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giovedì 10 settembre 2009

Us Open 2009 - decima giornata - L'altro Belgio di Yanina Wickmayer




Patrick McEnroe, fratello minore di John (ogni famiglia ha il suo Peppe Baresi), intervistava il giovane fenomeno belga Yanina Wickmayer. E quella, con i boccoli biondi disciolti e carnagione lettea di chi è nata nelle ridenti terre del Belgio, parla come una cantilena monocorde. Un'adolescente timida ed imbarazzata, con un filo di malinconia negli occhi grandi, quasi alle prese con una fiaba inaspettata. Niente a che vedere con la guerrigliera amazzone di un metro e ottantacinque, che poco prima aveva demolito la roncola un filo più giudiziosa dell'ucraina Kateryna Bondarenko, centrando la prima semifinale della sua carriera. Fisico slanciato, spalle da nuotatrice ed abbigliamento da giocatrice di volley, devastanti fondamentali da fondo, tirati sempre e comunque al massimo e ad occhi chiusi. Una giocatrice poderosa e rudimentale, senza un minimo di tattica, dal tocco inesistente, e che nei pressi della rete, si avventa ad una volè, come volesse abbattere una quercia secolare con una enorme accetta. Poco male, ha diciannove anni, se qualcuno le insegnerà qualche schema di gioco, a non tirare ogni colpo quasi fosse l'ultimo della vita, e come ci si approccia ad una volè artigianale (almeno versione agricola, ma funzionale), potrebbe diventare l'incubo di molte. Rimane la storia triste di questa ragazza, che dopo aver perso la mamma a nove anni, è portata negli Usa dal padre, che ne asseconda il sogno di diventare una campionessa. E potrebbe anche riuscirci. Il carattere non deve mancarle di certo.
Finisce all'alba il sogno della piccola Melanie Oudin. La diciassettenne nativa di Marietta, pare aver esaurito riserve fisiche e mentali nelle battaglie con Dementieva, Sharapova e Petrova. Più fresca, ed abituata a gestire energie, Caroline Wozniaki, bambolina di cera polacco-danese, del filone veline-bionde non urlatrici. La danese non è certo anziana, coi suoi diciannove anni, ma tira dritto, con un giochino regolare, senza picchi o clamori. E' gradevole esteticamente, le hanno messo una racchetta in mano, e non tira ed esulta come stesse per sgozzare il nemico di guerra. Nella situazione attuale, una delle meno fastidiose. Fosse anche una tennista, chi lo sa. La giovin Melania dagli occhi furbi, si arrende in due set, provando a tirar fuori le ultime energie rimaste, ma rimane la sorpresa più piacevole del torneo femminile. Gioca molto bene, ha un dritto gradevolissimo e con un timing strepitoso. Rischia con coraggio da tigrotto e con quella attitudine e maturità nell'affrontare i match, la rivederemo prestissimo ad alti livelli.
Forniscono sprazzi di tennis intenso Novak Djokovic e Nando Verdasco. Il torello spagnolo, con le sue esasperate angolazioni mancine al fulmicotone, è il prototipo di giocatore che avrebbe potuto mandare in tilt la centralina (non certo iper attiva) del serbo. Ma qualche folle continua a decantare la storia della differenza tra idea e azione. I due sono vestiti come due barattoli di senape impazzita, annessa chiazza leopardata, da attempata entreineuse d'alto borgo, portata con disinvoltuta dal machetto spagnolo. La partita è davvero gradevole, Nando gioca momenti da autentico virgulto esaltato della racchetta, braccio velocissimo, accelerazioni mancine a trovare angoli folli, anticipi che paiono saette infocate, volè gradevoli e puntigliose. Novak, obbedendo al credo del nuovo coach Todd Martin, si getta a rete più del solito. Spesso coprendosi di ridicolo, partorendo obbrobri da chiamare gli artificieri, al limite del reato di indecenza. Non ha l'elasticità da portiere, o un briciolo di tocco per giocare di volo. Non è colpa sua, occorrerebbe un fine lavoro di cesello per limare quel manone angolare.
L'iberico mette in grosso imbarazzo il serbo, svelandone i limiti di lentezza e spostamenti laterali. Ma è solo scena. Con temperamento e agonismo fatuo, cerca di mascherare la sua chiara sindrome di sudditanza verso i più forti. “Anvedi come perde Nando”, si spegna nei momenti importanti. Come tutti i giocatori che non diventeranno mai grandissimi, gli manca il salto di qualità. Forse lo avrebbe fatto vincendo la fantastica semifinale di cinque ore contro Nadal in Australia, invece persa al tiebreak del quinto. Mentalmente gli manca anche qualcosa. Del resto, uno che ha avuto il coraggio di impalmare una serbiatta, che nei momenti di maggior ardore e passione presumibilmente roteava i pugni al cielo strillando “Ajde! Ajde!”, un po' ne deve risentire per forza.
Quando in preda a trance agonistica domina il secondo set, con Djokovic in grande affanno, pensi che lo spagnolo debba spingere ed infierire all'inizio del terzo. Invece spreca una miriade di palle break, e consente al serbo di rientrare. E non può che perdere, fedele al soprannome che gli ho dato, “Anvedi come perde nando”. Con tanto affetto, perchè rimane uno dei tennisti più divertenti in circolazione, e di quelli che sanno tenere meglio la racchetta in mano. Non a caso è tra “i dischi caldi” della mia scuderia di protetti, da un paio d'anni, senza mai riuscire a fare il balzo nemmeno in quella. Djokovic, lungi dall'esaltarmi (non ci riuscirebbe nemmeno vincesse 36 slam e scendesse in campo travestito da topo Gigio), si guadagna la semifinale con Roger Federer, che per l'ennesima volta doma un altro tarantolato scenicamente perdente, Robin Soderling, raggiungendo la ventiduesima semifinale di fila in uno slam. Sticazzi, mi verrebbe da dire, per fare una annotazione tecnica.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.