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martedì 15 gennaio 2013

AUSTRALIAN OPEN 2013 – SPLENDONO LE PRIMAVERE DI KIMIKO




Day 2 – Dal vostro inviato che, sconcertato, apprende dell’ammissione di Armstrong: facevo uso di doping. E che rivolge un dolce pensiero a Pantani 

E’ notte fonda ormai, mezzogiorno di fuoco nel caldo umido mortale di Melbourne, quando m’apposto in rassegnata posizione dormiente. Non ci si attende il miracolo, ma tanto vale godersi le ultime sferruzzate mitologiche di Kimiko Date. Curiosità e molto affetto per l’icona tennistica che non si arrende al trascorrere degli anni, ma continua a sfidarla misurandosi con giovani vatusse dal tennis devastante. E lo fa grazie a un tennis antico e quell’intelligenza tattica ormai divenuta arte povera. Ieri le speranze erano oggettivamente poche, per l’irriducibile e attempata eroina di 160 centimetri scarsi che veleggia sorridente verso le quarantatré primavere, opposta al deambulante donnone dell’est Nadia Petrova. Specie in quella calura arrecante asfissia e giramenti di testa anche dietro il monitor che geme pietà.
Invece, quando meno te lo aspetti ecco materializzarsi il miracolo di questa donnina senza tempo ed età. E rimango calamitato a quello schermo, mandando Morfeo a farsi un tresette con Errani. Un inizio da brividi d’incoscienza, rasoiate piatte che lasciano di stucco il basito tricheco russo che si guarda attorno sconsolato, tra le onde, con occhio sbarrato. Altro non riesce a fare, Nadia, che tirare più forte. E quando non sbarella, scentrando clamorosamente, la piccola diavolessa dagli occhi taglienti rimanda missili di velocità doppia, d’incontro, con ghignetto d’arrembaggio incorporato e deliziosi “c’mon” striduli. Un po’ samurai, un po’ cartone animato giapponese troppo enfatico per essere vero, con un pizzico di manga che t’intriga la mente.
Ha poco da chiedere ancora, non farà più semifinale a Wimbledon e non sarà ancora numero 4 al mondo, ma si diverte confrontandosi con gli anni, cui non bada e che dichiara di non contare. E c’è da crederle. Ma da Navratilova, fino a Wozniacki o Azarenka, Kimiko c’è sempre. La regina di tutte le milf tennistiche non si scompone e, tra un sorrisetto, occhi rivolti al cielo, pose da kamikaze arrembante in risposta e via un altro attacco radente che porta la semovente Petrova, in attonita confusione, a tentare improvvisate battute di caccia alle quaglie australi. 6-2 6-0. Da stropicciarsi gli occhi, e dormire contenti. Nel mezzo di un orrore che dilaga, il tennis ha ancora esempi avvincenti, begl’occhi d’agonismo genuino e storie affascinanti da poter raccontare.
Quasi mi vergogno nel riportare altre cose, col pericolo di sporcare la delizia di Kimiko col padel-tennis, ma in un parallelo clamoroso d’orari, annaspa clamorosamente Sara Errani. E non aspettatevi che spari sul suo urlante cadaverino sportivo. Storia semplice: se corre anche un minimo sotto la soglia e arrota corto, una tennista con soluzioni infinitamente maggiori delle sue come Carlita Suarez Navarro la sega in due come tavoletta di burro scaduta. Con penosi contorni di lezione tennistica. Schiavone perde contro una Kvitova al 20% causa asma. Pippo Volandri strappa un eroico set iniziale a Simon (che rollava sigarette speziate) e gli organizzatori gli regalano una fornitura annuale di “magic italian pizza”. Avanti solo Seppi (come un Unno) e Vinci, malgrado, larmante dopo la sconfitta di Sara, volesse rinunziare. Per rispetto.
Leggo eminenti scienziati della penna tennistica professionale parlare di “missione catastrofica italiana a Melbourne”. Per me è catastroficamente in linea coi valori attuali. Al solito, il peccato fu (annebbiati dal tifo patriottico) creder speciali tennisti normali.
Serena non lascia nemmeno un game alla malcapitata Gallovits, ne avrebbe concesso uno giocando con una padella per le castagne. Senza problemi Azarenka e due giovanottone da tener d’occhio: Stephens e Robson. Nel tabellone maschile avanzano: Federer che ischerza Paire (ma Benoit nel gioco delle tre palle avrebbe vinto), Murray, Del Potro, Gasquet e le due promesse rampanti Raonic e Tomic. E’ un Australian Open “per vecchi”, ma dopo le imprese di Stepanek e Kimiko, non riesce l’eroica vittoria a Tommy Haas contro Nieminen, buono per tagliare giovani tronchi di pino nella tundra finnica.




domenica 4 novembre 2012

LA MAGIA DI PARIGI, E GLI IMPROVVISATI EROI









Se non avete mai baciato una donna sotto la pioggia di Parigi (citando Woody Allen), cosa potete capire dalla vita? Niente. Io la baciai nelle fratte di Fiano Romano durante un acquazzone torrenziale, ma non è la stessa cosa.
La città dell’amore per eccellenza, romantica e suadente, non poteva certo permettere che si svolgesse un ridicolo torneo, senza big e privo di appeal. Parigi s’inventa eroi inesistenti, sbucati dal nulla, o riemersi da gorghi dimenticati. Storie simili a fiabe moderne, che quasi fanno scordare l’assenza dei grandi dominatori. Ricamatori consunti agli ultimi inebrianti fuochi, o giganti polacchi esplosi dalle retrovie, deflagranti come virulente supernova.
Basta vedere l’attempato mancino volleante Michael Llodra, che si riscopre ancora competitivo a trentadue anni. Dopo una stagione costellata da sconfitte in serie che lo fanno sprofondare negli abissi delle classifiche, e il doppio come ancora di salvezza consolatoria. Innanzi ai tifosi di casa avanza, tra un guizzo e un ricamo, sempre con quello schema fisso, obsoleto ma ancora splendido del servizio seguito a rete. Anche nell’era dei compulsivi arrotamenti di palle e giunture, con bombarde che spesso gli ritornano nei piedi o sul gozzo mentre ancora prova a schizzare in avanti. Il tennista di serve&volley oggi è come un centometrista freddato dallo sparo dello starter. Ancor più ammirevole il francese vintage a prodigarsi in quell’arte dimenticata, e consapevolmente suicida. Il suo folle disegno merlettato, m’entusiasma. Pochi cazzi. Forse al canto del cigno, Michael s’issa fino alla semifinale. E per un’ora buona lotta alla pari con l’orrido vangatore Ferrer, sempre presente. “Con ‘sta pioggia e con ‘sto vento”, lui vanga. Incurante dell’orrore generato. Storia vecchia come il cucco, il confronto tra il bene e il male. Il lirismo insito nel tennis del francese, contro le orripilanze antiestetiche del volenteroso Ferrer. Il primo è numero 121 al mondo, il secondo numero 5. La bellezza di schemi d’attacco che sfioriscono mestamente, e bruta essenza di modernità clavatoria che sboccia come fiore di cemento. Vi sorprende che abbia vinto il primo in due set? Questo è il tennis, bellezza (immaginate la faccia di Formigoni, che lo dice), non è una commedia americana col lieto fine zuccheroso.
Parigi riesce ad inventare dal nulla i suoi eroi, crea spartiti folli, dipinge situazioni inattese e al limite della follia. Ecco allora che all’implacabile muratore iberico in finale si appaia un lungagnone polacco che supera i due metri, Jerzy Janowicz. Faccia da Marat il matto versione implume degli esordi, ciondolanti movenze di gigante timido che diventano sguardi da gaggio compiaciuto al suo angolo, appena dopo un punto pazzesco. L’effetto è irresistibile, da istrione in erba. Sbuca dal nulla, o quasi. Buon prospetto da junior, poi fino ai quasi 22 anni solo challenger e qualche capatina nei tornei major con scalpo di Gulbis a Wimbledon (per quanto il lettone sia ancora metro di giudizio). Passa con disinvoltura e l’incoscienza di un tennis spavaldo, dal challenger di Stettino in cui fatica ad arginare un ronzino iberico, alla finale di un Masters 1000. Tutto in una settimana di delirante disvelamento (“annunciazione-annunciazione”, gridava Troisi). Potere di Parigi, la vie en rose, la baguette e le acque lussureggianti della Senna scosse da una brezza di notturno venticello autunnale. E illuminate da luci commoventi.
Certo è che questo lungagnone polacco ha fatto cose folli. Passa le qualificazioni, si prende beffe di Kohli e Cilic. Gioca con sfrontatezza imbarazzante contro Murray. Ed è lì che avviene la deflagrazione e le divinità prendono i suoi duecentotre centimetri per mano. Stende il vincitore degli Us Open sciorinando colpi irriverenti: prima di servizio devastante, seconde diaboliche, dritti al fulmicotone, bei rovesci radenti e lungolinea. Bombarde, lampi e smorzate malate. Se ne contano 15, o 20. Probabilmente quante su un tappeto indoor non se ne vedevano da trent’anni. Col carico di provenire da quel grattacielo. Sgomento Murray, quasi irriso e col grugno disgustato nella rete. Vince Janowicz, ed il suo torneo (forse anche la carriera) si riveste di una luce nuova. Aura abbagliante.
“Nessuno può uccidermi, sono benedetto. Sono un fottuto cattolico”, sembra dirsi il gigante. E infatti dopo Murray mica si accontenta. Sorretto da un pubblico che lo elegge beniamino, continua a menare con quel tennis bizzarro, a tratti avvincente. Un mix che diverte anche per la sua estemporaneità. Mezzo tennista da nuova generazione da cacciabombardieri pivot, e molto naif proveniente dal passato, avvezzo a ricami e foglie morte in bianco e nero. Semovente e con picchi di tentacolari recuperi inattesi. Sostenuto dagli dei, adottato dai parigini, adorato dai polacchi, sostenuto da chi in questo tennis brama una qualsiasi novità che arricchisca il piatto a tratti più noioso di un comizio di Tabacci. Tutti con lui, affamati ed in crisi d’astinenza sa personaggi nuovo. Anche al costo di prendere un abbaglio e di considerare fenomeno chi potrebbe rivelarsi solo una meteora. Una, splendida, meteora che fa fuori come birilli anche Tipsarevic (ormai i ritiri a match già perso del filosofo-tamarro non fanno più notizia) e pupazzo pallettino Simon in semifinale. Sempre tra tuoni, lampi, saette e ricami. Concedendosi anche colpi in salto (come non bastasse), anacronistici drittoni in slice tentacolare dall’alto, facce d’antologia regalate all’estasiato allenatore che non crede alle sue fosche pupille. Fa bene al movimento intero, Jerzy. Parigi riesce nel miracolo, passando sopra alla programmazione ridicola a ridosso del Master, all’assenza dei big e coi semi-big a tranci, rendendolo una splendida fiaba d’altri tempi. O forse è solo l’inizio di una buonissima carriera. Il tempo è spesso galantuomo. Su questi lidi se ne sono presi tanti d’abbagli per cascare ancora ed accodarsi allo stuolo di neo veneratori del gigante polacco. Il tennis c’è, la personalità anche. Tanto basterebbe. Occorrerà vederlo altrove, quando le divinità e l’atmosfera di una plumbea e magica Parigi d’autunno non ci saranno più.
Quasi dimenticavo il contorno: la finale ha finito per vincerla Ferrer. Splendido nel suo orrore regolare. Simbolo lampante della bruttezza resistente a tutto Ridicolizzato dai tiranni, quando ci sono. Oscurato dalle favole di giganti polacchi, anche quando gli aguzzini non ci sono. Il tragico destino di un onestissimo lavoratore. Inarginabile per tutti, succube paggio con ciuffo da rottweiler dei primi quattro.
In coda, le giovani picchiatrici folli ceche hanno il sopravvento sulla coppia retrò d’inguardabili starlette diverse serbe. Pronostico rispettato. Non riesce nemmeno a vincere il “Masterino” bulgaro Caroline Wozniacki, battuta Nadia Petrova. Masterino d’importanza più o meno pari alla sagra delle olive giganti che si tiene a Sezze.

Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.