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lunedì 27 giugno 2016

WIMBLEDON BREXIT. FEDERER È FINITO, QUINDI PUÒ VINCERE I CHAMPIONSHIPS








Venti democraticamente nazifascisti soffiano sulla Gran Bretagna e grossi punti interrogativi sull'edizione Brexit dei championships: potrebbe vincere chiunque e poi il titolo sarà assegnato al primo britannico. Probabilmente Murray. Anzi no, appartenendo il povero Andy alla villica popolazione scozzese che ha votato per restare in Europa, niet. Via libera dunque alla fiaba del panzerotto Marcus Willis, numero 700 al mondo e vincitore davanti alla centoseienne Regina Madre vestita come un pisello bonduelle. Fa chiarezza la neo sindaca di Roma Virgy Raggi, sempre più politica di razza e convinta d'essere sindaco del mondo: "Un attimo, vince chi solleva la coppa. L'acqua ogni tanto bagna! In qualità di sindica di Londra prometto legalità contro chi arrubbeno, che uno vale uno stando alle disposizioni del direttorio della legalità contro i zozzoni ladri se no lo espulgiamo subbito che ci tagliamo i stipendi noi. Non siamo euroscettichi ma ci vuole un referendum contro l'euro perché affama laggente su facebook. Viva Farange. A riveder le stelle." (Ambulanza).


Ma bene, veniamo ora alla parabola di Federer ai discepoli. La breve stagione tennistica sul verde ha lasciato scampoli di anacronistica bellezza fine a sé stessa, con fatue vittorie di allegri zuzzurelloni tedeschi europeisti (il Kohli che giocasse sempre in Germania sarebbe il vero Goat e il redivivo Florian Piero Angela Mayer). Ma, più di tutto, ci ha detto di un Roger Federer annaspante. Finito, leggo. Per la terza o quarta volta nell'ultimo decennio. Ora ha 35 anni e sarebbe anche naturale, ma niente nel Divino Elvetico è mai stato naturale, lui emblema della naturalezza e degli ossimori irrazionali (lui che è tanto razionale). Federer è finito la prima volta nel 2009, a 28 anni, in lacrime a Melbourne (lui che è tanto gelido e impermeabile). Troppo vecchio, si diceva. In realtà, il più forte di sempre aveva trovato sulla sua strada Rafa Nadal all'apice della sua furia innaturale, mostrandosi impotente (lui, l'onnipotente). Il Divino seppe rialzare le nobili carni e vincere un altro slam, per poi essere ridichiarato finito qualche tempo dopo, a seguito di furenti battaglie perse contro Djokovic al meglio dei cinque set. Troppo logoro per competere con questi giovani al massimo dell'esplosività fisica, si disse. Il Divino però non si abbattè, ma con proverbiale meticolosità e cocciutaggine elvetica è rimasto lì, collezionando folgoranti vittorie parziali e dolorose sconfitte contro i due erculei devastatori (lui, numero uno di sempre). Emblema della fallibilità di Dio. Fino alla terza dichiarazione di morte accompagnata da accorate invocazioni di abbattimento: va bene tutto, ma maltrattato dal torpe Robredo a New York o dal mollusco Del Bonis, proprio no. Anche questa volta, il celeste ha proseguito per la sua strada, cambiato destriero, inventato diavolerie tecniche e pubblicitarie, tra serve and volley, tattiche arrembanti e inutili Sabr. Nuovamente tra i primi tre, gaudiose vittorie di tappa e sconfitte negli slam, restando il numero uno di sempre nell'immaginario collettivo.
Storia di pochi giorni fa, a Stoccarda e Halle, su prati un tempo terreno di facili vittorie in surplace, è sconfitto in battaglia non da Djokovic o Murray, ma da giovani in rampa di lancio quali Thiem e Zverev. Ce n'è abbastanza da dichiararlo morto per la quarta (o quinta) volta e ritenerlo quindi seriamente candidato alla vittoria di Wimbledon, con la nuova barba incolta. Perché quella di Federer è una parabola infinita di contraddizioni tale, che sarebbe una logica conseguenza.
Lo svizzero è per tutti il simbolo di questo sport, giusta prosecuzione della parola tennis, come il braccio che si fonde e innerva con la racchetta nelle volée di Supermac. Molti dei suoi tifosi, per sottolinearne l'immensità, si accapigliano parlando di vittorie, titoli, record, ma la sua grandezza è stata ed è rimanere il "numero uno" vincendo la miseria di uno slam in sette anni, in un mare di sconfitte. Con buona pace dei goat, è qualcosa che va oltre. Piacere carnale, masturbazione estetica, più che masturbazione da titoli. Quando provai a scriverlo nel 2010 fui persino attaccato e tacciato di blasfemia, da condurre nelle segrete del vaticano assieme a Nuzzi.
Quest'anno, dopo il misterioso infortunio, ha saltato la stagione sul rosso (tranne breve apparizione e urbi et orbi romano). Non mi sorprendono dunque i balbettii pre Wimbledon, tenendo conto di un'altra contraddizione: il Divino è l'immagine stessa della naturalezza tecnica, pare nato per colpire palline come una farfalla per svolazzare in un praticello fiorito, ma è anche un computer implacabile. Capace di amministrarsi e centellinare le sue forze come nessuno. Non escludo quindi che si stia gestendo da par suo per arrivare al top nel torneo londinese e, soprattutto, alle olimpiadi.
Vincerà? E che ne so, non sono mica il mago di Arcella. E Djokovic e Murray non sono due sciaquapallette (cit. er ricotta). Lo scozzese si è nuovamente affidato alle sapienti mani di Lendl, che sa bene cosa occorra per vincere Wimbledon e già lo ha guidato alla vittoria. Ma come, dirà qualche sprovveduto, proprio lui che mai lo vinse da giocatore e che quasi cadeva preda di un esaurimento nervoso per colpa dell'erba maledetta? Certo, chi ha provato maniacalmente tutte le vie per vincerlo senza riuscirci ha più cose da insegnare rispetto a chi lo ha vinto "solo" perché baciato dal talento, come McEnroe. Buffo vedere Supermac al fianco di Raonic, per fargli vincere Wimbledon. È come se Robert Plant volesse insegnare l'acuto di "Whole lotta love" a Fedez. Mac non può insegnare a Raonic come fare una demivolée stoppata, Raonic non può ovviamente impararlo. Il canadese è però il quarto favorito del torneo, in virtù di un tennis potenzialmente devastante su erba. Lui e l'ignoranza beutale di Kyrgios alla ricerca del crack (libera interpretazione).



Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.