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giovedì 20 maggio 2010

Le sette vite di Gattone Mecir



Le quarantasei primavere di Miloslav Mecir, per tutti "Gattone". Inimitabile personaggio che ha caratterizzato il tennis di fine anni ottanta. Sinuoso prodigio entrato nell'Olimpo di questo sport, pur non avendo vinto slam.


Capita, nell'oziosa nottata insonne bagnata da un rosso infame, di vagare nell'etere ovattata. Scovare qualcosa su Proust, o una storia di tennis che faccia gridare al gaudioso miracolo. Metti che John sia tornato sul serio...e se Jimbo giocasse il Challenger di Itaparica a 57 anni? Ad un miserabile passo dalla neuro, sentenzierebbe qualche laborioso strizzacervelli con gli occhi bovinamente tronfi. Solo settimana fa, ecco che quella speranziella brilluccicante ha avuto almeno due secondi di folgorante appagamento: M.Mecir b. B.Becker 6-3 7-6. E non è un vecchio risultato del 1988 o un'esibizione tra vecchi lupi spelacchiati, con le carni laide. Lassù c'è proprio scritto anno 2010. Il fascinoso scenario mitologico è quello di Atene, terra di epiche battaglie. Sembra tutto perfetto. Il tempo di rinsavire e prendere atto che quel Becker è un tedesco d'oscuro mestiere, Benjamin, mica Boris. E Mecir...beh si, è Miloslav, ma non l'indimenticato "Gattone" ammaliatore di vent'anni fa, bensì il figliuolo di felina stirpe. Assai volenteroso tennista da futures, capace d'issarsi financo alle soglie dei primi 400 al mondo, mi dicono. Un filo avvilito, ed ormai travalicato il confine della neuro, provo a prender sonno. Nella penombra osservo quel boccolo biondo che scende brado e selvaggio, tra due occhi mezzo spaventati e poi bonariamente comprensivi. Ecco, quand'anche chi ti sta al fianco comincia a pensarla come gli assecondanti strizzacervelli, è l'inequivocabile segnale che quel limite è bell'e superato.
Un Gattone randagio, per i campi. Impegnato ad apprendere l'oscuro mistero del tennis, sul campetto improvvisato di cemento armato che costeggiava il villino rustico, si provava ad emulare i campioni. Tra le righe verniciate di un giallo ocra, le crepe ed i rimbalzi irregolari. Un dissesto di miseria simile a quello in cui si sono formate brutalmente le sorellone Williams. Ma senza la stessa lungimiranza paterna del vecchio Richard, ovvio. Chi prendeva McEnroe, i meno poetici, che ora fumano tristi sigarette col bocchino, Ivan Lendl. Io fui colpito da un tennista allampanato, quasi alieno a ciò che accadeva attorno a lui. Portava con trascuratezza una perenne barbetta rossiccia e i capelli scapigliati, naturalmente arruffati in uno spinoso groviglio di pensieri intorcinati. Miloslav Mecir, si chiamava. Nome pronunciato come un sibilo tra i denti. Un filo conduttore d'insensatezza mi pervadeva nel venerare SuperMac ed adorare Mecir. E dover imparare tabelline. Tutto si spiega, ricollegandolo all'immagine di compatimento notturno di cui sopra.
Quel cecoslovacco strano accedeva una fantasia mista a curiosità. Appariva misterioso, imperscrutabile, avvolto nel suo mondo irraggiungibile. Quasi svogliato, distratto ed assente. Preso da pensieri superiori alla suburra "racchettara". Il geniale pseudonimo che gli venne donato da Gianni Clerici, ne dipinge l'essenza come un'istantanea: "Gattone Mecir". Il randagio felino che cammina ostentando sicurezza incurante, guardandoti con una sorta di commiserazione, e d'un tratto, con imprevedibile balzo felpato, te lo ritrovi sulla palla. E quella palla la colpiva, accarezzandola in perenne anticipo. Una avanzamento ora ossessivo, ora dolce. Prodigio tale, da smarrire molti avversari. Ammansiti, condotti nel suo mondo, e poi trafitti da un radente rovescio bimane simile ad artigliata di velluto. Improvviso, mascherato e nascosto fino all'utimo istante. In Mecir, tutto era "apparenza" magica ed ingannatrice. Lento, indolente, quasi sventato. In realtà pensava a come stordire la preda.
L'imprevedibile felino, incubo dei replicanti svedesi. Solo qualche ricordo visivo, immagini sgranate di quella sagoma smilza e scapigliata, con la maglia striata come il manto di un soriano. Il tennis di Miloslav comincia a stordire avversari ed a mietere successi, nel 1985. Seguita a tagliare il campo, quasi brandendo una lama affilata che affonda nel burro. C'è di che smarrirsi di fronte a quel curioso slovacco trasandato, sornione ed imprevedibile come un Gatto. Perdere le proprie convinzioni, vedere avvilito il proprio ego da ragionieri imprestati alla racchetta, trasformati in trote d'acqua dolce.
Il ragazzo nato a Bojinice si ritaglia uno spazio importante, nell'epoca dei tanti piccoli replicanti dell'orso Borg. E sono proprio gli squadrati svedesi a patire come un tormento irridente, le variazioni del felino slovacco, sonnecchiante e letale. Effetti malingni, colpi ora molli ora tesi, palline senza peso alternate a parabole che spazzolavano angoli imprendibili. Gli sventurati non hanno certezze cui aggrapparsi e appoggiare i loro colpi. In primis Wilander, poi gli altri vichinghi. Succulente prede del Gattone che si lecca i baffi con soddisfazione. Magari dopo averli infilati con un passante in demi-volèe dalla riga di fondo, che fai fatica a credere reale. Sfruttando quelle armi prodigiose, buone per ogni superficie, arriva al numero 4 del mondo, raggiunge due finali di slam, a Flushing Meadows nel 1986 ed a Melbourne nel 1989, vince una dozzina di tornei. Mostra forse il rovescio bimane più bello della storia di questo sport, in un elegante e lacoontico groviglio di gambe e braccia, che paiono doversi annodare.
L'ingresso nell'Olimpo. A quel meraviglioso animale dalle sinuose movenze, è mancato qualcosa per la consacrazione a campione indiscusso: La vittoria di uno slam, soltanto sfiorata e accarezzata. Crudelmente limitato da un servizio debole ed inoffensivo, una rimessa in gioco simile a dileggio di se stesso, con movimento accurato per evitare altri traumi alla schiena martoriata. Già, il fisico...l'altro tormento di Miloslav. "e chissà cosa avrebbe combinato con una schiena integra ed un servizio appena decente...", è la filastrocca più ricorrente e malvagia.
Fallisce l'ingresso nell'olimpo dei vincitori di major, ma per un sottile gioco del fato, entra nell'Olimpo vero, a Seul. Tra corse disumane, muscoli debordanti e rossastri occhi venati di Ben Johnson, nell'anno in cui il tennis ritorna sport degno della fiamma d'Olimpia, spiccano le radenti pennellate del Gattone slovacco. Si sbarazza prima di Edberg, altro svedese, sebbene atipico. Poi vince la medaglia d'oro contro l'americano serve&volley Tim Mayotte. Gli eterni problemi alla spina dorsale non gli impediscono la finale in Australia nel 1989, ancora respinto da Ivan Lendl. Tribolazioni fisiche senza via d'uscita, che nel 1990 contro Edberg, calcando i verdi prati del tempio di Wimbledon, lo portano a raccogliere qualche games nella sua ultima partita ufficiale, a soli 26 anni. Torna nell'ombra, alla sua vita ed alla tranquillità della famiglia come un Gatto, ora sì, pacioso, che schiva la gente. Forse in riva ad un fiume, con l'adorata canna da pesca. Ad aspettare che una trota abbocchi. Con calma e pazienza, fino a tirarla su con una zampata fulminante.

giovedì 13 maggio 2010

Masters 1000 di Madrid, pronostici degli ottavi


Per i fedeli lettori de "il cavallo", che non possono andare all'ippodromo, mi lancio in qualche sbadigliante pronostico, gettato lì.

Federer-Wawrinka: 1. Derby di classe Svizzera. Ma in Svizzera ci saranno le classi? In ogni caso, sembra più che altro il deby pallonaro di Milano. Stessa avvilente sproporzione di forze. Ma il presidente dell'A.c. Wawrinka non è nano, non ha il cervello in pappa a causa dei viagra artigianali, e mantiene un minimo contatto con la realtà. Tornando al match, se il monarca vuole, vince sul velluto. Se balbetta o ha altri impegni, un Wawrinka ardimentoso può metterlo in difficoltà, e vincere financo un set.
Gulbis-Lopez: 1. Il cavallo di razza lettone è ormai lanciato verso le alte sfere. Il fotomodello iberico invece, seguita a tirare belle voleetine mancine fini a se stesse ed a qualche esteta. Re-match dei quarti di finale giocati a Roma. Risultato medesimo, forse più netto per l'Ernesto di Lettonia.
Ferrer-Cilic: 1. Eccolo un match entusiasmante quanto un dibattito tv tra Mara Carfagna e Daniela Santanchè sul burka. Il cagnaccio iberico è reduce da gran risultati sulla terra. Il giraffone dormiente di Medjugorie pare si stia riavendo alla vità intorno a lui. L'insostenibile spagnolo pur essendo avvezzo alla palta ed a lavori al tornio, deve pur mollare un attimo la presa. Il croato ha bisogno di risultati e di prendere fiducia. Prendo Ferrer in tre set, in evidente controsenso.
Hanescu-Murray: 2. Confonto raffinato ed assai tecnico. Elettrizzante, come due anitre che si beccano su uno stagno smosso dal venticello. Hanescu gioca bene. Murray giocherebbe anche benissimo non dovesse pensare a come vincere una dozzina di slam e rimanere un par di lustri al numero uno. Vincerà Murray con qualche patema.
Almagro-Monaco:2. Non si può non prendere Monaco, anche contro ogni pronostico. Il piccolo ed obeso concetrato di petulanza paranoica iberica, proprio non si riesce a pronosticare e sostenere. La miniera il suo posto, o la pubblicità per le panciere contenitive. Juan Monaco ha un polso mal ridotto (stesso trauma che impedisce al Fognini di iniziare la scalata alla classifica e di vincere un match contro un Picasso versione scassa, sul 5-4 40-30 del terzo), è fuori forma, ma è nato a Tendil.
Monfils-Garcia Lopez: 1. Cercasi volontario per esperimento scientifico da Luciano Onder: Riuscire a vedere più di 15 minuti di questo match, e rimanere vivi. O con le meningi salde e la prostata integra. La tremebonda marionetta di cauccù scoordinata (Monfils) ha come grande obiettivo la vittoria a Parigi (certo), Forse si risparmierà, evitando di lacerarsi tutti i muscoli ad ogni punto, come solito fare. Ma contro Garcia Lopez, dovrebbe bastare. Forse.
Verdasco-Melzer: 1. Nando tutta la vita (6-3 6-1). Certo, sempre che lo spagnolo non abbia di meglio da fare.
Nadal-Isner:1. Ah beh. Il frigorifero gigante americano non è riuscito a sgominare Nadal sul veloce, vuoi che ci riesca sulla terra? Lo immagino preparare con perizia il movimento di dritto, e quell'altro ha già fatto il punto, agitato i pugni al cielo, fumato una sigaretta e letto due cantici della "Divina Commedia". E il frigorifero sta ancora preparando il movimento.
Già gran risultato, riportare con precisone gli accoppiamenti degli ottavi. Il resto è grasso che cola. La Grecia sta peggio di noi, del resto.

lunedì 10 maggio 2010

Internazionali d'Italia, Maria Josè dieci e lode



Gli Internazionali femminili di Roma consacrano Maria Josè Martinez Sanchez stella di prima grandezza. Tra le corse della Jankovic e i tentennamenti delle Williams


Maria Josè Martinez Sanchez: Lode. Dopo sette anni di fiduciosa attesa, alla leggiadra pupilla dei miei occhi riesce l'impresa che la consacra al grande pubblico. Rischia di andar fuori al primo turno, si salva e non ce n'è più per nessuna. Affetta e stronca autostime e muscoli di avversarie quotate, lasciando loro le briciole e tanto avvilimento. Un delirante spettacolo di smorzate, servizi, demi volè fatate, rovesci angolati, fluttuanti dritti slice. Fantasia al potere. Estasi ed incanto. Solita mano magica e variazioni diaboliche abbinate finalmente ad una gran solidità mentale ed una fiducia che rasenta lo stato d'esaltazione creativa. Vero oppio per i miserabili esteti che da anni speravano arrivasse "quel giorno". Ossigeno puro per l'intera Wta e la dimostrazione che si può vincere giocando in modo così divertente. Magari da domani qualche allenatore insegnerà ad una ragazzina l'utilizzo di quella cosa misteriosa chiamata "palla corta", o che giocare di volo non è reato federale.
Jelena Jankovic: 7 (sul miglio sterrato). Sarà la vicinanza all'ippodromo di Tor di Quinto, ma a Roma esprime il massimo del suo tennis. Per batterla devi impallinarla in piena fronte. Ma Venus e Wickmeyer non arrivano nemmeno alla figura e una Serena non al meglio manca il colpo del k.o. Oppure puoi ridicolizzare i suoi equini recuperi come fa Martinez Sanchez. Solito spettacolo da labirintite: Esondante simpatia da salamandra urticante, folli sgroppate neanche fosse un dromedario ingobbito, gran spaccate sfibra muscoli in recupero (autentico marchio di fabbrica del suo repertorio), stridule imprecazioni da coinquilina di "Brendona" in Via Gradoli. L'altra tira un colpo al limite del prodigio, e lei guarda al cielo. Cerca conforto, poi smoccola come uno scaricatore di porto ebbro di vinaccia e olezzante di alici marce. Sbaglia una facile palla e invece ostenta un sorriso di cemento. Questa è la numero 4 al mondo: Tanta corsa, mano di gesso e nessun colpo vincente.
Serena Williams. 6,5 (per il corso di manicure). Che fosse arrugginita lo aveva detto, e s'era visto. Affronta l'impegno romano al 10% della condizione, e con la stessa preparazione di un dispendioso corso di manicure. Tanto basta per sfiorare la finale. Al 12% risulta la numero uno al mondo inattaccabile. L'innato agonismo emerge solo a tratti, sottolineato da primordiali ruggiti, nel mezzo di una semifinale persa male con Jelena Jankovic. Incostante ed incapace di assestare il colpo definitivo alla serba che trotta e striscia. E quando ad un picchiatore manca il colpo del knock-out, può perdere anche da una utilitaristica incassatrice come la serba.
Ana Ivanovic: 6. "E' finalmente tornato il tennis sensuale", capita di sentire ad un tg della tv generalista. Chissà quale mirabile "tennis sensuale", ammirerebbero simili intenditori guardando la mia barista-musa moldava Vera, se solo si decidesse a prendere una racchetta in mano. Per carità, dopo mesi passati a sparacchiare doppi falli e una sessantina di gratuiti a partita, nella capitale mostra netti segni di miglioramento. Perché di peggio c'erano solo due infermieri che le infilavano una camicia di forza. Finalmente più serena e meno istericamente apprensiva, batte in sicurezza due top ten, risultando persino meno fastidiosa da guardare (si, l'ho scritta). Rimangono i problemi di spostamento ed intelligenza tennistica da alga marina, goffe cadute da tennis semi dilettantesco (guardare qualche lancio della pallina sul servizio, da comiche di Charlot d'inizio secolo). Limiti che mette a nudo l'iberica Martinez Sanchez, infliggendole una sconfitta parente stretta della ridicolizzazione sportiva.
Venus Williams: 5,5. Gli organizzatori hanno capito come neutralizzare le sorelle Williams: Programmarle sul centrale di sera, con temperature siberiane da tregenda fantozziana, ed umidità come non si vede neanche nelle risaie di Singapore. E quella cadono come gechi atrofizzati ed incartapecoriti per il freddo. Lo scorso anno Serena, quest'anno Venus. La sinuosa venere d'ebano crolla di schianto di fronte a Jelena Jankovic, più brava ad adattarsi ad un campo simile ad uno stagno antartico. Rimane l'indelebile e surreale immagine delle due malcapitate tenniste che giocano bardate come la contessina Serbelloni Mazzanti vien dal mare, a Saint Moritz.
Maria Kirilenko: 6. La bionda pin-up russa si conferma assai caruccia. Ma per vedere tennis, occorre girare su altri campi. Gioca un torneo al di sopra dei suoi ultimi standard, battendo anche l'avatar morto di Svetlana Kuznetsova (4,5). Poi è letteralmente sbranata senza compassione da Serena Williams nei quarti, con l'inquietante crepitio di ossa frantumate, che si udiva in lontananza.
Nadia Petrova: 5. L'esperta russa che pare sbucata da una puntata di "mi manda rai tre" sulle truffaldine cure dimagranti, perde nei quarti da Ana Ivanovic. Mica una sorpresa. Ma non vedevo una tennista giocare peggio e sgozzare tennis con tale disinvoltura, da quando ammirai una georgiana sui 95kg nelle qualificazioni del challenger di Katowice. Da vedere, per sbaglio, ogni tre anni.
Lucie Safarova: 6+. L'avevamo lasciata in Fed Cup trotterellante e svogliatamente perdente. Poco senso patriottico, mentalità individualista o, più probabile, semplice manifestazione di incostanza tennistica. La bionda ceca dagli occhi chiari e lo sguardo intenso verso il nulla, passa in un batter d'ali da smarrenti prestazioni da cecchina orba al poligono, ad ingiocabile virgulta capace di schiantare Flavia Pennetta e fare quarti di finale. Cede anche lei, attonita, alle balzellanti evoluzioni di Maria Josè Martinez Sanchez.
Caroline Wozniaki: 5-. Ennesima debacle della tennista da overdose di Tavor, contro l'iberica farfalletta Maria Josè, le cui lascive variazioni e drop con le ali, la mandano in un manicomio di rassegnazione. L'istantanea più esemplificativa del torneo è tutta sua: Osserva partire l'ennesima smorzata dileggiante dalla racchetta della spagnola, e lei volta lo sguardo tornando indietro, senza nemmeno voler vedere dove atterrerà l'irridente pallina. Quasi a misconoscere il suo assassino.
Elena Dementieva: 4,5. Una "morticia" bionda vestita da palombara, che esce di scena contro Ana Ivanovic. Solita frigida impotenza tremolante nei momenti topici. Trucida tennis e partite con la stessa impunità disinvolta con cui Giusy Ferrero distrugge leggende della musica, da Rino Gaetano a Luigi Tenco.
Dinara Safina: s.v. Campionessa uscente, ex numero uno senza slam, e quasi ex tennista. Una morsa stringe il cuore nel vederla con gli occhioni smarriti, basculante ed in condizioni fisiche impresentabili, simile ad un bacherozzo obeso che si dibatte colpito a morte dal Baygon.

giovedì 6 maggio 2010

Panoramica sui quarti


Uno sguardo ai quarti di finale degli internazionali d'Italia femminili. Quasi una finale anticipata tra Venus e Jankovic, le sorprese Martinez Sanchez e Safarova, e curiosità per una ritrovata Ivanovic.
Petrova-Ivanovic. Accoppiamento sorprendente, perché nessuna delle due alla vigilia sembrava in grado di passare più di un turno. Il torneo romano dopo aver fatto il miracolo con gli italiani, è riuscito nell'impresa di restituire a livelli di decenza la "sebiatta lagrimante" Ana Ivanovic, reginetta indiscussa per la decina di eroici spettatori delle serate al Foro. Una mutazione impensabile, viste le sue ultime uscite, smarrenti e fastidiosamente isteriche. Urge una dotta e rigorosa disamina tecnico-tattica sui progressi della madonnina creola di Serbia: Notevole il completino arancio acceso, che la rende simile ad un mandarancio con la coda di cavallo che volteggia nell'aria, bizzosa e contrita. Per il resto, nell'abbondante tempo che ho dedicato alla lacerante visone dei suoi match (un minuto e dodici secondi netti, tempo comprensivo del cambio campo), sembra un filo guarita dal morbo dello "sparacchiamento" selvaggio in piccionaia, incubo dei "bibbitari" sugli spalti. Recuperata ad una più paziente moderazione, potrebbe ritornare discreti livelli (scaramanzia spudorata).
Ana è riuscita nell'impresa di battere due top ten, nell'ordine: "Linda Blair" posseduta da Belzebù Victoria Azarenka, in un match da allertare la protezione civile, e poi Elena Dementieva bardata come una palombara, cui ha tremato la gelida e pavida manina sul finale di partita, ma questa non è una gran novità. Pericoloso, ma soprattutto imponente, ostacolo verso la semifinale sarà Nadia Petrova. Esperta e corpulenta russa che sebbene abbia le stesse sembianze paciose di una massaia emiliana cresciuta con tre chili di tortellini al giorno, è comunque capace di esprimere discrete trame di gioco. Dovessi pensare al tennis, direi che la russa si lascia preferire per l'approdo in semifinale. Ma giammai me la sentirei di privare il pubblico romano della loro beniamina dall'urlo di guerra contagiosamente avvincente.
Martinez Sanchez-Safarova. Forse il quarto più inatteso. La mancina di Spagna, salvatasi per miracolo dall'eliminazione al primo turno, ha poi liberato il meglio del suo magnifico tennis d'attacco. Centrata ed implacabile, dopo aver affettato in tante piccole listarelle Francesca Schiavone, s'è accanita di gusto su Caroline Wozniacki, tramortendola con dolcezza diabolica. La giovane danese numero due al mondo per misteri insoluti di Csi, è vittima prediletta del tennis spumeggiante della giuliva farfalletta, che affronta ogni volta con la stessa faccia smarrita di una bimba alle prese con lo sconosciuto teorema di Euclide applicato alla palla corta. Le luciferine variazioni condite da volèe e languide smorzate dell'iberica mia pupilla si scontreranno con l'altra semi-rivelazione del torneo, Lucie Safarova, alter ego femmineo del cecchino orbo di cechia Tomas Berdych. Mancina anche lei, ma dal tennis dirompente ed imprevedibile nella sua assoluta mancanza di mezze misure. Se trova la giornata di grazia ed il giusto timing compulsivo, è dura per molte arginarne le accelerazioni senza soluzione si sosta. Ne sa qualcosa un'avvilita Flavia Pennetta, presa a mattonellate sapienti e precise, e in parte Agnieszka Radwanska, sua più coriacea vittima negli ottavi. Risultato in bilico e match potenzialmente godibile, con l'intima speranza che le divinità del tennis continuino ad accarezzare la magia di Maria Josè. Un "vamos" ci sta bene, nella mia assoluta imparzialità british.
Venus Williams-Jankovic. Il mio ottuagenario tabaccaio, stimandomi gran competente di tennis da quando mi sentì proferire la magica espressione "chip&charge", con lo sguardo assai serioso, m'ha posto un quesito sul quale i grandi saggi stanno dibattendo: "Ma è vero che ieri Venus ha giocato senza biancheria intima?". Questioni così strettamente tecniche a parte, Venus è sembrata concentrata e in forma smagliante, decisa a continuare nella sua raccolta di titoli laddove è ancora possibile. Sulla sua strada, in un quarto che potrebbe tranquillamente rivelarsi una accesa finale anticipata, Jelena Jankovic. La serba sgroppante in una tenuta fluorescente che la fa somigliare ad una scoria radioattiva, arriva al confronto in discreto stato di forma. Più che i tanto sbandierati miglioramenti tecnici, in lei molto dipende dalla condizione fisica che ne sostiene un tennis fatto di recuperi, spaccate tremende, corse folli e "pallettate" insipienti. L'ossigenazione all'ipotetico cervello è indispensabile per il suo gioco. L'ostacolo Venus ci dirà quali siano le reali ambizioni dell'emula di Furia cavalla del west, che tanto si trova bene a Roma e vorrebbe vincere il suo terzo titolo al Foro. Malgrado "stiamo tutti bene" (è una cosa lampante, tranne che per gli invidiosi), se qualcuno non può mettere da parte contributi per una vecchiaia che non avrà, mi permetto di consigliare una puntata sulla vittoria della venere d'ebano. Tanto, al limite si sbaglia. Io ebbi già a pronosticare Venus come vincitrice del torneo. Non centro una scommessa dal 1997, ma un giorno o l'altro la tendenza s'invertirà.
Serena Williams-Kirilenko. Semplicemente leggendo i nomi, un brivido percorre la schiena. Facile prevedere la scontata e spietata esecuzione, stretta parente di una truculenta carneficina. Ma le cose non stanno esattamente così. La più feroce delle Williams non giocava una partita dalla finale dell'Australian Open. Per colpa di un infortunio, e perché il tennis rappresenta il 15% per cento della sua vita (saputa questa, Ana Ivanovic che vorrebbe dedicarvi il 120%, se solo fosse possibile, ha provato ad impiccarsi con la racchetta). Il divario che separa la tigre furente dalle altre è talmente ampio, che malgrado una condizione approssimativa e la terra che non agevola il suo tennis, riesce comunque a vincere partite, pur con evidenti amnesie. Ne è un esempio il set regalato alla valchiria teutonica Petkovic. La tedesca è però vincitrice incontrastata del premio "urlatrici creative", grazie a quell'istrionico e contagioso "ufffffaaahhhh", con cui accompagna i colpi. Maria Kirilenko, altra eroina del foro si presenta dunque di fronte a lei con qualche velleità e speranza di uscirne viva. La russa è più bella che brava (affermazione seria, mica sofisticata ironia da bagaglino), ma a Roma ha comunque fatto bene, battendo tra le altre la campionessa in carica del Roland Garros Svetlana Kuznetsova. Direi Serena, se non ha già esaurito quel fatidico 15%.

mercoledì 5 maggio 2010

Internazionali d'Italia femminili, italiane in controtendenza


Già terminata l'avventura delle nove azzurre impegnate sui campi del Foro Italico. L'insolito e capovolto scenario di sconfitte campali, ad opera di atlete che ci avevano abituato a far dimenticare gli insuccessi dei colleghi uomini
Paradossi all'italiana. Gli Internazionali femminili di tennis erano iniziati all'insegna di grandi speranze per le nostre atlete. Sospinti in quell'idea dall'ennesima finale di Federations Cup raggiunta dalle ragazze di Barazzutti, su quegli stessi campi e solo pochi giorni prima. Sbilanciati in trionfali pronostici dopo aver assistito alla dignitosa resistenza dei nostri eroi al maschile, quasi esaltati e rinati a dignità tennistica grazie ai salubri e magici influssi dell'ambiente romano. Vuoi mettere? Se chi pareva perso e disperso è ben riuscito disimpegnarsi, chissà quali irrefrenabili cavalcate delle valchirie avrebbero fornito le nostre eroine, al solito competitive e sempre presenti ai massimi livelli. Ma si sa, il tennis italiano è faccenda che rasenta il paradosso e, quasi per un oscuro disegno divino, ecco una situazione quasi capovolta, facendo le dovute proporzioni dei valori in campo. Per un movimento maschile in sorprendente ripresa, col picco Volandri, ecco la gran Caporetto al femminile. Tutte fuori al secondo turno, nel martedì horribilis dell'Italtennis rosa. Con l'ulteriore incomprensibile (all'apparenza) beffa, delle infallibili soldatesse di Fed Cup che raccolgono briciole di marzapane e otto games in tre partite.
Il malinconico tentativo di Romina, e le altre. Era iniziato all'ora di pranzo, con una Romina Oprandi nuovamente rimessa sul palcoscenico del grande tennis, su quei campi che l'avevano vista meravigliosa rivelazione quattro anni prima. Dopo mesi di buoni risultati nei tornei Itf lottati col coltello tra i denti ed una classifica ritornata un filo meno stridente, l'italo-svizzera s'è invece dibattuta mollemente. Lenta e svogliata, smarrita da quel proscenio, quasi disinteressata. Più asciutta ma più lenta rispetto a quella pesante sagoma che anni prima svolazzava e fluttuava gioiosamente incurante. Un paio di smorzate e poco altro, solo per mostrare che quel braccio martoriato sa ancora generare tennis. Spazzata via da dispettosi refoli di vento e dalle mazzate intermittenti della vezzosa Maria kirilenko, solito ibrido tra la bellezza abbagliante della Kournikova e i tratti di indisponenza estrema made in Sharapova. Romina era l'unica italiana a solleticarmi una certa curiosità apprensiva, inutile nasconderlo. Folle pensare che le ambizioni italiche degli altri, di quelli che se ne intendono parecchio, poggiassero sul suo difficile tentativo di rientro nel tennis delle "grandi" di Romina. Ma a ruota se ne vanno anche Corinna Dentoni, ancora acerba per competere contro l'israeliana Peer e l'esperta Thatiana Garbin sconfitta dalla russa Nadia Petrova. Poco di più offre Sara Errani, che pur con picchi di tennis che a guardarlo più di dodici minuti si diventa reduci di guerra, aveva discrete credenziali, vista la sua classifica ed un tabellone spalancato da una Safina ancora lontana dalla decenza atletica. La nostra combattente bolognese è invece sconfitta dal gradevole gioco di Alexandra Dulgheru, una di quei nipotini di Nastase, che all'ombra spaventosa dei Carpazi sciorinano delizioso tennis. A Roma, dentro una rumena, fuori l'italiana. Avvenimento da far diventare di un viola purpureo Maroni e Borghezio.
Gli exploit Camerin e Brianti. In una settimana insolitamente somigliante a catastrofi maschili, spuntano come fatui raggi di sole le imprese di Alberta Brianti e Maria Elena Camerin. Successi tecnicamente rilevanti e figli di gran carattere, contro avversarie più quotate quali la giovane russa Pavlyuchenkova e la cinese Jie Zheng, tascabile concentrato di urletti e isterico agonismo da zen all'incontrario, ma capace di fare semifinale agli Australian Open in gennaio. Le nette sconfitte al secondo turno dimostrano però, quanto le sorti del tennis azzurro non possano certo poggiarsi sulle due pur encomiabili protagoniste di giornata.
Eroine di Fed Cup in ginocchio. Qualcosa di bello, al solito, lo offre Roberta Vinci, che si diverte a punzecchiare ed irridere il grazioso cetaceo di Russia Alysa Kleybanova, la numero uno al mondo se il tennis si giocasse da fermi. Poi la tarantina raccoglie un game da Agnieszka Radwanska, sconfitta che almeno in questi termini, configura la blasfemia. Ma l'atroce controsenso velato di paradosso, prende forma con le esibizioni delle nostre due punte di diamante. Francesca Schiavone era parsa in forma smagliante nella semifinale di Fed Cup. Manifestazione che non eccita gli animi degli aridi e privi di patriottismo, gli stessi che non riuscono ad esaltarsi per le vittorie contro nazionali a mezzo servizio o che schierino volenterose liceali. Schiavone si salva contro la gazzella slovacca Hantuchova (sempre impeccabile, elegante, compita, piacevole e assai spesso perdente), poi è affettata con grazia lasciva e gaudente dalla mia eroina prediletta, Maria Josè Martinez Sanchez. La leggiadra "farfalletta volleatrice" non da alcuna chance alla nostra. Completamente smarrita da un'infinità di ricami chirurgici, accelerazioni, servizi vincenti, smorzate delicatamente morenti, balzelli e volèe. Così si gioca in paradiso, diceva quello. "Frulla e vai, frulla e vai!", le ripete il suo coach Renzo Furlan. E quella ci prova anche, gran "frullone" esalando un rantolo che ho potuto udire con minor strazio in un mattatoio comunale (un "ahuiiiihhh" umanamente insostenibile), e la spagnola che la lascia di gesso, rimandandole l'ennesima foglia morta. Non sorprende una sconfitta contro la mancina iberica in tale stato di grazia ispirata, desta invece sconcerto l'abulica rassegnazione e l'incapacità di progettare qualcosa contro un simile assolo variopinto, al di là del "riflullo" in top spin. Gran scoramento sulle tribune, compreso il comico Max Giusti nelle vesti di nuovo tecnico Fit, presumo.
Pennetta, imballata e stremata dal doppio. Ancor più sorprendente è la sconfita di Flavia Pennetta, spazzata via con veemenza e trattata come pungiball da Lucie Safarova in giornata accecatamente omicida. Toh, una di quelle ceche che nel confronto a squadre sembravano lontane anni luce dalle nostre, o al limite (ora il dubbio s'insinua) voler fare solo una scampagnata d'allenamento blando. Questione di scelte. Le nostre le avevano sconfitte, per il tripudio dell'italico orgoglio nazionalista. Nei tornei individuali, vanno avanti le altre. Sconfitta cui, almeno per l'impietoso punteggio ed i tre games raccolti, si può provare a dare una spiegazione che vada al di là dello sperare che l'altra commetta "finalmente" errori gratuiti, come m'è parso di ascoltare in giro. Magari la frenetica e dispendiosa attività di doppio con Gisela Dulko, coppia che (azzardo sulla fiducia) dovrebbe avere qualcosa di gradevole, ha portato Flavia ad arrivare agli Internazionali con le gambe pesanti, dopo una finale vinta a Stoccarda la domenica sera. Una scelta in tono minore, di chi vuole raccogliere il resto. La finale nel Master di doppio, oltre alla solita vittoria in Federations Cup, altare su cui sta forse sacrificando per amor di patria alcune delle sue ambizioni individuali (uno a caso, il Master minore di Bali dello scorso anno). Ma la top ten s'allontana inesorabile.

lunedì 3 maggio 2010

Internazionali d'Italia di tennis, bilanci e pagelle


Nadal a vele spiegate sul rassegnato Fererr, in un torneo che consacra Gulbis a stella di prima grandezza. Crisi senza fine per Murray e Djokovic
Rafael Nadal: 8. Macina e frulla avversari a ripetizione, trionfando anche a Roma. Forse con piglio meno arrembante rispetto a Montecarlo, e ancora senza dover battere un top ten. Sulla sua strada effimere resistenze ornate di bel gioco fatuo e rovesci classicheggianti destinati al supplizio: Kohlschreiber, Hanescu, Warinka. Gulbis in semifinale dimostra in modo lampante quello che predico da mesi sulla seconda carriera del maiorchino: Senza difese contro il virgulto di turno sui terreni rapidi, e tennista che ha riacquistato una discreta imbattibilità arrotata sulla terra rossa, dove, complice la lentezza dei campi ed i suoi mulinelli diabolici, riesce ad arginare le sfuriate di un Gulbis (o chi per lui) che le prova quasi tutte. Nadal è battibile, non più giocando un match di disumana perfezione (avamposto di elvetiche pazzie), ma con un grande match. Ed è questa la grande novità ad uso e consumo di Federer e Del Potro (parlandone da vivo).
David Ferrer: 7. Solito spettacolo di estenuante bruttezza. Per carità, il tarchiato spagnolo che corre e colpisce palline come un maniscalco con l'esaurimento nervoso, gioca l'ennesimo grande torneo, in una stagione prodigiosa sulla terra. Infilza come un tordo alla cacciatora Murray, abbatte il totem di cartongesso Tsonga, "mata" un Verdasco versione galletto da combattimento anchilosato dalla fatica. E poi? Poi c'è Nadal. Già, quello. "In finale con Nadal, probabilmente perderò.", dichiara con modestia inferiore. Una frase che spiega il perché se lui provasse mettersi dei bermuda mare a quadrettoni, gli riderebbero in faccia sulla spiaggia, figuriamoci in un campo da tennis. Una sudditanza che costeggia l'imbarazzo, come nemmeno Emilio Fede verso il sultano o il ragionier Fantozzi col Duca Conte Barambani. Entra in campo col tipico ardimento da suddito, lotta, sbuffa, rantola quasi in preda a rigurgiti demoniaci. Nemmeno un acquazzone biblico da far impallidire Noè, riesce a sfatare il tabù del buon Ferrer, da oggi "Inferiore Maximo".
Fernando Verdasco: 7. Il suo modo di giocare è una delle cose più divertenti di questa specie di campionato del mondo iberico su terra battuta: Velocità di braccio, radenti angolazioni e dritti mancini al fulmicotone esplosi con passo tracotante e faccia da Toni Montana del tennis. Arriva a Roma con le gambe pesanti, reduce da un tour de force semi-schiavista. Si salva nei primi turni, e poi come il toreador di Plaza de Toros. Senza l'implacabile virulenza ostentata nel principato, ma con mestiere e un barlume di giudizio (Djokovic rende giudiziosa anche una mela annurca, e vincente persino un eroe della sconfitta acrobatica come Nando). Stremato dalle tre ore e mezza di battaglia rusticana col serbo, cede di schianto a Ferrer in semifinale.
Ernests Gulbis: 7,5. Autentica gioia smerigliante per gli occhi, da troppo tempo violentati dai Djokovic e i Ferrer. "Top 15 entro maggio, segnatevelo (Utor Kalem! Itor ausim!! Olim peror!!!)", profetizzai esibendo una faccia da Otelma d'annata, dopo aver visto stendere in rimonta Berdych a Memphis. In tempi non sospetti e con prove scritte. A Roma si ha forse la consacrazione definitiva di un ragazzo dal talento tennistico abbagliante. Potenza devastante, accelerazioni poderose, eleganza e fluidità di movimenti naturali, raffinato tocco di palla e gran sensibilità di braccio. C'è tutto farne un futuro top 5. Per adesso si guadagna l'ingresso nella top 5 dei miei ram-polli, che vanamente cercava rimpiazzi all'altezza di Safin e del maghetto di Francia, Santoro. Gli stessi occhi pazzi di Goran Ivanisevic, in quel decimo di secondo che precede la battuta e comprendi come proverà l'ace di seconda a 215 km/h, ed il modo di aggrapparsi al rovescio bimane del Marat d'annata, nei suoi dieci minuti di delirio. Svela brutalmente i limiti di condizione di Federer, rischia di perdere con Volandri e se la gioca da apprendista campione col mostro della laguna argillosa, Nadal.
Feliciano Lopez. 6+. A vederlo bardato in rosso-nero sul Pietrangeli, sembra quasi un giocatore del Milan, lento, compassato e con la faccia stravolta da vent'anni di carriera. Uno di quella squadra che senza il "lazzarone" Leonardo, ma con l'illuminata guida di un rabdomante messia gnomo, avrebbe vinto tutto: Campionato e coppe intergalattiche delle libertà. E invece è Feliciano Lopez, iberico attaccante che rimane ancorato alla partita remando dal fondo, e poi affetta Cilic con immacolata grazia attaccante. I suoi servizi e volè rimangono una delle cose più belle viste in tutto il torneo.
Novak Djokovic: 5-. Vestito di giallo sembra il pagliaccio "It" di Stephen King travestito da Titti. Non riesce a prendersi la rivincita contro un Verdasco evidentemente più appannato di quello visto a Montecarlo. Si piazza tre metri dietro la linea come un soldatino di caucciù, aspettando e sperando che quell'altro vada fuori giri. E quando, gioco forza, viene infilzato come una quaglia in una battuta di caccia, impazzisce, sbatte la racchetta, maledice il fato crudele. Due minuti dopo è lì che si agita e batte il petto come sadico generale della Gestapo con le turbe psichiche. Sarà colpa di quegli stilemi alari sulle spalle che rimandano inquietantemente al "Buffalo bill" de "Il silenzio degli innocenti", ma niente di nuovo su di lui. Tennis da tortura medievale, scenate da avanspettacolo dell'orrore, ed ovvia sconfitta.
Stanislas Wawrinka: 6. Rovescio che dovrebbe essere dichiarato patrimonio dell'Unesco, volto devastato dalle guerre puniche, ed atteggiamento da impiegato del catasto al tornello. Gradevole e fieramente insopportabile, ma con lui sai già come finisce la storia.
Jo-Wilfried Tsonga: 5,5. Il tennis sulla terra di Jo è stridente canto di balene arenate. La forza dei suoi colpi, già intermittente, perde gran parte dell'efficacia deflagrante. Dichiara di voler vincere a Parigi. Certo, quando nel mondo non ci sarà più la malvagità e una dozzina di tennisti.
Andy Murray: 5. Un passo in avanti rispetto all'ignominiosa comparsata di Montecarlo. Impartisce una dotta lezioncina di tennis a Seppi, contro cui non perderebbe nemmeno se giocasse con la bacucca mamma ultrà in groppa a mo' di fantino invasato. Prova la stessa tattica con Ferrer, e fa la fine di un polipo sgusciante sbattuto sugli scogli e poi cucinato in padella.
Marin Cilic: 4-. Gli ultimi mesi del pastorello visionario, configurerebbero l'oltraggio alla decenza tennistica. Lento ed impacciato come il moviolone di Biscardi ed incapace di fare male. Una inquietante fase involutiva, che non può essere spiegata solo dalla poco gradita superficie lenta. Di più surrealmente imbarazzante negli ultimi giorni ho visto ben poco: Oriali premuroso bodyguard della pulzelletta illibata Mourinho al Camp Nou, Sandra Milo simile ad un rugoso ceppo secolare in bikini da giovinetta o Bossi jr. che prova a parlare.

sabato 1 maggio 2010

Internazionali d'Italia di tennis, pagelle italiani



Bilancio del tennis azzurro nella settimana al Foro. Volandri rinato a nuova vita tennstica, eroico Lorenzi, segnali di risveglio dal satellite Bolelli
Filippo Volandri: 7. Nella settimana romana, il livornese va oltre le più rosee aspettative, che al più lo vedevano ancora come possibile top cento e discretamente competitivo sulle superfici lente. Batte Luczak ed un Benneteu appena riesumato dal sarcofago, poi mostra il meglio nel pur perdente confronto contro Gulbis. Lotta punto a punto, con la zavorra di un servizio che persino una garrula Silvana Pampanini riuscirebbe a domare con calma sapida mentre intona il motivetto "ma dove vai bellezza in bicicletta". Ma quando libra gioiosamente nell'aere quel rovescio lussureggiante, può ancora battere in tanti e perdere per due sciagurati punti contro un tizio che vale i primi dieci al mondo. Bando all'età, gli infortuni e la presunta mondanità, se ne ha voglia può ancora dire la sua, oltre a rimanere l'unico italiano capace d'infiammare gli animi patriottici in quasi secolare crisi d'astinenza. A metà tra l'impresa di aver raggiunto gli ottavi in un Masters 1000, ed il rimpianto per un match perso al fotofinish per suoi errori.
Paolo Lorenzi: 6,5. Eroe inaspettato, perché nemmeno doveva esserci. Entra in tabellone in extremis, usufruendo della wild card destinata ad un Fognini malconcio, e gioca un torneo da epica mitologia greca. Il giramondo romano trapiantato a Siena, dopo una vita a remare e conoscere la fatica operaia nei challengers, attraversava un periodo difficile. Vuoi mettere il non riuscire a vincere una partita in quei tornei cui si e faticosamente guadagnati il diritto a partecipare? C'e di che avvilirsi. Lontano dai luccicanti campi principali, a Roma s'esalta firmando l'impresa tecnicamente più rilevante tra gli azzurri, vincendo in rimonta su "El Rato" Montanes. Terraiolo di Spagna costantemente tra i primi trenta al mondo, che malgrado l'espressione da giuliva pantegana, sulla terra è osso duro per tutti. Modestia, lavoro, abnegazione e voglia di migliorarsi hanno creato il miracolo Lorenzi, che trascende i ben evidenti limiti tecnici: Ventinovenne top cento, prima partita vinta nei tornei del circuito maggiore, e la fresca convocazione per il prossimo match di Davis, come giusto premio ai suoi miglioramenti. Al secondo turno prova addirittura a fare partita pari con Soderling nel secondo set. S'inventa arrangiati quanto ardimentosi attacchi in back e volèe artigianali, ma l'impresa vera l'aveva fatta battendo Montanes.
Simone Bolelli: 6. Già a Barcellona si erano avuti i chiari segnali di una vitale ripresa al capezzale del nostro lungodegente di talento. Quattro vittorie in fila, più o meno le stesse ottenute nei tanti mesi del profondo sonno, trascorsi come compagno di reparto di Richard Gasquet nel ritrovo di meditazione zen "scuoti la tua mente". Capelli arruffati, sguardo smarrito e bonario di chi ha visto l'oscuro tunnel da vicino, a Roma conferma il trend di rinascita abbattendo il fabbro ferraio teutonico Greul al primo turno ed arrendendosi solo a Verdasco. Lo spagnolo è quanto di peggio si possa incontrare in questo periodo. Il tennista di Budrio gioca un'ora di tennis spumeggiante, smarrendosi al momento di chiudere il primo set. Doppi falli, marchiani errori e riminiscenze antiche che consegnano set e match ad un Verdasco che, evidentemente stanco dopo due intense settimane di gran tennis, pure dava l'impressione di non essere in giornata di grazia tarantolata. A meno di complicati trapianti a Casablanca (lungi dall'essere malizioso, sia chiaro), rimangono gli atavici limiti di gioco del tennista italiano: Spostamenti agonizzanti, risposte morenti ed un rovescio vulnerabile. Il resto sta nella sua testa, perché potrebbe comunque bastare quel gran dritto ed il buon servizio, per un comodo ritorno tra i primi 50. I Masters londinesi e la top 10 sono buoni per le barzellette, oramai più inflazionate di quelle sui carabinieri.
Andreas Seppi: 6. Nella settimana in cui misteriosamente (ma anche no) gli italiani ritrovano motivazioni che altrove paiono miraggi ancestrali, il buon Andreas rimane sui suoi standard oramai brevettati nella galleria del vento di Caldaro. Passa un turno in scioltezza contro Fognini non al meglio, poi si presenta al cospetto di Murray con la stessa cera rassicurante di un condannato a morte prossimo a presentarsi al cospetto del plotone d'esecuzione. Intento nella più proficua attività di spulciare il gatto, leggevo distrattamente di grande occasione per l'italiano. E non v'era mica dell'ironia. Pretendere che Andreas possa (pensare di) battere lo scozzese, sia pur versione posticcia, è puro atto di sadico masochismo intellettuale. Profonde ma non troppo, angolate ma non troppo, le palline del funambolo altoatesino sono l'ideale per il tennis di Murray, quelle che gli fanno credere di poter essere draculesco emulo di Napoleone il gran stratega. Il problema è che ci sono anche i Ferrer e tanti altri, e lui ritorna Pipino. Poco da rimproverare comunque a Seppi.
Potito Starace: 6. Fa il suo dovere eliminando all'esordio l'emergente ceco Hajek, avversario ampiamente alla sua portata, ma con cui pure aveva perso a Barcellona. Può rimproverarsi ben poco per la sconfitta contro David Ferrer, tremebondo aratore iberico di livello superiore, e che in questo periodo sulla terra battuta riuscirebbero a battere solo tre o quattro tennisti al mondo. A memoria d'uomo coi neuroni piallati, una vittoria, una finale e tre semifinali (in una è ancora in corsa) nei cinque tornei quest'anno giocati dallo spagnolo sul rosso. Poi qualcuno lo vedrà gran specialista del carpet indoor, dei prati o della pelota basca, ma questo è un altro discorso. Rimane la buona resistenza di Potito, per almeno un'ora.
Fabio Fognini: s.v. Il ligure perde nettamente il derby della domenica del signore contro Seppi. Confronto oscurato dalle telecamere e che hanno potuto godersi, con impagabile sollazzo, solo i fortunati reduci dal Foro (che il giorno dopo non avevano la forza psicomotoria di rispondere al telefono.). A livello di idea, confronto che Fognini avrebbe potuto anche vincere, data la sua maggior predisposizione al rosso rispetto al notoriamente erbivoro Seppi. L'infortunio al polso e chissà cos'altro, compromettono il match e la convocazione in Davis contro l'Olanda.

Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.