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sabato 18 dicembre 2010

OSCAR DEL TENNIS 2010 - Flop e tristi cadute in disgrazia


Nikolay Davydenko. Lo scorso anno di questi tempi ci si stupiva per quel rachitico mucchietto d’ossicine raccolte alla rinfusa, capace di un finale stagione prodigiosa. Si celebrava il trionfo fatuo del proletariato tennistico. Successi in oriente e nella Masters cup di Londra. Tutti i più forti finiti sotto i suoi colpi anticipati, frutto di un virtuoso ed inspiegabile meccanicismo. Agghindato come un manichino della “Standa” reparto maglieria intima, l’operaio Stakanov con la sua fiera pelata d’ordinanza ha iniziato alla grande anche il 2010 vincendo a Doha, regolando in finale nientemeno che con Nadal. Uno stato di forma proseguito fino ai quarti di Melbourne.
Esaurita quella verve proveniente da catacombe inspiegabili, il nostro soldatino russo è caduto nel baratro. Una serie infinita di comparsate senza senso e sconfitte a grappoli. Espressione intima della vacuità nel mondo del tennis. Nikolay è tornato “Nosferatu” nella miglior interpretazione dell’ottuagenario Klaus Kinski. Annessa l’espressione spaventosa, gentile ed inoffensiva. Fedele al suo personaggio, ha pagato una caparbietà stretta parente dell’ottusità. Carattere di ferro e colpi da play station, l’inossidabile operaio non si è smentito, ignorando i medici che ne avevano consigliato il riposo per curare l’infortunio al braccio. Lui, indefesso e tignoso come un mulo pelato, ha proseguito per la sua strada, lacerandosi ancora di più. Uno straziante ghignetto di dolore via l’altro. Tra senili malanni e sconfitte, è crollato al numero 22 della classifica. Ed alla soglia dei trent’anni suona come triste canto di un cigno spelacchiato. Il russo povero di origine ucraina che dormiva nella macchina del cugino per partecipare ai tornei, è diventato miliardario col tennis. Ha avuto una carriera eccelsa per quelli che erano i suoi mezzi fisici. Senza essere un abbiente “principe” come Kafelnikov, avere la faccia da pubblicità e l’istrioneria folle di Marat, men che meno i colpi divertenti di Youzhny. L’omino d’acciaio conclude una stagione orribile, pronto a tentare altri difficili guizzi. Di sicuro ci proverà.
Fernando Verdasco. Qualcuno potrebbe protestare per questa inclusione nei “flop”. Inutilmente. Lo spagnolo piace, mi diverte il modo spavaldo di schiaffeggiare la pallina negli angoli. Uno di quei personaggi che fanno bene al circuito ed allo spettacolo del tennis fine a se stesso. E’ adorabile la sua autoconvinzione d’esser grande combattente. Quel 6-4 al quinto con Nadal di due anni fa in terra australe lo ha battezzato perdente naturale, con carnascialesca maschera da guerrigliero impavido. Poi grida pure “vamos!”, che diamine. Il confine tra un perdente ed un agonista scenico è sempre labilissimo.
La sua è stata un’annata da dividere accuratamente. Belle partite, sconfitte come chicchi di grandine ed imperiture soddisfazioni nella seconda attività da sciupatore di “serbiette” tennistiche. Primi mesi in grande spolvero, costellati da prestazioni violente ed abbaglianti. Finale a Montecarlo, dove raccoglie un game contro Nadal. Poi semifinale a Roma e vittoria a Barcellona. I restanti giocati in condizioni fisiche pietose, come gestito da negrieri pazzi. Una programmazione da tennista mediocre o presenzialista “harlem globe trotter” con sanguinolente piaghe da schiavo ai piedi. Insuccessi vagamente mitigati dalla liason con Carline Wozniacki. Quello di impelagarsi con tenniste bambolone, deve essere una specie di morbo che affligge il “machetto” madrileno. Sul campo seguita a contorcersi riottosamente, sparare sberle mancine col braccio veloce e fumigante ed esalare altri “vamos!” densi di agonistica accademia. Tra una sconfitta e l’altra. Lo scorso anno finì per giocare tre bellissimi e combattuti match nella Masters Cup di Londra. Ovviamente persi. Quest’anno, senza più l’antologico ciuffo da Little Tony d’annata, le epiche battaglie le ha perse da Fognini e Gasquet. E’ lì la piccola differenza. Eccolo, il divertentissimo agonista a buffo che si agita tutto. “Anvedi come perde Nando, è proprio la fine der monno!”. Riesce persino a far sembrare un feroce arrembante lottatore Gasquet, francese sull’orlo del ricovero coatto in una casa di cura per esaurimento nervoso. Prima di perderci all’ultima pallina nella finale di Nizza, ci scappa persino una mezza scazzottata. Con Gasquet. Mi pare d’aver detto tutto.
Marin Cilic. Vittorie a Chennai e Zagabria, semifinale a Melbourne, sconfitto da Murray. Inizia il 2010 come aveva terminato la precedente stagione. Nuovo top ten dagli incoraggianti orizzonti e grandi speranze, in un circuito dove latitano nuovi personaggi capaci di infastidire i più forti. Devastante servizio e dritto sonante ad accrescere le attese per il ventunenne pastorello di Medjugorje. Forse troppe. Pensa addirittura di farsi seguire da Goran Ivanisevic, icona squilibrata del tennis croato. Un chierichetto allenato da Belzebù in persona. Lui così mite, con l’ammorbante sguardo triste incastonato in occhi da gibbone impaurito sormontati da sopracciglia folte ed unite. S’è letteralmente perso, raccogliendo sconfitte dense di molle rassegnazione. Persino Feliciano Lopez a Roma o Misha Youzhny a Monaco suonano l’ukulele sul suo cadavere.
L’istantanea più crudele di una stagione che ne segna la confusionaria involuzione, sì è avuta a New York. In un completo granata, mezzo Ciccio Graziani versione centrattacco del Toro e mezzo gobbo di Notre Dame, si lascia affettare dalle candide stilettate anticipate del “pokemon” nipponico Nishikori. Cede mestamente alla distanza, ad un avversario che è reduce da un anno passato alla mutua. Continuando sui ritmi ultimi, rischia un crollo nei primi mesi della prossima stagione. E’ lì che si deciderà molto del suo futuro prossimo. Dalla sua c’è ancora l’età e colpi di grande naturalezza pesante. Un suo ritorno nella top ten dipenderà dalla zavorra di quel carattere estremamente docile ed agonisticamente terrorizzato.
Gli altri desaparecidos. Ci sono anche altri nomi da inserire nel calderone delle tristi dipartite sportive, o momentanee cadute. In primis Carlos Moya. L’ex numero uno spagnolo, dopo un lungo stop per problemi all’anca, ha provato a rientrare. Tristissime sconfitte e tentativo ricco di gratuito patetismo. Decide di dire basta, conscio di non poter più essere competitivo e dopo una carriera ricca di soddisfazione. Certo, buon senso avrebbe sconsigliato le ultime apparizioni ed i due games raccattati da un Benjamin Becker qualsiasi, nell’ultima uscita. Lo scorso anno il circuito perdeva Santoro e Safin, quest’anno Moya. Usando un esercizio di eufemismo carpiato, si era più tristi lo scorso anno.
Chi ha già smesso, ma vuole evitare di dare il triste annunzio è James Blake. Il trentunenne americano dalle chiappe prominenti non riesce più ad essere competitivo. Problemi fisici e di materiali, rendono l’ultimo atto della sua carriera una straziante via crucis. Sprofondato fuori dai cento, ed incapace di riproporre nemmeno alla lontana le pirouettanti e gradevoli evoluzioni di qualche anno fa. Un po’ spiace. Altra crisi senza via d’uscita sembra quella di Juan Martin Del Potro. Ingeneroso comprenderlo nei “flop”, visto il cruento e misterioso infortunio che ne ha mandato in frantumi il polso. Stagione nata e conclusa a Melbourne, tra lacrime di dolore. Sulla possibilità del pistolero di Tandil di tornare a grandi livelli dopo l’entusiasmante cavalcata di Flushing Meadows 2009, è fitto mistero. “Le mie possibilità di tornare ai vertici sono pari a quelle che Federer tra cinque anni sia il mio allenatore”, dichiarato con un filo d’ironia, non lascia buone speranze. Scomparso per gravi malanni al tendine d’achille anche Ivo Karlovic. Il fromboliere croato è personaggio folkloristico, risulta a suo modo divertente osservarlo deambulare verso la rete con due passi da mammuth. Forse tornerà a sparare ace dall’alto della sua gru, ma il timore che abbia lasciato le ultime energie nel biblico ed interminabile match di Davis contro Radek Stepanek, è forte. Il ceco col volto dipinto da un pittore pazzo è l’altro personaggio calante della stagione. Un po’ per gli acciacchi ed il logorio fisico. Altri non me ne vengono in mente. Oddio, ci sarebbe Andreev. Ma scrivere di Andreev sarebbe troppo. Poi lui ha sempre Maria Kirilenko, mica poco.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.