.

.

lunedì 30 novembre 2009

Master di Londra, Davydenko incoronato Mastro




Un Master fatto di grande equilibrio, partite combattute, in cui tutti battono tutti e perdono con tutti. Provo a mettermi nei tristi panni della Gelmini, e fare un bilancio scolastico. Tra Maestri russi dalla spaventosa sagoma draculesca (Davydenko), rudi professori emergenti (Del Potro), supplenti esaltati (Soderling), annoiati presidi dal sangue blu (Federer), simil-Pierino virtuosi dell'onanismo acrobatico (Murray), bulletti senza cervello (Djokovic), ex capi d'istituto rivoluzionari (Nadal), studentelli pavidamente zompettanti (Verdasco).
Davydenko: 8. La forza della schiva semplicità al potere. Il cencio esangue, senza capelli, e che porta a spasso spallucce scoscese e fisico da cavalletta deperita, diventa il meritato “maestro dei maestri”. Stretto in una maglietta accollata, e pantaloncini ascellari di fantozziana memoria, esibisce un tennis essenziale, pulito e utile alla bisogna. Tutt'altro che gradevole a vedersi, ma al tennis gioca meglio di tanti sopravvalutati fantocci tracotanti da prima pagina. Piedini artritici sempre piantati nel campo, e continui anticipi da play station. Senza mai arretrare di un centimetro, il nostro bell'eroe transilvanico, sfinisce un Federer svagato, e in finale disinnesca le alabarde infuocate di Del Potro. Con la forza della semplicità, e sfruttando l'arma dell'anticipo, e angolazioni esasperate. Davydenko è il più forte dei non campioni. E quando campioni non ce ne sono o giocano con sufficienza urticante, lui la partita la porta a casa. Con modestia ed umiltà operaia trottante. E alla fine Nosferatu sorride gentile, quasi schernendosi. Un refolo di ammirazione sgorga spontanea, pensando a quando ha ammesso con candore, che non vincerà mai uno slam. Nell'epoca in cui cani, porci e simil Bolelli indisponenti, fanno proclami altisonanti e fuori dalla grazia di Dio, vien (quasi) da tifare Davydenko.
Del Potro: 6,5. Perde, vince, perde ancora. Ma lascia l'impressione che lo ritroveremo a grandi livelli per un decennio. Reduce da acciacchi fisici, e meritati sollazzi con la leggiadra Yanina, non lo credevo capace della finale. Riprende un match quasi perso contro Soderling, esibendo carattere da scafato combattente della Pampa. Più che l'evidente roncola furente, a colpire è la solidità mentale raggiunta dal ventenne bombardiere dagli occhi taglienti. In finale non riesce mai ad entrare in partita, restando con il colpo in canna, disarmato dalle angolazioni prodigiose del russo. Qualcuno dovrebbe spiegargli che nei pressi della rete non ci sono branchi di piranha affamati.
Federer: 5,5. Sua maestà danzante sulle punte, quasi annoiato dal ciarpame volgare e petulante. O se volete, giovin signore bizzoso ed accigliato, per l'insolenza della schiavitù, che osa destarlo dal riposo dei giusti. Comincia ogni partita in babbucce e vestaglia di kashmir. Svogliato come chi è obbligato a tirar banali palline. Si presenta a Londra vagamente inquartato e semovente, ma soprattutto svuotato mentalmente. Incredibili passaggi a vuoto e partenze false, più facilmente recuperabili nel tre set su cinque, che non nelle partite al meglio dei tre. Deprecabile atteggiamento di fastidio, dritti raccapriccianti e scalcioni a palline, neanche fosse un Ferrer talentuoso. Perde ancora con Del Potro, calato oramai nella parte di arrembante killer spietato. Arriva comunque in semifinale, ma basta un Davydenko qualsiasi per rispedirlo alle meritate vacanze, alle gemelline, e a gozzoviglianti banchetti a base di amorevoli manicaretti preparati da Mirka.
Soderling: 6,5. Eroe per caso. Chiamato all'ultimo minuto come riserva di Roddick, non lo fa rimpiangere (non ci voleva poi molto). Immaginate un boscaiolo eremita, in arrotolate maniche di camicia scozzese a quadrettini rossi e neri. Spacca i suoi tronchi d'abete nella quiete assordante della montagna, e d'improvviso impazzisce. Brandisce l'accetta come a voler sterminare tutti, in piena trance omicida. Strabuzza gli occhi orrendi e appallati, e gioca partite da esaltato psycho killer della racchetta. Ecco, così vedo Soderling. Sorprendente semifinalista, arriva ad un passo dallo sfondare anche Del Potro, smarrendosi sul più bello. Pervaso dal talento cristallino dell'antipatia naturale, se ne va imbufalito, infischiandosene di speaker e saluti al pubblico.
Djokovic: 5. Avvezzo ad eufemismi e fregnacce, mi sembrava il più in forma di tutti. Nel circostante clima da gita di fine anno, infortuni, e squilibri mentali, rimaneva il più accreditato alla vittoria finale, sfruttando la sua oscena regolarità. Non gli riesce neanche quello. Paga una sola sconfitta, disarmante e avvilente, contro un Soderling esagitato. Lo vedremo nel 2010. Purtroppo.
Murray: 5. Che dire. Un inerme fuscello iracondo, che rema frustrato, in balia delle roncole altrui. Oramai schiavo di un presunto talento, e delle sue, sovente suicide, capacità strategiche. Si attende sempre che inizi a giocare. E non lo fa mai. Per carità, sfortunatissimo nell'uscire per differenza games (uno). Altra tragedia per gli inglesi in crisi d'astinenza, arrivati ad innamorarsi di un figlio dell'odiata terra scozzese.
Verdasco: 4. Anvedi come perde Nando, è sempre lui. Il mio mito. Zompettante agonista di plexiglas. Dal famigerato 6-4 al quinto patito con Nadal a Melbourne, il secondo mancino di Spagna s'è inventato perdente di gran temperamento cinematografico. Vero artista della sconfitta acrobatica. Uno sconfinato repertorio da virgulto, servizi velenosi, attacchi mancini, angolazioni ed anticipi briosi, volèe e difese della rete acrobatiche. Anche a Londra gioca alla pari e a tratti meglio di tutti, ma finisce sempre con lo scivolare goffamente sul traguardo, come Dorando Petri. Oramai lo sanno tutti.
Nadal: s.v. L'unico a non vincere nemmeno un set. Da quando è tornato, è sempre crollato miseramente al cospetto dei primi dieci. Niente di nuovo, dunque. Eppure m'ero illuso che a Londra potesse scovare residue riserve d'orgoglio. Ma senza forza, chi ha fatto del tennis muscolare una ragione di vita, non può nulla. L'anima finisce per perire, agonizzante, non sorretta da quel fisico gladiatorio, esasperato in modo folle, per diventare quello che era. Finisce per assecondarlo tristemente, con rassegnazione. Sforzandomi nell'esercizio della metafora raffinata, il Nadal attuale è come un uomo senza pene, che pretende di infilarsi un preservativo. Uno e trino, essendo anche ferrato in preparazioni atletiche e medicina dello sport, posseggo in tasca l'unica soluzione. Sbattersene di sponsor, classifiche e punti, e stare fermo per sei mesi. Aspettare che le giunture possano nuovamente sopportare il suo tennis sovrumano, per qualche anno ancora. Anzi, vi preannuncio una trattativa in corso con zio Toni. Vedremo, chiedo molto: Una cassa di beck's giornaliera.

sabato 28 novembre 2009

Master di Londra, Davydenko e Soderling passeggiano sullo spettro di Nadal



Lo guardi durante il cambio campo, e pensi che quello strano esserino smunto e senza capelli, debba spirare di vecchiaia da un momento all'altro. Esalare l'ultimo triste respiro, di una vita passata a timbrare il cartellino. E invece il mucchietto d'ossa rattrappite, gioca un gran bel tennis, semplice e anticipato. Una formichina operaia e pulita. Un Agassi rachitico, che non si droga come un cavallo. E nemmeno di gerovital, per mascherare i suoi 86 anni biologici. Nikolay Davydenko batte in tre set Soderling, e giunge con pieno merito in semifinale. Rispedisce a casa Djokovic (gaudemus!), che osservava l'incontro speranzoso, con la scucchia ritorta e l'espressione pensosa.
Perde, ma passa ugualmente Robin Soderling. Lo svedese riesce ad evitare il suo incubo ricorrente, Federer, in semifinale. Perchè contro lo svizzero ha perso circa una dozzina di incontri, comprese un paio di sfide a rubamazzetto. La sconfitta, nulla toglie al gran torneo giocato dallo svedese, arrivato a Londra come sostituto di Roddick, e senza nulla da perdere. In una settimana da redivivo Psycho killer allucinato, demolisce Djokovic e pialla senza pietà Nadal. Senza sbagliare nulla, quasi in trance ignorante. Con l'espressione da triglia lessata, e gli occhi a palla da esaltato, che non sa nemmeno dove si trova, e cosa stia facendo.
Anche il girone dell'orrore strisciante dunque, deciso sul filo di lana, con tre atleti appaiati a due vittorie. A differenza dell'altro raggruppamento, almeno, decide la differenza set, e non quella dei games. A farne le spese, Novak Djokovic. Il serbo mostra la proverbiale protervia e supponenza del suo nulla fastidioso. Paga la sconfitta patita contro Soderling, in due set. Prestazione di imbarazzante bruttezza fallosa. Col serbo disgustato da se stesso. Semifinali allineate, Federer-Davydenko e Del Potro-Soderling.
Discorso a parte per Rafael Nadal. L'ex numero uno perde contro tutti, e non vince nemmeno un set. Vederlo annaspare contro Davydenko, provoca una strana sensazione. Quasi di umana pietà. Sotto 1-6, recupera due volte il break di svantaggio nel secondo, inutilmente, con gli ultimi rigurgiti riottosi di una personalità da combattente, oramai ingabbiata in un corpo che non risponde più. Spasmi di agonismo angosciato, e nient'altro. L'espressione e gli sguardi, che prima erano di sfida e spavalda baldanza temeraria verso tutti (compreso l'intoccabile Re immacolato), ora sono occhiate circospette e terrorizzate, poi incredule e recalcitranti, e infine scorate e rassegnate a non poter nulla. Il termometro della sua situazione, la da il pubblico. Lo incita e sostiene, come si fa coi deboli, con gli ex grandi campioni in disarmo, o prossimi al pre-pensionamento. Come fu per l'ultratrentenne McEnroe all'ultimo spettacolo, o al 42 enne Connors, o al recente Safin. Il problema è che Nadal, di anni ne ha 23. La gente si appassiona con le angosce del campione perduto, e sancisce inequivocabilmente la debolezza dell'atleta.
Il maiorchino sbaglia come e quanto non aveva mai fatto. Bardato di un verde ramarro morente, frulla a vuoto, arrota colpi orrendi e corti, offrendosi alle impietose bordate degli altri. E amen. Viene da chiedersi se sia giusto esporlo in questo modo, con partite che richiamano bibliche sofferenze di crocifissioni e vie crucis sanguinolente. O non sia meglio, se non abbatterlo come si fa coi purosangue azzoppati, almeno aspettare che ritorni in condizioni di decenza. Ora è un vero spettro, una controfigura vuota di quello che fu. Di gran lunga il più debole degli otto finalisti. Forse avrebbe vinto solo contro Verdasco, ma quello perderebbe anche contro Borg 53enne. Guarda in faccia l'avversario, si spaventa tutto, si agita da gran combattente scenico e perde, il buon Nando. Leggo l'intervista, e Nadal si dice sereno. Deve solo lavorare. Se lo dice lui, tocca credergli.

venerdì 27 novembre 2009

Master di Londra, la ruota della fortuna premia Federer e Del Potro



La regola del gironcino all'italiana poteva portare ad epiloghi bizzarri, si sapeva. Ma che si arrivasse a decidere i qualificati in base al numero di games vinti, è apparsa vicenda grottesca. Ed a parità di games, un simil Sandro Bondi, si sarebbe messo lì, a scartabellare e conteggiare anche i quindici vinti e persi.
Queste sono le regole del Master, occorre adeguarsi. Contrarie allo spirito del tennis, in cui vince chi batte tutti, nessuno si gioca scudetti e retrocessioni. Sua maestà unta dalle divinità "racchettare", Federer, s'inchina per la seconda volta, con classe, alle alabarde furenti del bombardiere Del Potro, presentatosi a Londra in sorprendenti e smaglianti condizioni di forma. Comincia a delinearsi una seconda psicosi per il campione svizzero? Troppo presto, attendiamo. Dopo le arrotate mancine di Nadal, (in canotta, ai tempi che furono), a mandarlo al manicomio ora sono le sassate della pertica argentina (in canotta pure lui). Che le divinità siano allergiche alle canotte? E come dargli torto. Semplicemente inguardabili i tennisti in canotta, vittime di stilisti da ergastolo ed isolamento diurno.
Riassunto ed epilogo folle, del girone nobile. Quasi fosse una giostra, o un conteggio da pizzicagnoli con disturbi mentali: Roger Federer regola di incostante giustezza imperiale, Murray e Verdasco, in tre set. Svagato e falloso, si arrende in tre set a Juan Martin Del Potro, ma passa ugualmente. L'argentino che pure aveva perso da Andy Murray, si qualifica lo stesso. Perché ha vinto un game in più, così riferisce il pizzicagnolo.
E chissà la reazione dello scozzese, e soprattutto della bacucca mamma ultrà, sempre composta, neanche fosse una hooligan degli Hibernians, piena di birra come un otre. Immagino, ma è una malignità, soddisfazione doppia per Giovan Martino. E' risaputo come l'argentino vorrebbe più di ogni altra cosa, ricacciare in gola gli urticanti “c'mon” dello scozzese, esalati ad ogni (e dico ogni) punto, a suon di pallate nel gargarozzo. Magari un giorno ci riuscirà anche nello scontro diretto. Beffa a parte, Murray continua a giocare con spocchia indolente. Quasi fosse annoiato da se stesso. E come dargli torto.
Discorso a parte per Fernando Verdasco. "Un nome, un mito, un applauso.". Lo spagnolo, ovviamente, non rientra nella “ruota della fortuna”, e in nessun conteggio di games. Che fosse arrivato a Londra come divertente e scenica comparsa, si sapeva. Che sia proverbiale perdente di classe, anche. Il mancino iberico, si agita come un virglto tarantolato imbrattato nella senape, e per non fare torto a nessuno, riesce nell'impresa di perdere 7-6 al terzo sia con Del Potro che con Murray. E per due set, illude (chi non lo conosce), di poter sgambettare anche Federer. "Anvedi come gioca Nando, è proprio la fine der monno! Anvedi come perde ben! Ammazzalo chi é!". I dotti diranno che gli manca solo qualcosa per fare il salto di qualità. Certo, quel dettaglio infinitesimale che distingue i perdenti dai campioni.

lunedì 23 novembre 2009

Master di Londra, i pronostici dell'esperto


Se non avete la fortuna di avere un ippodromo o cinodromo a portata di mano, può essere sufficiente anche una qualsivoglia saletta scommesse. C'è tutto un microcosmo all'interno, tra coloro che col collo all'insù, assistono alle varie corse. Fumo, rabbia, rancore, disperazione. Vecchi smoccolanti e seminfartuati, che d'improvviso assumono un colorito violaceo. Ad alcuni si gonfia la carotide e sembra stiano per crepare. Molti gridano come matti. I più furbi invocano la madonna, altri accusano la Cia, l'FBI e la massoneria di truccare tutto. Certi altri si aggirano per la sala col fare da gran dritti, e studiano minuziosamente il da farsi. Ecco, vorrei farvi diventare come loro. Oltre che ai cavalli ed alle manifestazioni pedatorie, si può benissimo scommettere anche sul tennis.
Vi fornisco generosamente qualche dritta per il Master di Londra, che chiude la stagione.
I migliori 8 della classifica, si sfidano nella splendida cornice indoor di Londra. Due gironi all'italiana da 4, con i primi due che passano il turno, semifinali incrociate, finale, e poi vincerà Federer. Con vivo sgomento ho letto la composizione dei gironi. Da una lato Federer, Murray, Del Potro e Verdasco. Dall'altro, Nadal, Djokovic, Davydenko e Soderling. Quasi un malvagio Dio della racchetta, in sottana, si fosse divertito a spartire le acque: “Ora fanciulli, quelli bravi, talentuosi e che giocane bene, da una parte. Gli altri, i fabbri ferrai, maniscalchi ed arrotapalline, dall'altra". Pare che Djokovic si sia ribellato. “Pur'io ci ho il talento!”. Ha affermato, torcendo la scucchia volitiva e sbarrando orrendamente gli occhi. “Ajde”, hanno strillato all'unisono, dal suo angolo. A dimostrazione, s'è esibito nel circense gioco delle tre biglie, ed in un paio di imitazioni gustosissime.
Ma veniamo ai pronostici. Il girone nobile dipende da alcune variabili. Quanta voglia avrà l'unto dal signore, di sporcare la maglietta con volgare e plebeo sudore? Poca, e arriverà primo. Nessuna, e si accontenterà del secondo posto. L'altro qualificato uscirà dal confronto Murray e Del Potro. Rivalità del futuro. Futuro, appunto. Entrambi potenziali sfidanti del regno. Nessuno dei due sta in piedi ed è capace di giocare a buoni livelli per due mesi di fila. Dovrebbe passare Murray, ma solo perché il bombardiere furente di Tandil, pare in condizioni da clinica della mutua. E Verdasco? Squillerà qualcuno. Certo, c'è anche lui. Credo lo abbiano invitato solo per movimentare il tutto, col suo gioco d'anticipo mancino assai gradevole. Poi, vincere è un'altra faccenda. Passerà in semifinale, in caso di ritiro di Murray e Del Potro.
Nell'altro raggruppamento, il girone dell'orrore strisciante, vedo Djokovic e Nadal su tutti. Ma occhio a Davydenko. Nosferatu, recentemente (da qualche parte), li ha mazzuolati entrambi, uno dietro l'altro. Il cencio russo é la prima alternativa a Nadal, se il maiorchino dovesse frullare sotto ritmo. Soderling riuscirà a vincere un set.
Se tanto mi da tanto, semifinali esaltanti quanto un primo piano intenso del Ministro Larussa, che invoca più gendarmi nelle città: Federer-Nadal, con l'elvetico danzante che potrà togliersi qualche sassolino, infierendo sugli umili resti dello spagnolo, (una volta) improvvido assaltatore alla diligenza. Se poi lo svizzero dovesse mostrare insofferenza anche verso questo Nadal impalpabile, si configurerebbero i chiari sintomi di una neuropsicopatologia inquietante. Ma non avverrà. Seconda semifinale, Djokovic-Murray, con vittoria abbastanza agevole del primo.
Finale prevedibile, Djokovic-Federer. Il serbo giullare è un esperto del Master di fine anno, per un semplice motivo: Gli altri, nel corso della stagione, riescono ad esprime picchi di gran gioco, alternati a black out imbarazzanti. Ed arrivano distrutti a dicembre. Lui invece, gioca sempre allo stesso modo, non soffre dei cali degli altri. Tanto gli basta per battere simil cadaveri deambulanti, e tutto tronfio, sospinto dai proclami della mamma ultrà, si convince d'essere gran campione. L'esito della finale è incerto, lo ammetto. Ma se Federer gioca con tre dita, invece che con due, vincerà senza alcun patema. Nostradams dixit.
In conclusione pensavo ad un “mio” Master. Nel girone del “delirio”: Youzhny, Petzschner, Gasquet, Safin. In quello dell'"Utopia fluttuante": Haas, Stakhovsky, Dent e Santoro. Arbitro, John McEnroe. Forse avverrà nel 2010, anno di grazia. Certo. E il Premier di Arcore si dimetterà, la Santanchè verrà arrestata per apologia di fascismo ed oltraggio alla pubblica decenza, i leghisti, con la loro bella faccia da leghisti, saranno condotti in un'isola deserta, danzeranno ebbri su musiche celtiche, si faranno persino il federalismo e vivranno in una pace idilliaca, col ceppo padano incontaminato. Attendete fiduciosi.

giovedì 19 novembre 2009

JELENA DOKIC, GLI ORCHI E LE FATE




Mi piace guardare la gente negli occhi, con grande discrezione. Un po' come i pazzi, immagino storie, vite, sofferenze, sentimenti nascosti e vuoti assordanti. Dicono tutto, gli occhi. Elaboro romanzi mentali di cinque minuti. Poi me li dimentico.
Jelena Dokic era uno scricciolo biondo di sedici anni. Biondissima e con un carattere fuori dal comune. Niente di speciale, l'ennesimo prodotto della nouvelle vague di lolite agonisticamente esaltate. Fulgida esponente del filone di adolescenti picchiatrici post Seles, che tanto male ha fatto al tennis femminile. Una semifinale a Wimbledon nel 1998, ed il numero 4 al mondo raggiunto in età adolescenziale, lasciavano presagire sfracelli. La guardavo distrattamente, e non potevo non notare una ferocia fragile, angosciante. Simile ad una tigre sanguinaria, con lo sguardo assassino e morto.
Un refolo terrorizzato nel fondo degli occhi, e l'imponente sagoma di un povero e disperato emigrante serbo, a scrutarla severamente. Un rozzo camionista, che a guardarlo, il sangue gelava nei polsi. Il burbero padre padrone con dissesti mentali e problemi d'alcolismo, vide nella “sua” creatura, un mezzo straordinario ed inatteso. Rancoroso strumento di rivalsa verso il mondo. Fatuo giostraio, domatore alterato ed evidente assassino senza ammazzare.
Comincia un tourbillon di nefandezze e schiavismi senza eguali. E forse con tanti precedenti e proseliti, solo un filo più velati. Jelena è sempre più marionetta indifesa, trascinata dall'Australia in Croazia, poi in Serbia, e ancora Croazia. Scenate folli, vaneggiamenti, accuse di sorteggi truccati, ritiri da tornei, deliranti minacce al Vaticano, reo a suo dire di voler lavare il cervello e rapire la sua creatura.
Carcere o centro d'igiene mentale apparivano l'unica destinazione ammissibile, per quel truce omaccione dalla barba eremitica. Al limite, un manicomio criminale. Invece continuavi a vederlo all'angolo della figlia, con l'espressione minacciosa da pericoloso e urlante disagiato, ad impartire dotte disposizioni tattiche alla giovane ed impotente figlia. E cosa poteva mai insegnarle quell'allenatore con la guerra feroce nelle vene, che non riusciva neppure a tenere una racchetta in mano, completamente sbronzo e violento. Qualcosa del tipo, “tira forte ed uccidila o ti ammazzo!”, “la sconfitta non esiste”. La Wta, con colpevole ritardo, viene incontro alla inerme Jelena. Impone al coach camionista di stare lontano dalla figlia e dai campi di tennis.
Jelena Dokic si smarrisce, scompare completamente. Inghiottita da qualcosa di più grande di lei, del tennis e delle regole dello sport. Senza il crudele domatore giostraio, e quella ferocia di carta pesta, che montava dalla paura, cerca ugualmente di ritornare. E' tremendamente grassa ed impresentabile. Vaga per i challenger come una ragazzotta obesa qualsiasi, e perde sempre. Il palcoscenico non è lo strapieno centrale in erba di Wimbledon, ma quello tristemente desolato di Martina Franca, in terra battuta. Non ci sono le fragole con la panna, ma qualche fico mandorlato. Nessun montepremi miliardario, solo qualche spicciolo per pagarsi le bollette. Non si gioca più la semifinale di uno slam, ma il primo turno di un torneo di qualificazione. E puntualmente lo perde.
Malgrado gli inquietanti presagi di una evidente pancetta traballante, quasi un ricordo del periodo buio che si trascina sotto pelle, quest'anno si riscopre atleta vera, a Melbourne, tornata di nuovo sua patria. Si arrende solo ai quarti di finale, dopo battaglie epiche, sostenuta dal pubblico, che la elegge a beniamina. Seguono altre sconfitte, ma è faccenda secondaria. Jelena si disfa finalmente del tremendo fardello dell'infanzia. In un'intervista shock, racconta della triste adolescenza da campionessa in erba, vittima di un padre padrone, di allenamenti disumani, della vittoria imposta come unica alternativa possibile alla violenza cieca. Una giovane marionetta violentata. Ora, la vittoria e la sconfitta hanno un altro valore, ammette.
Storie di vittorie opprimenti e sconfitte liberatorie. Tutto sembra mutato, tranne per il mangiafuoco squilibrato, che continua il criminoso delirio. Minaccia di far saltare l'ambasciata australiana, viene scoperto un arsenale di guerra nella sua abitazione. E finalmente lo conducono nelle patrie galere.
Il mese scorso, Jelena torna a vincere un torneo minore (Atene). Non è certo il Roland Garros, che forse non vincerà mai più, non è più una top ten, ma la numero 65 e rotti. Ma poco importa, ha ripreso la libertà di poter giocare, perdere e vivere. Ora è una giovane donna di quasi 27 anni, che ne dimostra 40. E negli occhi, ecco che ritorno al tema iniziale, mostra una luce diversa, con quel filo di malinconia vissuta e serena, senza più terrore angosciato.

lunedì 16 novembre 2009

Parigi Bercy, ci sono abitanti nel pianeta Nibiru. Ecco le prove



Tra sonnolenze dei più forti, malinconici addii, e fulgidi esempi di stupro tennistico, cosa rimane? Niente, o Philipp Picasso Petzschner. Il pittore tedesco era alla difficile ricerca della sesta sconfitta di fila. Al limite passare il turno e poi battere Federer in due set. La terra sarebbe implosa di sgomento, con oltre due anni di anticipo. Era tutto scritto nelle profezie Maya-bis, malgrado le reticenze del pentagono su questa verità scomoda. Di fronte a lui, Julien Benneteu, francese dal tennis a tratti brioso, perdente buono per ogni superficie e stagione. Picasso comincia ispiratissimo e concentrato. Saette, pennellate morbide e suadenti a dipingere angoli folli, in una sinfonia delirante. Un alieno, proveniente dall'oscuro ed inesistente pianeta di Nibiru. Ha i tratti del viso tirati, deciso come non mai. Pare persino convinto di essere un tennista. Uno di quelli bravi, che fanno i quindici e vincono le partite.
Dura fino al 6-4 5-5, poi gli si spegne l'ottundente lampadina fulminata, stipata nella scatola cranica, e ritorna aspirante vice-apprendista venditore di granite alla menta piperita. In Lapponia. Deambula storto, sparacchia pallate oscene e fuori di senno, esibendo la proverbiale espressione da triglia lessata con spruzzatina di limone. In pochi minuti eccolo, il nostro Picasso-scasso, in tutto il suo essere sofisticatamente inetto e smagliante: 4-6 7-5 5-0 Benneteau.
Inquadrano l'allenatore del tedesco. Ebbene, non vi stupite, Petzschner ha un allenatore, non un dottore della mente. Il poveraccio ha le mani nei capelli inesistenti e l'espressione distrutta. Si chiede perché nella vita abbia voluto fare l'allenatore di tennis e non il raccoglitore di cicorie nella foresta nera. La sua creatura svitata, vaga impotente e quasi divertito del suo nulla assoluto. Ride, mastica qualcosa, sbuffa e ride ancora. Poi comincia un teatrino meraviglioso. Ghirigori circensi e tocchetti irridenti, di quelli che non si provano nemmeno in allenamento. Chiama l'istant replay su una palla uscita di tre metri abbondanti. E gliela concedono. Il pubblico ride di gusto. Pure l'arbitro ride e scuote la testa. Lui fa spallucce e aggrotta le sopracciglia orrende. Seguita a ricamare l'impossibile, chiama un'altra moviola, con l'avversario già pronto a servire dall'altra parte. Crea finalmente il suo punto: smorzata velenosa di rovescio, pallonettino burlesco, altra smorzata irridente, ed ancora pallonetto vincente. Risolino subnormale, pure l'arbitro ride, di nuovo. Ridono tutti. Benneteau con la lingua penzolante, lo scruta come si fa coi matti pericolosi.
Si ritrova 3-5 da 0-5, e per poco non gli riesce l'immortale rimonta, da raccontare nei libri di psicologia spiccia o di ricette esquimesi. Rimonta stroncata sul nascere, quando lui stesso capisce di potercela fare, tornando ad interpretare il serioso tennista. Ecco svelato cosa deve essere Petzschner. Spettacolo fatuo e folkloristico. Onanismo cerebrale. Null'altro. Come tennista regolare, è poco convincente a se stesso.
Dopo simile spettacolo di genialità surreale, ed i successivi struggenti addii di Safin e dell'eroe di casa Fabrice Santoro, il torneo ha esaurito ogni miserabile interesse. Del russo ho già scritto abbondantemente. Il “coccodrillo” sul maghetto francese, lo rinvio. Pare che “magicien” abbia deciso d'iscriversi all'Open d'Australia, volendo diventare il primo tennista capace di giocare slam a cavallo di quattro decenni. Del resto, confesso, non ho seguito nemmeno un fotogramma, periglioso per la mia incolumità spirituale.
Si arriva a Djokovic-Monfils. Non è difficile azzardare una finale di atroce bruttezza estetica. Il solo pensiero potrebbe provocare un improvviso incanutimento dei peli pubici, all'improvvido spettatore. Ci sono poche cose, capaci di parificare un simile abbrutimento dell'animo. Chessò, un comizio di "moderazione xenofoba delle libertà" della On. Santanchè, nei vari salotti tivvì, in cui va per la maggiore.
Il serbo, al di là delle banali disquisizioni estetiche e volendosi addentrare nella manovalanza spiccia, si conferma tennista di grande costanza e solidità. In autunno torna sempre alla ribalta, grazie alla sua macchinosa regolarità. Raccatta quello che lasciano gli altri, con sapida bruttezza. Le foglie morte cadono malinconiche, parallelamente al tennis ricercatamente morente di Murray. Sua maestà unta dal signore, Federer, riposa il sonno dei giusti. Novello “bell'addormentato nel bosco” versione sacra. Dispensa intelligentemente i suoi nobili sforzi nei tornei del grande slam, degli altri, cosa può impipargli? Li affronta con lo stesso impegno mentale ed animus pugnandi offerto, quando uno schiavetto gnomo gli lima le unghie del mignolo regale. Lui può. Del Potro, esaurita la sua missione superiore, giustiziare epicamente Safin, si rompe. Nadal è oramai rassegnato a non poter/dover più ripetere quei picchi disumani dello scorso anno, e che lo avrebbero inevitabilmente portato a schiattare come una cicala rifrullante.
Ad intralciare la strada del serbo, ecco spuntare, denso di fiero raccapriccio, Gael Monfils. Reduce da 126 infortuni muscolari, dovuti all'intorcinamento muscolare cui si espone, a causa del suo urticante non-tennis ossessivamente difensivo. Il dinoccolato ginnasta francese, tra una spaccata spettacolare assai ed un recupero sgraziato e ritorto, avvinghiato ai teloni di fondo, raggiunge la finale. Amen. Lo guardi in faccia, con la sua bella lingua penzoloni dopo l'ennesimo recupero orrendo, e pensi che il tennis giocato col braccio sia oramai morto. Alla fine, chiedo venia, proprio non so chi dei due abbia potuto “vincere”.

giovedì 12 novembre 2009

MARAT SAFIN, TRIBUTO ALL'ULTIMO ISTRIONE DEL TENNIS



Quasi fosse la trama di un film studiato da tempo, saluta nel malinconico, romantico e struggente palcoscenico di una città unica come Parigi. E se ne va alla sua maniera, prepotente, delirante e magicamente perdente.
Marat Safin non è mai stato uno qualsiasi, eccessivo nel bene, e troppe volte nel male. Si è guadagnato sul campo quel sostegno commovente e mai visto, che gli dedica il pubblico francese. Come tutti gli artisti geniali e sregolati, avrebbe potuto finire contro il modesto manovale Ascione, dopo una prestazione svogliata, orrendamente frustrante, per lui, prima ancora che per chi guardava impotente sugli spalti o davanti ad un televisore. Ci è mancato solo un punto, un centimetro. Ma la fredda normalità non gli è mai appartenuta, ed eccolo salvarsi e congedarsi dal tennis con una prestazione maiuscola, in uno stadio strepitante, contro un avversario potente e determinato, il vero numero due al mondo, Juan Martin del Potro.
Una partita bella, bellissima, che stenti a credere reale. Quasi atroce. E per questo, forse ancor più crudele di un rapido ed indolente commiato contro un Melzer o un Levine. Dove non ci sono giustificazioni ancestrali. L'indispensabile per farti chiedere ancora una volta, per l'ultima: “Perché?”. Perché tutte quelle passerelle incolori e rassegnatamente folli, degli ultimi tempi. E chi diavolo sono io a dovergli domandare perché? Lo saprà lui, il perché.
Il vecchio russo sfida la giovane sensazione argentina viso a viso, con l'espressione di chi ha in testa l'impresa. Nella mente, pare ci siano tanti serpentelli agitati. Un groviglio frenetico e urlante. Il genio, maledetto o benedetto. E' aggressivo, pronto a spaccare il parquet, prima che il pistolero argentino possa fargli male. Fino all'ultimo respiro. A un certo punto lo si vede arpionare un volatone antico di controbalzo, aggredisce con veemenza la rete, doma il missile che l'altro gli scaglia tra i piedi, grazie ad una demivolè benedetta e stoppata di rovescio, che doppia con una stop volley deliziosa in allungo. L'altro si prodiga in un recupero impossibile, e lui prova a concludere con l'ennesimo ricamo inutile per il tennis, utile a rendere il punto un quadro quadro immortale. E quel ricamo a campo spalancato, muore tristemente a metà rete. Lui se la ride, e ride pure Juan Martin. La carriera di Marat Safin, sta tutta in quel punto.
L'istrione carismatico non sfrutta l'inizio esplosivo, il primo set è dell'argentino, 6-4. Ci si aspetterebbe un crollo repentino, non sorprenderebbe certo, chi lo ha visto arrabattarsi contro Robredo a Roma. Ma anche il secondo set è tirato. Marat regge il passo. Gioca alla pari, frustate, affondi devastanti e prepotenti prese della rete. Il pubblico sconfina nel commovente, già sull'0-15 inizia dei timidi battimano d'incoraggiamento per quel gigante tormentato, cui chiede l'ultima impresa. E lui ci prova, mica no. Interrompe bruscamente i battimano, e scaglia bordate di servizio.
Il tempo di ammirare un'altra risposta futurista e vincente, sul servizio bomba dell'argentino, e chiedersi un'altra volta “perché?”, che si arriva rapidamente al capolinea. 5-5 e palla break. Pochissimo meno di un match point. Si salva ancora dal baratro, e quando nel game successivo gli riesce il capolavoro in ribattuta, il palazzetto pare esplodere, in un'apoteosi irreale. 6-4 5-7. Quell'imbarazzante "postumo in vita" degli ultimi tempi, all'ultima uscita, fa partita pari contro il virgulto ragazzo argentino, imbattibile picchiatore e vincitore dell'ultimo US Open. Chi lo avrebbe detto. Capace di stupirci, nel bene e nel male, fino all'ultimo. Che Marat sarebbe altrimenti.
Una sola, piccola distrazione, gli costa il break ad inizio del terzo set. Pare finita, evita miracolosamente il doppio break, di puro orgoglio. Il pubblico pretende che non molli, e lui rimane ancorato alla partita, esplodendo diamanti grezzi che nascono dalla pazzia pura. L'argentino non sembra gradire lo scomodo ruolo di turpe boia, killer finale, ma tiene duro e picchia forte, perché deve farlo, è il suo mestiere. Quasi spinto da quelle stesse divinità che lo strinsero/costrinsero in un talento enorme, Marat vede il baratro, e si salva ancora: 4-5. Al cambio campo, sugli spalti inscenano addirittura una ola improvvisata, non sanno più che fare. Marat si guarda attorno con occhiate panoramiche, sorride impertinente. Quasi divertita indifferenza e molto compiacimento. Tutto quello per lui, chi lo avrebbe detto quand'era un ragazzone russo che non sapeva dove poter allenarsi. “Ma guardali quegli stupidotti, è solo una partita...”, pare dirsi.
Ma quando nel game successivo, incoccia una risposta incrociata impossibile e vincente di dritto, si spera nell'ennesimo miracolo. Ci vorrebbe il lieto fine, occorrerebbe un avversario che allentasse il freno per due punti di fila, che sbagliasse qualcosa. Ma Giovan Martino il campanaro è tipo poco sensibile o avvezzo a simili smielati sentimentalismi di quart'ordine. Azzecca una serie di prime imprendibili, e Marat saluta. 6-4 5-7 6-4. Del Potro, quasi si scusa, sedendosi al fianco.
Solo il tempo dell'ennesimo teatrino d'addio, questa volta quello definitivo e finale. Lui che caracolla al centro del campo, il filmato di dedica, una targhetta, tanti colleghi attuali e passati a rendergli il giusto tributo, con deferenza. Pronto a stupirsi e stupirci ancora, riveste quell'espressione beffarda e guascona, di inattesi lucciconi. Qualche frase, ci si aspetta l'ultima istrionica pennellata anche al microfono. Lui invece, per un attimo ritorna il povero ragazzone russo con una vecchia racchetta, a cui alcuni osservatori diedero l'opportunità di averne due o tre, e anche un campo da tennis vero in cui allenarsi. Ringrazia il tennis per quello che gli ha dato, e grazie al quale ora potrà permettersi una seconda vita. Ed in un periodo in cui presunti ex fenomeni pelati di Las Vegas affermano di aver detestato lo sport col quale si sono arricchiti, e seguitano a voler fare soldi gettando fango sullo stesso, le parole del russo sono un altro esempio della sua grandezza. In campo e fuori.
Lui si, realmente, non ha mai amato questo sport. Più che altro non ha amato le dinamiche, i meccanismi, la competizione eccessiva e una freneticità sempre uguale. Ma non omette di ringraziarlo per quello che gli ha dato. Inimitabile istrione e campione a folli sprazzi, arrivederci. Chissà tra un anno e mezzo, se cambierà idea, tra quattro o cinque mischiato agli altri ex, nei tornei dei veterani, o dovunque deciderà, lui.

martedì 10 novembre 2009

Marat Safin e l'ultima pallina a Parigi




A Parigi, sanno sempre fare le cose in grande. Il sorteggio, con mano candida, sembrava aver scritto un finale scontato. Forse fin troppo banale, per la carriera dell'artista sregolato. Un primo turno di pura passerella, contro un viandante di casa, e poi l'addio, con tanto di apoteosi, contro Del Potro. Un'uscita di scena degna, contro un avversario degno, nel suo torneo preferito (e vinto tre volte), Parigi Bercy.
Accendo lo strumento multimediale, e scorgo il nostro eroe russo che veleggia in carrozza. 6-4 2-1. L'avversario è un buffo ragazotto, Thierry Ascione si chiama. I francesi lo pronunciano “Assion”, ovvio, con la boccuccia tutta tirata. Tennista mediocre, sparring ideale per la penultima passeggiata del campione. Marat è calmo e sbarbato, simile a quello che meravigliò il mondo nel 1998. Che sia un oscuro e volontario presagio? Avanti di un break anche nel secondo, comincia a disunirsi. Prende a sparacchiare orride pallate, gettate via con estrema noncuranza. Noia e rassegnazione. L'eroe per caso Ascione ritorna in vita, pronto a guastare quel copione, così pateticamente ovvio e melenso. Ha una carriera spesa nei campi secondari dei challenger, il buon Thierry. E l'uomo normale ci mette tanta volontà e serietà, costretto nel suo bel fisico da carpentiere drogato di rosetta alla mortadella. Stempiato, con barbettina eremitica e ventre dilatato, appena celato da maglietta sbluffata. Accoglie i generosi cadeaux dell'ex numero uno russo, che a 29anni smetterà, dopo tanti successi, soldi e due slam vinti. Lui a smettere non ci pensa, a 28 anni è numero 168 al mondo, e negli slam ha vinto solo due volte (due partite, però).
Marat seguita nella sua missione suicida, scrolla le spalle e scaglia qualche racchetta sul carpet. Tutto lì. Parente stretto di colui che rese fenomeno imbattibile un certo Ouanna. Ascione non si disunisce, è imperscrutabile, non fa una smorfia, gioca un tennis agricolo e arrangiato, ma tanto basta. 6-4 4-6. Ed anche nel terzo mena le danze mortifere, assecondando gli orrori del gigante, che salva palle break simili alla trillante campanella dell'ultimo giro.
Sul 4-4 nel terzo, rinsavisco per trenta secondi. Per Dio, Ascione. Thierry Ascione. Va benissimo scombinare i piani, l'imprevedibilità, e tutte le fregnacce possibili. Ma, voglio dire, Ascione no...l'ultimo incontro, perso contro Ascione. Mi sembra veramente troppo. Provo a partorire le congetture più fantasiose. Magari si starà divertendo. Come facevo io a 12 anni, con mio cugino di 8. Lo lasciavo arrivare a 6-3 4-2, e poi iniziavo a giocare.
Il pubblico parigino è tutto per Marat, lo asseconda e sostiene come si fa con un moribondo. E provo per un attimo a mettermi nei tristi panni dell'enfant du pays. Lui, parigino, che dopo un'umile carriera nei bassifondi, si trova ad un passo da una vittoria prestigiosa, ma il pubblico di casa invece di esaltarsi per lui, sostiene a pieni polmoni lo svogliato gigante d'argilla. Ci sarebbe di che avvilirsi.
Trotta come un vitello sgraziato e sovrappeso Thierry, ed in un clima surreale, si trova ad un punto dall'impresa, col russo al servizio, 4-5 15-40. Eccolo l'ultimo punto di Safin su un campo di gioco, forse. Chissà cosa gli passerà per la mente, mi chiedo. Tanti flashback, plausibile. Forse niente, probabile. Marat spara un ace centrale, poi ancora un altro. Affossa un dritto rabberciato, e concede un terzo match point. Altro ace ad annullarlo. Tre possibili ultimi punti di una carriera, tramutati in ace. Salva la ghirba, Marat, 5-5. A suo modo. E ora vorrà vincere, forse. Magari. Il pubblico, stolto, ci crede, si eccita. Thierry Ascione non fa una piega, e continua nel suo lavoro di modesto pedatore. Lui, in fondo, cosa c'entra. Fino al 6-6, tiebreak finale, che Marat Safin chiude in sicurezza 7/3.
I francesi sanno anche fare i titoli, dal sentimentale “Safin fait durer le plaisir” al realistico "Safin fait des heures sups", leggo stamattina. Tra piacere ed altre due ore di straordinario, il confine è assai labile. Ora, come da copione, Del Potro. “Non sarà difficile perdere contro di lui”, chiosa l'impareggiabile istrione.

domenica 8 novembre 2009

Finale di Federation Cup, Italia a valanga sulle scolarette Usa. Malgrado Fabretti


“Oh ma l'Italia è un paese meraviglioso, dovesse andare male potremmo dire di aver mangiato del buon gelato e dell'ottima pizza!”. Mary Jo Fernandez descrive chiaramente, e senza nessuna ipocrisia, lo spirito con cui lei e le sue ragazzotte, sono arrivate in Italia. Provo a rifletterci. Giovani, biondissime, dalla pelle lattea, lentigginose e con gli occhi sbarrati e meravigliati. Non sono poi così diverse da quelle smarrite turiste teenager, che sbarcano sui nostri lidi, con lo zaino a tracolla ed una cartina spiegazzata della città in mano.
Comincia Alexa Glatch, contro la nostra numero uno, la bella e brava velina bruna, Flavia Pennetta. Il solerte Fabretti pare eccitatissimo, con un pizzico di normale emozione contrita, che traspare dalla insopportabile voce da Topo Gigio squillante. Vittima di turno, la sua inerme e soffocata partner, Rita Grande. Presenta al pubblico bue la ragazza americana, come un periglio terribile per la nostra, quasi un mix tra Justin Henin e Chris Evert. Poi, a mezza voce, aggiunge pure che la smilza biondina è numero 137 al mondo. Il match comincia. “Eh, l'americana non ricaverà niente dal servizio...” sentenzia il commentatore, in sicurezza, col tono di chi ne ha viste tante. Primo punto, servizio Glatch, e spatapummete, servizio vincente. Non c'è che dire, comincia alla grandissima. In forma smagliante.
Flavia Pennetta è contratta, tesissima. Le basta il minimo sindacale per tenere a bada il giovane giraffino americano. Leggera, macchinosa, lenta, inoffensiva e trasparente. Il fantasma di un bradipo. Se ne accorge anche il cronista, oramai liberato da quell'alone di pavida e tipicamente italica scaramanzia, e che ora proclama: “Lo avevamo detto che questa americana non aveva speranze con Flavia.”. Il match vola via, e la brindisina lo dirige senza strafare, in sicurezza. Sugli spalti inquadrano la panchina statunitense, Melanie Oudin e Vania King ridono, masticano chewingum e ballano sul ritmo della musica sparata a palla durante i cambi campo, come fossero alla festa liceale di fine anno. E l'immagine delle giovani turiste inter-rail, ritorna alla mente.
La noia imperante è spazzata dal solito, irrefrenabile telecronista sovraeccitato: “Certo che palleggiare con Flavia, può sembrare quasi un suicidio volontario, studiato a tavolino...”. Inimitabile genio del surrealismo contemporaneo. Ma poi svaria, addentrandosi in tecnicismi assai notevoli, di cui non conosce minimamente il senso. “Potrei dire della presa western, eastern, o addirittura continental...ma non confondiamo le idee allo spettatore con questi aspetti così tecnici...eh eh eh...”. Rita trova un refolo di coraggio: “Ma credo gli spettatori ne sappiano più di noi...”. Gelo del Fabretti, che accusa il colpo.
La partita è in discesa, e l'italiana libera un bel rovescio bimane lungolinea. “Oh, incredibileee! Flavia si dimostra solida anche col rovescio, eh? No?...”. Anche? Certo, il rovescio, lo sa pure il mio pesciolino rosso morto due anni fa, è il miglior colpo dell'azzurra. La Grande si tace, per dignità. Scambi lunghi, e i due continuano senza freni, in una logorrea urticante, un approfondito discorso sul dritto. “Ehhh, ma il dritto è un colpo naturale, o ce l'hai o non ce l'hai, eh Rita?, no?”. “Si-si”, fa quell'altra. Il Fabretti, non contento, carica, col tono di chi la sa lunghissima: “Non vorrei citare il dritto di un certo Stefan Edberg...he he he...”. Nello sconfinato repertorio del campione svedese, il dritto era l'unico colpo che mancava. Abituato a commentare le pedalate di Coppolillo, il vate della rai-tivvì, ovvimente lo ignora. Ma parlare di Edberg a vanvera, fa tanto conoscitore di tennis. La sventurata partner di telecronaca vorrebbe morire, prova a cambiare repentinamente discorso. “Bello l'attacco in back stretto, mi ricordo lo usava Rafter...”. Ma il Fabretti è incontenibile, al culmine del suo maramaldeggio saccente ed al contempo da simpatico umorista, imposta bene la voce: “Eh Rita, ma tu stai parlando di uno che non a caso ha vinto Wimbledon...he he he...”. Certo, non a caso. Peccato che Pat Rafter (tragedia per chi lo ammirava) non ha mai vinto Wimbedon, e tutti ricordano la drammatica finale “dell'ultima occasione” del 2001, contro Goran Ivanisevic.
Giusto il tempo per l'ennesimo collegamento in panchina. E chi ti intervistano? Un tecnico della nazionale? Un ex tennista? Un giornalista? No, Max Giusti. E chi diavolo è Max Giusti, e soprattutto cosa ci fa con la maglia azzurra e l'espressione subnormale? E perché intervistarlo di continuo? Un comico pecoreccio, mi dicono. Come non bastasse quello in cabina. Mi aspetto che interpellino anche Martufello o Pippo Franco, ma oramai è troppo tardi. Flavia porta a casa il primo punto, 6-3 6-1. Poco meno di un'esecuzione, annessa lezioncina gratis.
Oudin-Schiavone, invece, mantiene le premesse di un match diverso. Se non altro, un match di tennis. Sostengo Melanie Oudin sfacciatamente. Nessun motivo strano, poiché l'anti-filo-americanismo-leccaculismo, bilancia perfettamente il mio latente sentimento anti patriottico. Semplicemente, mi piacerebbe vedere un incontro combattuto, ed un bel confronto anche domenica. E perché il torello biondo travestito da tigrotto, mi piace assai. L'americanina dallo sguardo impertinente comincia come l'avevamo lasciata a New York, determinata, solida, varia, compatta, completa. Scappa via, ma il provvidenziale stop per pioggia rimette in corsa Francesca Schiavone, che inizia il suo variopinto show. Liftoni, palle alte, back velenosi e bassissimi, che mandano al neurodeliri i 18 anni della giovane Melania (e pazienza che Fabretti sia convinto ne abbia 19. E lo ripete all'infinito.). Inquadrano un Barazzutti assente, quasi scocciato, che si gratta il mento e guarda l'orizzonte. "E guardate Corrado, straordinario il capitano...".
Lo spettacolo pateticamente partigiano, al commento, continua inesorabile. La biondina, con tanto di vezzoso nastrino rosso e scarpette rosa, non molla, serra le mascelle volitive e paffute. Si tiene a galla grazie ad un carattere fuori dal comune ed al suo prodigioso dritto. Colpo naturale, che schizza via bellissimo e radente, anche su una terra rossa resa simile a sabbie mobili. Dalla cabina stanno vedendo altre cose. Chessò, Heidi, o un documentario dell'Istituto luce. “Certo che la Oudin è debole sul dritto, un colpo costruito, che gioca davvero male...”. E l'altra, che pure a tennis pare ci abbia giocato, conferma: “Eh si, eh! Francesca deve insistere sul dritto dell'americana...”. Ma certo, se ti sparano un vincente ad uscire sul dritto, normale diventi un colpo debole, anche se ti chiami Sampras o Federer. Vaglielo a spiegare. L'americana si issa al tiebreak, con l'ennesimo anticipo di dritto, seguito a rete, e chiuso con altrettanto bella volè. “Apperò! Ma guardala! Persino una volè di volo (??). Però, gioca questa Oudin, eh?”. Si sorprende. Cosa può saperne lui, che quella bimbetta diventerà top 10, a breve. Quando ha domato con classe e varietà di schemi Jelena Jankovic, a Wimbledon, e le tre orchesse russe tra le prime tredici, agli Us Open, lui se ne stava beato a commentare il campionato dilettanti di Mountain Bike, godendo del bucolico panorama valsugano.
E seguita, in un delirio continuo, senza fine, senza sosta e vergogna alcuna. Raggiungendo l'acme, col pettegolezzo morboso da portineria, ammantato dal solito, sottile dileggio partigiano dell'avversario, appena quello ha mollato le difese. “Una storia strana, pare che la madre di Melanie abbia divorziato dal padre, ed ora stia con l'allenatore della figlia...Eh Rita? Che ne pensi? Eh?”. Rita, con classe, stronca sul nascere un seguito aberrante. “Ma guarda, non sono informata su certe cose...”. Sul campo Francesca continua il suo spettacolo, senza strafare. Non importa, le basta e avanza per vincere la resistenza della giovane avversaria, che tiene solo per un'ora prima di disunirsi e lasciare il campo alla nostra leonessa. 7-6 6-2, e Italia avanti 2-0.
Stamane mi sveglio alle 14,15 circa, con la testa che pulsa atrocemente per i postumi di una sbronza premeditata. Ed una svitata che mi guarda perplessa, con lo sguardo alterato. Chi è? Che vuole da me? Poi, fortunatamente, se ne va. Accendo la tv e scopro, senza nemmeno tanta sorpresa che Flavia Pennetta ha portato a casa il punto decisivo, 7-5 6-2 alla Oudin. E non mi ci vuole molto ad immaginare un esito simile al match di sabato, con l'americana capace di reggere un'ora al massimo. Bene, brave-bis. L'italia del tennis femminile si dimostra straordinario esempio di carattere e compattezza. Talento, solidità, anche mentale, e professionalità. Tutto quello che manca agli uomini in tricolore, insomma. E pazienza se non c'erano le Williams, chi manca ha sempre torto. Viene da chiedersi se una squadra così grande ed encomiabile, meriti Fabretti. A proposito, se qualcuno ha visto gli incontri di domenica, ed abbia ascoltato altre gemme del prode telecronista, sono ansioso di sapere.

venerdì 6 novembre 2009

Tennis, i figli e figliastri del doping. Wickmayer e Malisse, il delitto di non chiamarsi Agassi



Tanto tuonò, che piovve piscio liofilizzato. Il clamore suscitato dall'affare Agassi, e l'ammissione dell'ex campione di essersi drogato come un cavallo pazzo, coperto dalla premurosa federazione internazionale, non poteva che provocare violente ed aberranti reazioni, da parte della stessa. Ma non verso chi si era reso partecipe di quella (ancora presunta) burattinata di regime di dodici anni fa, bensì inasprendo il pugno di ferro verso i giocatori attuali. Notizia di ieri, Yanina Wickmayer e Xavier Malisse sospesi un anno, rei di non aver comunicato un cambiamento di città, nell'ambito di possibili controlli antidoping a sorpresa. Una grossa ingenuità, e null'altro.
Nel magico mondo del tennis, succede che se sei numero uno, piaci alle ragazzine ed hai un grande talento mediatico, puoi vincere Wimbledon o fare il grande slam, ammettendo candidamente l'uso di qualsiasi tipo di droga per cavalli da corsa, che quelli dell'antidoping, comprendono benissimo la situazione, quasi con materno amore. Se ti chiami "carismio" Minar, Giovannona Wickmayer o Saverio Malisse, rispettivamente, un insipiente mestieriante ceco, una ragazzona emergente e un vecchio bucaniere che prova ad arrabattarsi nei bassi fondi, alla federazione internazionale non puoi darla a bere, no-no-no. Un banale disguido burocratico, e si scatena la loro ira funesta. Andre Agassi prendeva due piccioni con una fava. Lui, da perfetto professionista parruccato, comunicava per tempo i suoi spostamenti. Chessò, immagino...”Cari lor signori dello spettabilissimo antidoping (risata), oggi non sono a Las Vegas a farmi di chetamina come un rinoceronte selvatico, ma mi sono recato a Santa Monica, sulla spiaggia di Venice, dopo che il mio manager mi ha fatto provare una polvere d'angelo, strepitosa assai. Contro la mia volontà. Spero comprenderete l'innocente disguido. Ma se volete venire a farmi l'antidoping, io qua sto, eh..”.
La squalifica ai due belgi, è nient'altro che un grottesco tentativo di salvare un'immagine offuscata dallo shok procurato dalle dichiarazioni dell'ex tennista di Las Vegas. Abbinata alla sindrome di figli e figliastri, che regna nel tennis, nello sport, e nella vita in generale. Ve li immaginata Nadal, Federer o persino Djokovic (massì), nel loro girovagare per il mondo, chissà quante volte hanno omesso di comunicare un cambio improvviso di città e programma, per semplice dimenticanza. Pronto a giocarmi l'ammennicolo sinistro (quello a cui tengo di più). Invece "Giovannona coscia lunga" Wickmayer e Saverio “squilibrio latente” Malisse (non ci credete?), non hanno scampo contro la furia della nuova caccia alle streghe.
La giovane e statuaria belga dalla roncola alla criptonite fumante, era lanciatissima, nonché impegnata nel Master di serie b, a Bali (a proposito, “farfalletta volleatrice” Martinez Sanchez e “tettine frementi” Kimiko Date, protagoniste assolute.). Un anno di stop potrebbe essere un duro colpo per la sua ascesa. Il carattere di quella ruvida ragazzona boccoluta e dagli occhi malinconici, non si discute. E non sto qui a raccontare la sua storia, degna di una trasmissione strappalacrime della De Filippi. Ma chi lo sa, “il cervello è una sfoglia 'e cipolla”, ripeteva sempre il mio fruttarolo (nonché psicologo di fiducia). Massima popolana che calza a pennello anche per Xavier Malisse, cui lo stop, se confermato, unito ad una carriera già angosciante e schizoide, agli imminenti trent'anni da compiere, ed al numero 93 raggiunto dopo un anno di purgatorio nei challengers, potrebbe rappresentare la pietra definitiva su una carriera gettata alle ortiche, di suo.
Con tanti ringraziamenti al kid di Las Vegas, che se la starà ridendo, pensando alle vendite boom del suo libro (opera immortale, immagino).

Finale di Federation Cup. Italia pronta a sbranare i piccoli Usa



Ah come sono lontani quei tempi. Sorridenti soldati stelle e strisce, a bordo di luccicanti cingolati, liberarono l'Italia oppressa, donando “cioccolate-cioccolate! E sigarette a papà!” (libera e fedele citazione di mia nonna, che fanciullina, dai generosi soldati, anelava cioccolato al latte di cui era ghiotta assai e sigarette per il babbo indigente). A Reggio Calabria, sede della finale di Federation Cup, arriva un'America piccola-piccola, in tutti i sensi. Pronta ad essere spazzata via dalla corazzata italiana. Chi lo avrebbe mai detto alla mia povera nonna.
Invece delle monumentali sorellone Williams, fresche di finale al Masters di Doha, ed evidentemente bisognose di riposo, e ritempranti nuotate nella piscina olimpionica della umile magione di famiglia, atterrano in Calabria un manipolo di giovinette yankee, pronte a recitare la parte delle sceniche vittime sacrificali. Due teenagers bionde della stessa risma tennistica e fisica, che paiono strappate ad una pubblicità sulle gomme da masticare o lo shampoo baby alla camomilla. Entrambe biondissime e con tanto di mascella volitiva impertinente, occhi vispi, sorriso durbans e dentatura impeccabile, modellata da macchinette d'acciaio.
Melanie Oudin la tremendissima, diciassettenne trottolino biondo che agli US Open sembrava la nipotina liceale di Jimbo Connors, dopo l'exploit di New York, uscita dal trance, non ne ha azzeccata una, perdendo a ripetizione nei tornei di qualificazione in Oriente. Alexa Glatch, seconda singolarista, è più gracilina di Melania, di anni ne ha venti, ma almeno due li ha persi a causa di un grave incidente in macchina, che le frantumò braccio e polso, mettendo a rischio l'intera carriera. Da quindicenne grande promessa, si è riadattata a discreta tennista, incapace comunque di entrare tra le prime cento.
Le nostre sono favorite per classifica, esperienza, stato di forma, ambiente e maggiore attitudine alla superficie, rispetto alla due giovinette dal gioco piatto, più avvezze ai campi in cemento delle high school. Mary-Jo Fernandez, avvenente mister delle americane (nonché graziosissima perdente da top 5 negli anni '90, con tanto di coda di cavallo bombata e pelle ambrata da indiana cherokee), non aveva altra scelta. Sperare che Melania ritorni irriverente agonista in stato di grazia esaltata, scambiando Reggio per NY. E Alexa si scopra grande (ed integra) giocatrice, di colpo. Non è molto, ma quello poteva fare la povera Maria Giovanna spiritata.
Occorre davvero fare un enorme sforzo di fantasia, per immaginare come le due top 20 azzurre, possano fallire l'obiettivo. Allora ci provo. Le condizioni approssimative della nostra velina bruna ispano-brindisina, alle prese con un ginocchio bizzoso ed una stagione massacrante. Poco male, in caso di forfait, anche Roberta Vinci e Sara Errani partirebbero favorite contro entrambe le stelline americane in disarmo. Unico punto in discussione, il doppio. Con gli Usa in grado di mettere in campo una coppia collaudata (King/Huber), capaci almeno di giocarsela alla pari. Malgrado l'evidenza, ovviamente, da più parti si è letto dichiarazioni attente e circospette, volte a scrutare ogni periglio nemico. Tutte concordanti nel prettamente italico “calma è gesso”. Certo, c'è l'inquietante precedente del primo turno al Roland Garros, dove Flavia Pennetta, versione madonnina di piombo, fu ridicolizzata dalla giovane Glatch (6/1 6/1), riuscendo nell'impresa di trasformare la modesta ragazzina bionda, in pronipote di Chris Evert. Ma tant'è, una rondine non fa primavera, ripeteva il saggio dopo essersi scolato la settima birra.
Resto convinto che con Serena in campo, avremmo visto un confronto combattuto fino all'ultimo quindici. Così, cataclismi a parte, prevedo una passerella, anche meritata (perchè no) delle nostre. Toccate pure zebedei e qualsivoglia ammennicolo, tenendo a mente che non indovino un pronostico, fieramente, dal 1987. E allora non rimane che immaginare tra una partita e l'altra, un comizio improvvisato di “Cetto Laqualunue”-Antonio Albanese, “infattamente e quantunquemente...”. O al limite, sperare che Fabretti (presumo sia lui il cantore Rai dell'evento) riesca a rendere appassionante l'incontro, producendosi in qualche briosissimo virtuosismo maramaldeggiante, da cabaret involontario. Sperando che, uno e trino, il nostro impavido eroe delle telecronache, reduce dal commento della settimana Valsugana di ciclismo, arrivi per tempo.

martedì 3 novembre 2009

Master Wta Doha. Tra tennis, film del terrore e circo Togni


Ho sognato di fare all'amore con Vittoriona Azarenka e Serena Williams, vestite da guerrigliere amazzoni, avvolte da microscopiche armature d'amianto. Un sogno lungo e tribolato. Tremendo. Il mio psichiatra, sgomento, mi ha consigliato riposo assoluto. Ridurre il lavoro. Eh si, le mie 4 ore giornaliere sono uno sforzo non indifferente, debbo ridurre. “Vuole mica finire come quel debosciato di Marrazzo?”, sembrava voler comunicare, con quegli occhietti furbi e morti. Ho deciso scientemente di tralasciare il Master femminile di Doha. Nemmeno uno scambio, nulla.
Poi, alla fine non ho resistito. Ho visto qualche foto, direttamente dal sito: Il magnifico ed indimenticabile gala di presentazione. Le otto eroine, tutte bardate e vestite a festa, come giulive pulzelle costipate, al ballo delle debuttanti. Abiti da sera, lunghi e griffati dai migliori stilisti froci del mondo. Una passerella raggelante. Dinarona Safina, assai notevole, pareva una bambinona di otto anni, con gli occhioni terrorizzati, fasciata in un nero che sapientemente ne celava i rivoli di ciccia attorno al ventre pingue. Serena “Tyson”, con riccioli inquietanti, stretta e serrata in un tubino elegantissimo, sorrideva ed ammiccava alle telecamere. L'avete mai vista una tigre assassina che sorride in modo sexyssimo? Oppure Mike Tyson che passeggia sui tacchi vestito da gran dama, ed emana cuoricini teneri dagli occhi feroci? I muscoli massicci le scoppiavano tra le luccicanti vestali, destandomi un po' di timore. Ma poi scorgo Vittoriona Azarenka. L'imponenente bielorussa, senza racchetta in mano, rigurgiti, gote violacee e crisi di nervi demoniache che hanno fatto invocare la misericordia di Allah agli emiri sugli spalti, è proprio un bel donnino inoffensivo. Sorride alle macchine fotografiche, assai timida, sfoggiando uno accollato abitino nero, tipo monaca di Monza ed una criniera cotonata stile Marlene Dietrich. Jelena Jankovic ha gli occhi spaventati, li rotea in continuazione, quasi alla ricerca di conferme sulla sua accecante beltade. Nessuno deve averle confidato la triste realtà. Cloppete-cloppete, come una puledra in surplace dopo aver corso il kentuky derby, si presenta agli estasiati fotografi. Tutta pitturata, agghindata e spennellata da truccatori squilibrati, con un'inquietante e sbarazzina frangia equina, che denota un pizzico di timidezza. Sul vestito, estroso assai, dei mostri. Le pensa davvero tutte per fare bella figura. Poco appeal, suscita invece Svetlana Kuznetsova. Eppure la randellatrice russa, si muove con la stessa grazia di un timidissimo sceriffo del far west, facendo la sua bella figura. La tapina, è costretta in un aggressivo tubettino leopardato, stile battona d'altissimo borgo. Ma anche grazie ad un accurato maquillage, che maschera sobriamente la subdola ricrescita della barba da 24ore, pare a suo agio.
Strappano una risicata sufficienza Carolina Wozniacki, ingobbita, senza fianchi e con boccoli fluenti alla Shirley Temple, dentro un virginale vestitino sbluffato, ma anche Elena Dementieva, la vampiressa russa, incurante dell'abbronzatura da muratrice, ostenta un bel toupè à la page e maschera auto-abbronzante bilboa.
Ma, incredibile a dirsi, dopo la sfilata da Circo Togni, si è giocato anche al tennis. Finita la circense sfilata, sotto gli austeri dettami di qualche simil Oler Togni, le spaurite fiere addomesticate hanno iniziato le danze sul campo. E si è rapidamente passati dal circo bulgaro, ad un raggelante mix tra “L'orca assassina”, e “ER medici in prima linea”. Desiste dopo tre minuti Dinara Safina, la cui schiena imbustata per entrare nel vezzoso tubino serale, fa crack. Sostituita da Vera Zvonareva, che si ritira pur'ella per ragioni mistiche. Sostituita dalla meno truculenta delle Radwanska, Agnieszka. Lei non si ritira, ma lo fa Vittoriona Azarenka, non prima di aver regalato ai basiti sceicchi del Qatar, qualche altro travaso di bile, un paio di ammonizioni, una manciata di racchette frantumate e una serie di smoccolamenti che farebbero rabbrividire anche Thomas Milian. Poi depone l'ascia di guerra, e, voci di corridoio, pare abbia pianto nel silenzio del suo spogliatoio, dandosi feroci colpi alla testa. Piagnistei greci, crampi, urletti diperati della povera bamboletta Wozniacki, che stringe i denti e poi, ovviamente, si ritira.
Rimane da fare una piccola, insignificante riflessione. Metà delle tenniste, fuori causa per infortuni, che si appaiano ai tanti abbandoni tra gli uomini. Si gioca troppo, dicono i saggi. Probabile. S'è sempre giocato tanto. Troppi tornei su superfici dure, che minano le delicate giunture delle atlete. Possibile. Forse, però, si deve mettere nel calderone anche una sempre più diffusa metodologia di allenamento, e stile di gioco muscolare, da autentiche forzute strappate a miniere kazake. Ed dagli e dagli, una roncola furente via l'altra, si rompono. Immuni da simili debolezze corporali, le due sorelle coltelli, Williams, che infatti si giocano la finale. Con la vittoria di Serena, che ha oramai preso un cruento sopravvento psico-fisico sulla malcapitata Venere.
Breve e svogliato cenno ai torne(ucoli) settimanali maschili. Quasi un campionato francese a Lione. Ma la spunta il vecchio pirata calvo Ljubicic. Croato che almeno da un paio d'anni vaga svogliato, tra sbadigli ed infortuni (anche quando cambia canale stravaccato sul divano). In finale, il testone lucido la spunta sul gradevolissimo volleatore transalpino Llodra, numero 9 o 10 di Francia, ma che se fosse nato in Italia sarebbe il più forte tennista azzurro della storia, dopo Pietrangeli e Panatta.
A San Pietroburgo, dolcetto-scherzetto di Marat Safin, che in mezzo a figuri di secondo piano, avrebbe potuto vincere anche con due zavorre di sei chili ai piedi, entrambi gli occhi bendati, e giocando con la mano sinistra. Invece è giustiziato dal meraviglioso airone dei plumbei cieli d'ucraina, Sergei Stakhovsky, talento purissimo ed elegante attaccante naturale. Uno che a vederlo cinque minuti, sembra il pronipote illegittimo e diseredato di Stefan Edberg. Bene così, l'airone dai colpi fluidi e le volèe godibili (quando si ricorda di giocarle), in finale viene a capo del tremebondo argentino Zeballos (chi? Zeballos.).
A Vienna trionfa Jurgen Melzer. L'indecifrabile ed urticantemente godibile leziosismo involontario dell'austriaco, succede al talento geniale e autoflagellato di Philipp Picasso Petzschner. Organizzatori disperati, ed in piena crisi di nervi. “Mai un vincitore normale”, immagino si dicano, affranti, mentre lo premiano. Possibile che il torneo di Vienna, il prossimo anno venga trasformato in circense campionato di foche monache antartiche con turbe psichiche.

Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.