", quella partita è un pezzo da consultare come un trattato di psicologia tennistica.
Record e vittorie. Inizia la seconda fase delle carriera di Ivan. A 25 anni, nel pieno della maturazione fisica e mentale, si prende uno scettro che manterrà per anni, destreggiandosi poderosamente tra le volè di Edberg, la regolarità di Wilander e l'esplosività di Becker. Arrivano le vittorie negli slam (alla fine saranno otto), i record di tornei vinti e settimane al vertice della classifica, immacolati fino all'avvento di Sampras. Oramai americano d'adozione, domina le scene, sempre uguale a se stesso, ma al passo con allenamenti minuziosamente studiati. Ben conscio che per rendere al massimo, la sua macchina ha bisogno del minimo particolare tecnico, ed allenamenti al limite del maniacale. Gran fisico, ottimo servizio, ed il dritto come colpo più incisivo, col marchio di fabbrica del dritto passante in corsa. Accigliato antipatico naturale, e senza nessuna voglia dimostrarsi quello che non è. Gelido e meccanico, un automa che difficilmente riesce ad accendere l'emozione nello spettatore. Quasi un robot programmato per vincere, senza alcuna concessione alla estemporaneità del gesto tecnico. Tra un passante al millimetro, il lento rituale del servizio, i polsini che ricoprono quasi completamente l'avambraccio, e la racchetta da cambiare ad ogni cambio palla. Il più grande esempio di tennista costruitosi con abnegazione e lavoro, antitesi evidente di quel gioso estro geniale e naturale tendente al disfacimento scellerato, che era stato John McEnroe.
L'incubo chiamato Wimbledon. In una carriera monumentale, rimane un unico, grandissimo cruccio. Non essere mai riuscito a violare i verdi prati di Wimbledon. Un'ossessione che lo seguirà fino alla fine. Ivan non ha l'elasticità, armonia dei movimenti e sensibilità di mano che servono per domare l'erba. A Wimbledon paga inevitabilmente il punto debole del suo repertorio, rappresentato dal gioco di volo. Soprattutto negli anni in cui, per vincere da quelle parti, e su un'erba ancora velocissima, non c'erano molte alternative allo schema del servizio e volè. Testardo come pochi, continua a provarci, caracollando a rete col busto rigido e stridenti movimenti meccanici. E per poco non riesce a spuntarla, fermato per due volte in finale. Prima dalla dirompente ed irriverente esplosività del giovane Becker, l'anno dopo dal fantastico erbivoro australiano Pat Cash. Raccoglie due sonore lezioni di tennis da prati, e tutt'ora la parola Wimbledon rimane il suo rimpianto maggiore.
La scomparsa delle scene. Lendl continua a giocare fino ai primi anni '90. Oramai logorato dai tanti anni di carriera, cede alle nuove generazioni e ad una schiena a pezzi. Fedele al suo personaggio schivo, rimane lontano ai riflettori. Non è mica Supermac, che seguita a furoreggiare logorroico, in ogni angolo in cui si parla di tennis. Il dualismo di personalità è lampante anche fuori dal campo. Si dedica al golf, alla famiglia ed ad una tranquilla vita da nuovo miliardario. Ma il destino beffardo, è dietro l'angolo. Dopo una carriera spesa a rendere il suo fisico una macchina invincibile, incappa in un crudele incidente, cui si stenta a credere. Una banale caduta domestica gli manda in frantumi la schiena già artritica. Stenta persino a camminare e condurre una vita normale. Lo scorso anno riappare, imbolsito e visibilmente ingrassato. Promuove la sua associazione, dichiara al mondo che un luminare sembra finalmente aver risolto i suoi problemi, che riesce persino a giocare a tennis per un'ora. Ora si prepara al ritorno sul campo dopo sedici anni, in una esibizione da giocare ad Aprile contro Mats Wilander.

Scritto per tennis.it

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.