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lunedì 5 dicembre 2011

DI TENNIS, LEGGENDE ED ALTRE CAZZATE


(Non aspettatevi ch’io possa cadere nel mortale errore, narrandovi le sinistre vicende della finale di Davis. Basta, avanza e ripugna, una scarna notizia Ansa capitatami a tiro di fosche pupille: “Controllo antidoping a sorpresa nell’albergo della nazionale argentina, avversaria della Spagna nella finale di Coppa Davis. Nalbandian e compagni sono stati sorpresi nel sonno, alle 6,00 di mattina.”. Vi basta? Sarebbe sufficiente per ritenere più credibile del tennis attuale una comica di Benny Hill? E’ ridicolo, imbarazzante. Per intenderci, è come la Pdl che fa finta di voler combattere l’evasione fiscale, quando è retta, sorretta e fondata sulla persona del più grande evasore fiscale mondiale degli ultimi centocinquant’anni).
Di fronte a simili sconcezze, si respirano boccate di salutare salvezza guardando dell’altro. Il vero, tennis. Alla Royal Albert All, va in scena l’ultimo atto stagionale del Champions Tour. Una sorta di Master anche per i veterani. La cornice è magnifica, smerigliante, lucente di maestosa bellezza. Come un’opera sinfonica si succedono sul velocissimo carpet predisposto, alcune leggende della racchetta. Qualche gorgheggio antico, virtuosismo non ancora sopito, per chi è in crisi d’astinenza dal tennis. O mal digerisce le degenerazioni della modernità. I controlli antidoping ad pavida minchiam, tanto per.
Un breve assaggio
Johnny Mac ha lo sguardo pizzuto e paraculamente spavaldo delle migliori occasioni. Non ha alterative il vecchio cane americano, dopo la sconfitta all’esordio: vincere gli altri due match del girone, per sperare nella finale. Ed allora eccolo di verde bardato in prima serata, accolto dall’ovazione contenuta del pubblico over 50 o under 11, affrontare senza paura Richard Krajicek. Parte al servizio, ma non si vuole credere ai nostri occhi moderatamente sbronzi: imbraccia uno strumento nuovo, fiammeggiante. Dopo il capitombolo all’esordio ha evidentemente deciso di abbandonare la leggendaria Maxply. Fatico a capire di cosa si tratti, pare una versione moderna e lussuriosa dell’altro cimelio bellico, la Max 200. O chissà quale diavoleria punica sverniciata a nuovo (che se qualche beneffatore vuole regalarmela per Natale, mi scriva alla mail, vi fornirò lo indirizzo). Allo sguardo l’effetto di quel nero venato di verde, è abbagliante. Poco conta, se non funziona il braccio. Sono sempre stato di quest’idea quando mi proponevano esistenziali dilemmi su racchette da scegliere. Basta che il braccio funzioni, le sue nervature assecondino un budello qualsiasi, il sangue caldo temperi un gelido telaio a caso.
Bene allora, Mac pare deciso. Affronta di petto il lungo e più giovane avversario. “Baby face” dall’alto dei suoi due metri tira bordate di servizio impressionanti, che schizzano via sul velocissimo tappeto old style. Non è mica l’ultimo arrivato Richard, che una quindicina di anni fa alzò la coppa di Wimbledon, malgrado al suo angolo vi fosse la (già quarantenne allora) arpia divora toy-boy Lory Del Santo. Con quella faccia imberbe che a 27 anni ne dimostrava 15, ora a 40 suonati sembra averne 27 al limite, riesce a giocare ancora un temibile serve&volley.
Johnny non si spaventa dei dodici anni di differenza, ma figuriamoci. S’avventa con luciferini riflessi su quelle palline che viaggiano a velocità siderali, e via. La “verdona” fa pienamente il suo dovere. Il di più lo regala quel braccio che forma un sinuoso tutt’uno con lo strumento. Risposta di dritto nei piedi e passante di rovescio lungolinea al bacio, risposta di dritto vincente su prima a 232 km/h dell’orange, ed altro passante di rovescio incrociato in corsa. Vola il vecchio americano, nell’esaltante break portato a casa. Talmente esaltante che al successivo e marchiano errore su agevolissimo smash affossato in rete, si autoflagella: trenta (sì, 30) piegamenti sulle braccia, tra gli incitamenti del pubblico che, alla decima, diventano brusio divertito, alla ventesima “ohhhhh” di ammirazione, alla venticinquesima “uhhhhh” di apprensione per la sua incolumità fisica. Ingenuo, quasi rimpiango quei 10 euri puntati su di lui, dopo simile sceneggiata sul delicatissimo 0-15. Via, ace, due servizi vincenti e rabbiosa volèe di dritto. Il genio è lì, e primo set portato a casa, 6-3. E la musica non cambia nemmeno nel secondo. Richard si appoggia al servizio, salvando una miriade di palle break. L'americano nato a Wiesbaden ci regala qualche antologica espressione imbronciata e mani nei radi capelli d’argento, dopo le tante occasioni sprecate. Ma al servizio è ancora straordinario. Via con parabole mancine e fendenti centrali, persino un anacronistico rovescio a due mani in mezzavolata. Doppia cifra negli ace, nessuna palla break concessa. Bolelli, su questa superficie glielo strapperebbe mai il servizio? No, assolutamente. Per un paio d’ore, almeno. Tutto magnifico, fino al break decisivo sul 5-5, e degna chiusura in scioltezza. 6-3 7-5, grande sorpresa, ma anche no. Contro il genio non devi mai puntare, al limite metterci sopra, fiducioso, qualche euro o dollaro, a 2,62.
(Avanti così, mentre a Siviglia va in scena il secondo atto della pantomima. Del Potro ha gettato via la coppa perdendo in cinque set dal ripugnante zappatore. A nulla serve la facile vittoria del doppio argentino, contro Verdasco e Feliciano. Voglio dire, uno può mica guardare l’inutilmente tarantolato e patetico cabezon spagnolo coprirsi di ridicolo? Una buona la dice il commentatore: “Verdasco punto debole di una coppia debolissima.”).
Ed allora mi dirigo laddove si gioca il vero tennis. Johnny Mac dopo l’entusiasmante trionfo su Krajicek è tornato a vedere spiragli di finale. Di fronte a lui il pingue e fantascientifico talento di Henri Leconte. Un braccio che cammina e volteggia nell’aere come un boccolo dispettoso. Impressionante come a 52 anni l’uno e 48 e 110kg l’altro, diano spettacolo con immaginifiche rasoiate in controbalzo. I due bracci più talentuosi degli anni 70/80/90. Henri calza una coppola bianca d’antologia, come svitato pittore sovrappeso. E’ scuro in volto, nessuna concessione al teatraleggiante spettacolo di altre volte. Conferma che questo è quasi torneo vero, su cui i bookmekers danno anche delle quote. “Prendi il genio, ragazzo, che non sbagli mai”, mi dico. “Riton” tiene dignitosamente, movenze da cucciolo d’elefante e braccio di una velocità imbarazzante. Tira un paio di passanti che non fai nemmeno in tempo a vedere da dove e come possano partire, ma “the genious” è ispirato, costante, invulnerabile al servizio. Non lo perde mai, nemmeno ci va vicino. Pensate che su questo carpet, in un set secco, non possa giocarsela con Volandri? Vincerebbe 6-2, lo firmo.
John chiude il primo, e parte spedito nel secondo. Ha anche il tempo per regalarci un siparietto degno di nota. Ace del francese chiamato fuori dal giudice di linea. Quello di sedia, un giovinetto spaesato, fa over rule: Servizio buono ed ace, dunque. Supermac strabuzza il   leggendario “occhio della madre”, non ci crede. Ma adesso esiste “occhio di falco”, lo strumento tecnologico che avrebbe dovuto ammazzare nella culla i protestatori professionali come Mac. Falso, falsissimo. Un genio non lo ammazza nemmeno la tecnologia. Quello chiama il falco,  che gli dà ragione. Palla fuori di un centimetro e mezzo. Ed ecco la fantastica scenata d’altri tempi: “Ecco, ragazzo, come mi fregavano trent’anni fa. Hai idea di quanti match avrò perso per queste cose?”, strilla al giudice. Grasse risate, prima che chiuda i conti, 6-3 6-1 in poco più di un’ora di show-tennis. Loda quell’impianto ed un tappeto velocissimo: “Sono le condizioni ideali per il mio tennis”, chiosa con sicumera, provocando gli applausi di un manipolo di malati di mente con parrucche e fascette rosse stile “Mac 80”, che trincano birre a go-go.
(Dall’altra parte, nella corrida di Siviglia, su indegne sabbie mobili, gli argentini ci sperano ancora. Credono nel miracolo di Del Potro contro la grande pantegana terricola. Su quel guano travestito da terra rossa).
A Londra invece, la Royal Albert All apre le porte alla finale. Ad ora di pranzo, nella domenica di nostro signore. Percorrono il lungo corridoio che conduce al palcoscenico, John McEnroe e Pat Cash. Avversari di lungo corso, che ventisette anni prima si sfidavano sul centrale di Wimbledon. L’ultimo, recentissimo, precedente, dice Cash. Il volleante canguro travestito da pirata lo ricorda, volutamente sottovoce, all’intervistatore. Mac ha invece la faccia abbottata, sfatta ancora dal sonno. Crudele metterlo a giocare a mezzodì, dopo che ha suonato tutta sera musiche deliranti degli Iron Maiden. L’anchorman gli ricorda, tra singolo e doppio, i 16 titoli slam, 148 tornei vinti. Lui provoca grasse risate degli astanti  affermando che questa è la finale più importante della sua carriera. Poi invoca il sostegno delle (parole testuali) 75enni fans.
Il match non ha storia. Mac salva due palle break all’inizio, poi si sveglia dal sonno mattutino ed è un delirio di servizi e volèe, zampate, graffi e carezze a rete, passanti certosini. Cash è troppo lento nel prendere la rete, per le rasoiate in passante del genio ispirato. La smagliante “verdona” partorisce l’ennesima parabola di servizio ad uscire vincente, ed è 6-2. Terzo match senza perdere il servizio, è anche questo un dato di fatto. Ha tutto il tempo, John, di chiamare un altro “occhio di falco” vincente su over rule del giudice di sedia. Ancora. Stavolta sembra serio nella sfuriata, richiama pure l’attenzione di un pacioso supervisor, dietro la rete. E’ manna dal cielo per la sua ultratrentennale e paranoica convinzione d’esser stato vessato da arbitri e giudici incapaci. Nel secondo set l’australiano regge meglio, tiene dignitosamente, ma John è troppo concentrato per perdere l’occasione di chiudere: 6-2 6-4. Nuovo titolo nel Masters, sette anni dopo. “McNificent”, come troneggia su quella felpa che “the genious” indossa nel post partita.
(Ah, quasi me ne dimenticavo. Nella corrida di Siviglia, Del Potro ci prova anche. Commovente persino, nel tentativo di rientrare nel match. Inutile. Sulle sabbie mobili, la terribile anaconda iberica, pur non nella migliore versione, si batte solo sparandogli al cuore -“al cuore, Ramon!”. Vince la Spagna, nel tripudio casalingo. Amen.).


2 commenti:

  1. caro Picasso, quando l'immaginifico Gianni Clerici definì questo sport un'arte minore, aveva negli occhi le mirabilie di John Patrick McEnroe. Un giorno lo vidi giocare contro Riton Leconte a Duesseldorf, da allora tutto il resto è noia(cit). Giovanni

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  2. Incrociato probabilmente un paio d'anni prima, ma l'effetto fu lo stesso. Diciamo che guardando un match di John McEnroe si aveva la netta impressione di vedere altro, rispetto al tennis. O forse, oltre. Anche adesso che ha gli anni di Noè, è sempre un piacere, e qualche lasciva zampata la regala sempre.
    Ciao Giovanni, a presto.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.