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martedì 10 aprile 2012

I NUOVI MOSTRI



Nelle intense e spirituali giornate di capretti da latte sgozzati sugli altari del redentore, ecco un gustoso preludio alla terricola stagione rossa. Occasione, i quarti di finale di Davis Cup. Tutti e quattro giocati su terreni argillosi.
Che non esistano più le mezze stagioni  e che invece nel tennis sia stata ormai creata una specie di superficie buona per ogni tennista (cemento lento, terra veloce, erba pasturata con segatura ed un filo di sabbie mobili) è cosa nota. Rimane comunque una piccola, sempre più assottigliata, ma talvolta significativa, differenza. Su quella deve avere fatto affidamento il capitano francese Guy Forget, furbo come una faina fasciata in sadomaso vestitino di latex, nello scegliere la terra battuta. L’illuminato sacrificio pasquale: Prova a spuntare John Isner ed il resto della truppa Yankee, zavorrando scientemente anche il proprio numero uno Jo Tsonga, che su quella superficie raramente è andato oltre le eroiche gesta da goffo balenottero aspirante al suicidio. E così è stato. Jo illude, battendo in quasi svogliato sourplace la riserva dell’ultimo momento Harrison. Poi entra in scena il protagonista del week end: Quel John Isner che nei progetti del capitano transalpino doveva essere limitato dalla superficie, considerando puro caso il quasi successo con Nadal a Parigi e la recente eliminazione di Federer e company, in Davis. 
Il gigante americano invece dimostra che nei suoi recenti risultati, di fortuito ed occasionale c’è ben poco. Da fenomeno da baraccone, è diventato qualcosa di differente, librandosi in goffo e graziato volo. Randella e sradica credenze arcaiche di questo sport, come un gigantesco fenicottero che balla una mazurca alla moviola. E’ terrificante, con quella testa piccola incassata in un fisico da armadio. Quanto sarà? 2,20? 2,10? Le granate di servizio fanno la differenza anche sul rosso. Così come quei dritti che bucano ogni cosa, l’argilla come il cemento. Fa poca differenza. Isner devasta in attacco, tiene dignitosamente lo scambio, si sposta meglio e difende con decoro. Il resto lo fa la maggior lentezza del mattone tritato, dandogli più tempo per le elefantiache evoluzioni. Ridicolizza Gilles Simon in tre set, reso impotente pupazzetto delle giostre, crivellato da un forcing continuo: servizi, dritti, balzoni in avanti ad agguantare la pallina al volo. Si vede anche qualche seconda di servizio che “camomillo” Simon deve provare ad arpionare in elevazione, provocando grasse risate. E medesimo trattamento è riservato a Tsonga. Ovvio, Jo oppone maggior tennis, nel naturale tentativo di sfondare in attacco. Ma alla fine, è lui a soccombere, sprofondando pesantemente. Completano il successo stelle&strisce gli intramontabili Bryan’s, per la gioia di capitan Jim Courier, sempre più ridicolo modello della Forrester creations, con tanto di sobrio occhiale da sole.
Suicidio transalpino su tutta la linea, che quella ormai piccola differenza esistente tra le varie superfici, l’ha usata per fare harakiri. Chi la sfrutta al meglio, è la Repubblica Ceca che decide di affrontare la Serbia orfana dell’ultranazionalista Djokovic, su terra battuta. Il match è bello, con contrasti tennistici ed abbinamenti stuzzicanti. Nole, lo sappiamo, ha lasciato i destini della Serbia nelle callose mani dei suoi paggetti. Ci prova Janko Tipsarevic, uscito vincitore da una terrificante e bellissima battaglia di quasi sei ore con Radek Stepanek. Due ceffi da foto segnaletica in almeno sei stati, ma che tennis signori. La sciabola e il fioretto, le esplosive evoluzioni del barbuto filosofo “canaresco” di Serbia, opposte al magico tocco dell’anziano scarafaggio ceco. Prevale il più giovane serbo 9-7 al quinto, dopo aver annullato tre match point. I due alla fine non si stringono la mano, diti medi che si sprecano, insulti e minacce. Per poco non c’è la rissa. Poco male, se in campo fanno quelle cose, fuori potranno anche menarsi come fabbri armeni avvinazzati, chi se ne impippa. Berdych poi, sempre dritto per dritto, riaggiusta le cose vincendo i suoi due punti. Se sta bene, fa poca differenza tra i moderni cemento, erba, terra, plexiglass o ceraponga. Il punto decisivo lo porta a casa il doppio (Berdych/Stepanek) contro La Russa Zimonjic e Bozolijac. Incredibile come Stepanek, che l’età del Nazareno in croce l’ha superata, dopo la maratona del giorno prima venga schierato anche in doppio. E lo giochi in modo divino. In Italia gli avrebbero dato un vitalizio e rimesso in campo dopo due mesi. 
In definitiva, le azzecca tutte il capitano ceco. Sbaglia l’impossibile quello francese. Eppure le loro scelte avevano la medesima ratio: Una superficie che sebbene penalizzi un po’ i propri atleti, affossi maggiormente gli altri. Solo che Berdych non è Tsonga, su terra. Tipsarevic non fa l’Isner e i serbi non avevano i Bryan’s. Fortuna, competenza o casualità. Chi può dirlo. L’importante è non decidere mai di affrontare Nadal su terra battuta. Mai. Qualcuno lo fece, ma non mi sovviene il nome.A proposito di Spagna, pur orfana del malfermo Rafito Nadal, stende agevolmente l’Austria di Melzer. E con uno Jurgen versione cacciatore di  totani volanti, sarebbero bastate anche le quinte linee (Gimeno Traver, Pere Riba, Cervantes, etc…). Soffre un po’ l’Argentina, prima che il poderoso Del Potro schianti le speranze della Croazia.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.