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domenica 14 giugno 2009

Halle e Queens. Djokovic cucinato in salsa tedesca, Murray avanza come brezza indolente.





Erba dolce erba. Non sono parole di un tossico in crisi d'astinenza, ma i pensieri di un nostalgico del soffice rumore della pallina, che schizza via veloce sui fili d'erba, quasi dispettosa. E pazienza se bisogna assistere anche a due set di autentico stupro tennistico tra Roddick e Karlovic (coi due che si investono con 50ace). Due i tornei di avvicinamento al grande appuntamento coi Championships di Wimbledon. Entrambi colti da un'improvvisa moria delle vacche. Una specie di pietoso lazzaretto.
Al tradizionale Queens (Aegon championships atp), Nadal rinuncia per un dolore al ginocchio, che ne mette a rischio persino la partecipazione a Wimbledon, Marat Safin si tira fuori a causa di un crack alla schiena, Monfils si ritira al secondo turno per una goffa caduta, il francesino Simon invece, zoppica in modo fin troppo enfatizzato, ma continua a volersi trascinare per campi e si arrende al rovescio incantevole di Youzhny. A Roddick gli si gira la caviglia prima di una prevedibile finale. Alla tremenda cappa di superstizione che circonda il torneo londinese (quasi mai il vincitore riesce a trionfare anche a Wimbledon, prima di Nadal), ora si appaia una specie di potere distruttivo per giunture scricchiolanti e muscoli logori dei tennisti. Rimane poco o niente. Scivola via come l'olio Andy Murray. Una brezza leggera ed indolente che a tratti scompiglia i capelli. Dopo gli orrori volontariamente involutivi sulla terra parigina, compitino sin troppo facile per lo scozzese. Mai in pericolo, e finale agevolmente vinta contro l'americano dalle terga inumane Blacke, versione prigioniero talebano del (civilissimo, come no) carcere di Juantanamo: barba eremitica su testone lucido. Lo scozzese lo cucina a fuoco lento ed indolore, lo addormenta, quasi anestetizzando i bei colpi piatti dell'americano, e si limita ad una manciata di proverbiali angolazioni, delle quali è maestro. Perenne espressione di nobile noia svogliata stampata sui lineamenti efebici, come fosse stato tirato giù dal letto, e gettato sul campo a viva forza. Sempre a metà tra un giovane e bizzoso snob ed il barone Wurdalak, centellina al minimo indispensabile il suo talento. Una sorta di moderno pescatore di triglie alla Mecir. Meno dotato tecnicamente di Federer, con capacità fisiche infinitamente meno poderose di Nadal, lo scozzese si affaccia a Wimbledon con giustificate speranze di inserirsi nella disputa. Il pericolo semmai, è che l'indolente scozzese non diventi egli stesso vittima del torpore col quale riesce ad imbrigliare l'avversario. Finendo col trasformarsi da geniale ed imprevedibile tennista, a raffinato pallettaro incompiuto e suicida, come a Parigi. L'erba dovrebbe aiutarlo a non ricadere nell'errore.
Ad Halle, in Germania, si è giocato invece il torneo Gerry Weber Open. Assente giustificato il giovin signore Federer. Si starà godendo il momento del trionfo, riposando nella sua tranquilla magione, avvolto da una vestaglia in raso bianco, con tanto di stemma regale “RF” inciso sul petto. E concedendo morigerate effusioni alla filiforme signora Pina-Mirka. Rimangono solo Djokovic e Tsonga a difendersi dall'attacco di uno sciame kamikaze di tennisti tedeschi. E così vediamo sgambettare Kholshreiber, col suo bel tennis adatto alla superficie e l'agonismo di un rapanello lessato, l'esperto Haas, Becker (omonimo falegname del celebre Boris), persino il vecchio Shuetteler che si permette una vendetta sul francese Giquel, il mancino tedesco di origine russa Zverev, che attacca all'arma bianca sulla terra con un serve and volley forsennato, e che sull'erba gioca da fondo, preso da improvvisi scrupoli e barlumi di saggezza tennistica.
E poi, notizie dal grottesco pianeta Picasso-scasso (filù-filù-filà). Petzschner gioca un torneo perfetto. Il suo, torneo perfetto: Geniale ed intermittente come una lampadina perennemente sul filo del corto circuito, rimonta un set ed un break sotto nel terzo nientemeno che Nando Verdasco (sempre più calante e con la testa altrove), col quale aveva raccolto sei games a Parigi. Talmente squilibrato Philipp, che Nando va fuori di testa, si fa tramortire da rovesci dormienti, ricami, e dalle improvvise accelerazioni e pregevoli voleè del picasso tedesco, che vince 3-6 7-6 6-4. Poi al secondo turno, vince il primo set contro la formica gnoma Olivier Rochus, e perde al terzo. E' così, prendere o lasciare. Il più grande esempio di masochismo e genocidio di talento, applicato ad una partita di tennis. Bene così, sicuro protagonista a Wimbledon. Vincente contro Nadal o perdente contro un qualsiasi beone londinese strappato alla sua pausa pranzo in un pub. Dipende se riesce a “svegliarsi col suo piede sinistro”, come cantava Morgan prima di imbesuirsi coi realities.
Finale tra Djokovic (già sull'orlo del baratro contro il frencese Serra), e Tommy Haas, tedesco dal tennis d'attacco elegante e completo, sempre sulla breccia malgrado i frequenti infortuni che ne hanno limitato la carriera. Da oltre un decennio, il buon Tommy è nel limbo tennistico, sempre a ridosso dei primi, con picchi di estemporanea bellezza. Ogni tanto vincenti, spesso rassegnati. Qui ha infilzato come un pollo Jo-Tsonga ed il sonnecchioso connazionale Kholshreiber in semifinale. Il tracotante serbo dalla baldanza inopportunamente esagerata e con la solita ferocia gratuita negli occhi, entra in campo coi favori del pronostico, solo ed esclusivamente per la sua classifica. Per il resto, riceve una (prevedibilissima) autentica lezione tecnica e tattica. Haas veleggia sicuro, riesce a variare il gioco, ha una bella mano, un rovescio raffinato, e gioca godibili voleè. Djokovic invece rema e scivola sull'erba come un bue muschiato. Buffo, costruito e macchinoso anche nello spaccare una racchetta. Si dibatte con la stessa eleganza di uno stambecco storpio. I rimbalzi bassi dell'erba, mettono in evidenza i limiti del suo gioco. La lentezza e l'ampiezza eccessiva dei suoi colpi al rimbalzo, non sono adatti alla superficie erbivora. Mi coglie uno strano torpore e l'improvvisa voglia di seguire il badminghton o un torneo di origami acrobatico, nel vederlo affettare con violenza un rovescio e caracollare meccanicamente a rete. Neanche fosse la moderna ed ancor più rigida versione di MazingaZ, o (se siete animalisti) una specie di pesce spada che cammina sulle pinne inferiori. Brutalizza e scentra voleè con mano da fabbro e movenze da spaesato pachiderma in crisi esistenziale. Tremendo, semplicemente tremendo. Haas, impietosito, prova invano a rimetterlo in gioco, con tre doppi falli nel tie-break del secondo. Poi nel terzo set torna a dominare e farlo a fettine. Come un pesce spada, appunto.
A margine, annuncia il ritiro il trentacinquenne svedese Thomas Johansson. Nitida e composta espressione di un tennis lineare e trasparente come una lastra di ghiaccio che ricopre un tetro fiordo scandinavo. Nell'interregno tra Sampras e Federer, seppe vincere l'Australian Open del 2002. Rendendo palese l'autolesionismo sciagurato di Marat Safin, che quella finale la giocò dopo una notte di bagordi e Safinettes frementi. Avvistato completamente distrutto, nella refrigerante alba australe, dopo una notte bollente. Da solo su una panchina, a meditare sul mondo e sul suo perché. E Johansson ora può dire di aver vinto uno slam.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.