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sabato 11 dicembre 2010

MASTERS 1000 SHANGHAI: ANDY PESCA IL JOLLY

A Shanghai Murray sorprende tutti, compreso un nervoso Federer, e vince il penultimo masters 1000 stagionale. Nadal in calo, Melzer tutto e il contrario di tutto. Un buon Seppi vince due partite. Le pagelle

Andy Murray: 7,5. Il Murray che non ti aspetti. Sonnecchia, tracheggia e urla svogliatamente disconnesso dalla realtà, come essenza impalpabile. Talvolta preziosa, più spesso petulante fuligine. Continua a fluttuare morbidamente vellutato su quella invisibile linea di galleggiamento. Due metri dietro la riga di fondo, alla disperata ed esasperante ricerca della morte travestita da difensivismo ricercato. Di qualcuno che lo schiacci come uno scafandro insignificante, se la complicatissima tela non riesce alla perfezione. Non ne trova nemmno uno fino alla finale, dove sboccia simile a crisalide con una manciata di denti gettati in bocca alla rinfusa. Assolutamente impeccabile al cospetto di sua maestà spodestato Roger Federer nervoso ed infastidito. Indovina una prestazione quasi perfetta, di fase difensiva ed accelerazioni spietate. Ma uno slam ancora non lo ha vinto. Però non ricordateglielo, potrebbe attaccarvisi alla jugulare.
Roger Federer. 6,5. Shanghai svela spietatamente le due facce di Roger Federer. Infinito campione capace ancora di riproporre fasi di tennis da genio lunare e metodico, alternate ad improvvise cadute. Cinicamente danzante su Robin Soderling, elegantemente feroce su Djokovic, cancellando l’onta della recente semifinale di New York. Poi s’inceppa nuovamente davanti ad un Murray esaltato. Soffre lo scozzese e quella prosopopea alterata di palle ora morte ora vive come serpenti a sonagli. S’innervosisce, va fuori giri in fase di allibito sconcerto, e perde nettamente. Mi coglie un pensiero indecente: Quando Roger avrà 32/33 anni e magari farà fatica a stare tra i primi dieci, potrei diventare un suo sostenitore inde-fesso. Mi attraggono come un morbo i perdenti complicati e gli eroi in disarmo, che ci posso fare. Molte donne sono attratte dagli uomini perdenti. Alcuni votano persino per il Pd. Poi ascolto le parole di un attuale seguace, maniaco degli allori, che partorisce elucubrazioni submentali: “Sono tifoso di Roger, ma tra due anni deve smettere, per non rovinare i suoi record.”. L’alloro oltre l’emozione, il motto di questa setta.
Novak Djokovic: 6. Occhi fuori dalle orbite, mento squadrato e prominente, i denti digrignati come ad esalare un ruggito di pazzia omicida e voler spaventare due criceti castrati che girano tranquilli sulla ruota. Tranquilli, non sto parlando di Nole, ma del tifoso serbo inquadrato dietro la grata di Marassi. Non l’incappucciato, ma quello che ruggiva come una fiera della jungla. Però la somiglianza è terrorizzante. E non aggiungo altro. Come fanno quelli bravi ed esperti, lascio la questione aperta ad ogni considerazione. Ah, c’è anche il tennis. E’ in buona condizione il serbo, solido e concentrato. Continua la brillante inerzia degli Us Open. Batte nessuno fino alle semifinali, dove per un’ora se la gioca bene con l’ex monarca di Svizzera in un fantastico re-match newyorkese. Ma stavolta la costruita forza da scaricatore portuale finisce per soccombere ad un elvetico in vena di magie superiori.
Jurgen Melzer: Dal 3 all’8. Un ambivalenza inquietante in un sol uomo con le tribolate meningi costipate dentro un cappellino calzato al contrario. Nessuno come il tennista austriaco possiede in se stesso due entità distinte e sovrapposte che ballano la mazurka a piedi nudi ed ogni tanto si prendono a cazzotti o ruttano una poesia esistenzialista. La meraviglia e il disgusto. Delizia e tormento. Ispirazione ancestrale e abulia mortifera. Il trionfo delirante e il goffo fiasco. Tutto in un unico splendido tennista orrendo. Appunto. Batte e abbatte Nadal nell’unico modo possibile: Sperando in un Dio pagano a scelta. Tira dardi e saette mancine dalla prima all’ultima palla, senza mezze misure, tattiche ed altre frescacce gratuite. Poi contro Monaco torna favorito e nella scomodissima condizione di dover pensare di avere qualcosa da perdere. Ed ovviamente perde, con l’espressione del sarago di mare pescato da tre giorni. Mette un po’ di tristezza vederlo giocare il vincente doppio con Leander Paes, quando la sua naturalmente perfetta metà della mela annurca bacata è l’infortunato Philipp Petzschner. Fibrillo all’idea di rivederli nuovamente in una coppia da trattato di psicopatologia veterinaria.
Juan Monaco: 6. Figlio minore e dalla mano meno violenta del più famoso eroe di Tandil. Ma incarna alla perfezione l’idea del guerrigliero della Pampa. Somaticamente, tecnicamente e tanto altro. Tutto perfetto o quasi, per essere il tollerabile prototipo di un terraiolo. Rispetto al più dotato concittadino Juan Martin ha rotto meno la tradizione terricola di stampo argentino. Quasi un Guillermo Vilas destro, con la spugnosa fascia tergisudore a raccogliere la brada criniera. Al meglio, sull’argilla vale i primi dieci. Risolti i malanni al braccio, a Shanghai complice un buon tabellone è tornato a livelli d’eccellenza anche sul cemento.
Nikolay Davydenko: 4,5. Lo scorso anno di questi tempi “ammiravamo” un “Nosferatu” ebbro di gerovital, pimpante ed invincibile come un computer ibm pelato. Quasi un prodigio dell’irrealtà meccanicistica. Un tenero omino d’acciao che malgrado gli ottantasei anni biologici e l’espressione da cassintegrato afflitto, colpiva la pallina come una macchina sparapalline calibrata al millimetro. Ora di quel cecchino studiato alla Nasa è rimasta solo la pelata e la maglia della salute. Perderà tanti punti, scenderà in classifica. Pazienza.
Jo-Wilfried Tsonga: 6. Torna a vincere due partite in fila. Non gli riusciva da tre mesi e da quell’infortunio patito contro Murray a Wimbledon. E siccome i cerchi si chiudono quasi sempre perfettamente, in Cina è ancora Murray a schiantarlo nei quarti. Ancora lontano anni luce da quel magnifico animale tennistico che forse è stato solo il frutto di un’immaginazione, durata il tempo di un fulmine.
Frank Dancevic: 7 relativo. C’è troppo inebriante fumo per non esserci il fuoco magico. Autentico puledro di purissima razza attaccante. Che nessuno è mai riuscito a domare, e da anni si dibatte nei bassifondi a causa di una schiena dilaniata. Ma che tennista spumeggiante, sior-siori. Se solo riuscisse a stare bene ed incanalare la naturalezza esplosiva del braccio su binari di una normalità apparente, lotterebbe coi iù forti. A Rennes, un challenger, batte il piccolo Federer in provetta (Dimitrov), poi vien fuori da una gran battaglia col nanetto delle favole finlandesi, Clement. E perde in semifinale dallo svizzero Bohli. Bohli, chi? Appunto. Se solo.
Mischa Zverev: 6+. Un anno orribile ormai alle spalle. Riesploso a Metz dopo una stagione disastrosa che lo aveva fatto sprofondare in classifica. Gioca un bel tennis il mansueto Mischa. Mancino attaccante e agonisticamente pacioso fino a rischiare l’inoffensività. Ma è riuscito a risollevarsi. Qualificazioni e via. Finale a Metz, ottavi a Shanghai battendo Davydenko. Qualcuno assai malvagio ed antitaliano per partito preso potrebbe anche citare Bolelli, per far capire cosa c’è al di sotto dell’agonismo da tortuga imbalsamata dell’ottimo Mischa. Uno malvagio, non certo io.
Rafael Nadal: 5. Il Nadal dal volto umano. Perde una partita incredibile contro un Melzer in vena di magie folli ed un tennis scientemente giocato ad occhi chiusi. Poco da rimproverarsi, colpito a quel modo diviene vulnerabile anche l’apparentemente invulnerabile. Ridotto a inerme leprotto spelacchiato con addosso una muta catarifrangente. Si parlerà di stanchezza (plausibile), condizione fisica non al top (inevitabile, quando si discute del tennista fisico per eccellenza), di assurda programmazione con tre tornei giocati in fila e l’inutile Atp 250 di Bangkok (ci sta tutto). La realtà è che un miscuglio di circostanze, l’ispirazione omicida dell’altro e le gambe un po’ più pesanti del solito, possono rendere battibile anche quello che sembra imbattibile. E l’umanizzazione dell’inumano, non è neanche un male.
Richard Gasquet: 5,5. Ormai si rasenta la morbosa necrofilia, volendo indagare sul pavido transalpino morto. Batte in sicurezza Gulbis (4. Una garanzia per chi vuol apparire vivo, affrontare il lettone), e si prende la rivincita sull’orridissimo Monfils (2 al casco di platani in testa). Poi raccoglie due games, come due noccioline marce, da Djokovic. Era dolente alla caviglia. Una settimana fa lo minava una fastidiosa influenza. Mesi addietro erano i lombi a torturarlo. Ma il vero organo irreversibilmente compromesso è il cervello. Non ce lo avesse, forse vincerebbe qualche partita in più. E quell’ansia che gli fa ballare un cha-cha-cha neurocerebrale sbilenco. Me lo ha detto Morelli.
Fernando Verdasco: 4. L’iberico non ne azzecca più mezza da mesi, neanche per caso. Dalle tragiche esibizioni contro Fognini, a scelte di programmazione da ex gieffino in giro per le discoteche, alla imperitura fama di “sciupaserbiatte” e malsano attaccamento verso le numero uno del tennis femminile. Perché Nando tra migliaia di pulzellette frementi si accanisce con le tenniste di vertice? Desiderio recondito e nascosto di rifuggire al suo sport. Di mascherare debolezze da impavido e scenico lottatore che picchia a mano nuda ed aperta. O più semplicemente, ha solo finito la benzina dopo mesi giocati a ritmo folle. Ma ne verrà fuori, forse.
Italtennis: Settimana esaltante come una canzone di Marco Carta. Ed è l’ultima di un cd martirizzante. Andreas Seppi: 6. Si guadagna la passerella contro Federer negli ottavi. Ovviamente perde, ma grazie ad un elvetico in vena di sollazzare la platea, fa anche una discreta figura. Seppi è magico nell’appoggiarsi ai colpi dell’avversario. Un tremebondo specchietto retrovisore che si attacca agli ammennicoli. Contro un Federer può risultare persino accettabile. Opposto a un Robredo appare l’orrida ombra di un incubo notturno. Ma l’eroica impresa da sottolineare per il nostro alfire sono i due turni superati in un Masters 1000. Causa programma intasato, nella stessa giornata. Oltre ogni immaginazione. L’adorato montanaro dall’esagitato agonismo di una sottiletta “fila e fondi” è abituato alle sorprese. Stende Cilic (per carità, il croato ultimamente perderebbe anche dalla mia settantanovenne sarta di fiducia Rosetta). Poche ore dopo fa fuori in scioltezza il cinese Lu, casuale protagonsta a Wimbledon. Bene così. Pronto a riprendersi il prestigioso titolo di numero uno italiano (o 8/9 di Francia se avesse la ventura d’esser francese). Fabio Fognini: 5. Incomprensibile la scelta di gettarsi nei challenger sudamericani. Tecnicamente paradossale se si pensa al futuro ritorno sul veloce indoor. Increscioso il modo in cui perde da mezze tacche col volto incarognito da operai fresatori. Lui, con quell’espressione di chi è stato unto dal Dio del tennis in giornata di ubriachezza.Tutto logico, secondo l’illogicità latente della sua essenza più intima. Potito Starace: s.v. Meritato riposo per il nostro numero uno (chiamatela ironia involontaria). Giocherà a Mosca. Magari danno una wild card a Volkov o al quarantaseienne Chesnokov ebbro di vodka, e un turno lo può passare. Simone Bolelli: s.v. Fermo ai box. Medita, il nostro talentino tormentoso. Il ragazzo è profondo, e molto fragile. Fa una gran tenerezza. Ma ha pur sempre Ximena (Oh, Ximena!). Annuncia il divorzio da coach Piatti, troppo impegnato col top 15 Ljubicic. Narra di aver bisogno di qualcuno che lo segua dedicandosi costantemente a lui, un motivatore. Ma il tanto vituperato ed antipatico (ai soliti buongustai) Pistolesi, non era il tecnico su misura? Tipico di chi i problemi deve risolverli prima lui, nella sua testa. Il resto è un contorno. Ora anela un coach balia, magari uno psicologo o una badante. Stiamo a vedere. Intanto, solo, triste, confuso e lasciato al suo destino assieme all’omino del cervello, fa la migliore scelta da quattordici mesi a questa parte: Giocare il challenger di Orleans. Sul veloce, finalmente.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.