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sabato 11 dicembre 2010

DAVIS CUP 2010: TRIONFO SERBO

Nell’infernale e ribollente bolgia di Belgrado, i padroni di casa serbi portano a casa la Coppa Davis 2010. Djokovic martellante e sicuro, Troicki delfino protagonista per una notte. I “Blues” falcidiati dalle assenze cedono solo nel singolare decisivo. Le pagelle
Novak Djokovic: 8. Era la sua coppa. L’ultimo sentitissimo sfizio di una stagione senza grosse soddisfazioni individuali. E lui non tradisce le aspettative. Certo, la Davis quest’anno è stata snobbata da Nadal, Federer e Seppi, ma non è certo colpa sua. Centrato e carico a mille, porta a casa i due singolari concedendo le briciole agli avversari. Si avventa su Simon come il cecchino squilibrato sull’agonizzante orsetto delle giostre. L’inutilmente molleggiato Monfils non ha serie armi per scalfire la sua furia, solo balzi di caucciù. Provate ad immaginare Djokovic che esulta con gli occhi accecati da un odio folle ed inspiegabile. Moltiplicato per dieci. Alimentato dai colori della sua patria e da oltre sedicimila invasati connazionali che chiedono la vittoria. Avrete qualcosa che non ha eguali nel mondo dello sport. Tardelli al Mundial 82? Nadal esagitato e baldanzosamente arrembante? Inzaghi che raddoppia nella finale di Atene 2007? “Jimbo” quarantenne che vince battaglie commoventi? Niente, siete sulla strada sbagliata. Il serbo rifugge ogni paragone agonistico. Lo sport è un contorno. E quell’odio primordiale negli occhi, qualcosa su cui indagare. Potreste al più rinvenirne rivoli nei documentari, in film che raccontano di cruente battaglie petto a petto con le accette medievali o scimitarre trincia teste. Martella come un ossesso, convinto e spinto dalla folla indemoniata. I due punti, secondo il più scontato dei pronostici, li porta a casa con sicurezza debordante. Uno spettacolo vietato ai minori, quasi. E lui, dopo la prima giornata, chiama il pubblico ad essere “più energico”. E’ chiaro quanto voglia la guerra totale. Lo capisci una volta di più dopo aver visto quegli occhi incontenibili che escono fuori dalle orbite. Il resto, un miserabile punto, lo devono fare gli altri. E ci riescono. Ora è pronto, per vincere un altro slam, o per un casting con Dario Argento. Anzi, quello lo ingaggerebbe senza provino.
Viktor Troicki: 7. L’anitroccolo per una sera diventa protagonista assoluto. Vuoi per la coincidenza che lo mette nel quinto singolare, o per un Llodra arrendevolmente imbarazzante ed esposto a traccianti che pesano come macigni. Se qualcuno non trova piacevole Djokovic, questo strano ragazzo macchinoso che si muove come il suo idolo, esulta allo stesso raggelante modo ed ha il medesimo, straziante ed atroce “occhio della madre” dell’immortale “Corazzata Potemkin”, può decidere di spegnere il televisore. Al limite vedere a cuor leggero un concerto dei Pooh vestiti come giovinetti o Emilio Fede che non si dà pace per quel “lazzarone, vigliacco, attentatore” di Assange col suo Wikileaks. Tutto vi sembrerà più lieve. Anche il delfino di Nole in doppio. E Troicki in doppio è come un geco sulla neve, Gasparri in un convegno di intellettuali, Bondi nominato ministro della cultura. Qualcosa che non può esistere nel mondo reale. Eppure il capitano serbo lo schiera al fianco di Zimonjic, una specie di balio asciutto con la rassicurante faccia di La Russa. E la coppia da “Rocky horror pictures show” è servita. Con degno contorno e rutilar d’esultanze inutilmente insipienti, sinistre dita che si alzano (tre, mi pare). Troicki si esibisce in numeri raccapriccianti che svelano la mestizia di un braccio artigianalmente ruvido. Rudimentale ed inguardabile, mentre strozza l’ennesima incolpevole volèe con movenze legnose. Pure un Barazzutti logorroico come non mai al microfono, si accorge che con i colpi di volo non ha troppa familiarità. Ma viste le lune storte di Tipsarevic, rimaneva l’unica chance dei serbi di portare a casa il terzo, meritatissimo, punto. In singolare non tradisce le attese, non pagando minimamente l’emozione di dover giocare il punto decisivo. Con una prestazione quasi perfetta impallina il povero Llodra, svolazzante pennuto ansante. Come accanirsi su un uomo già morto. Una serie di randellate monstre e passanti impeccabili al millimetro, che ti fanno salire il magone per uno sport che non esiste più come lo intendevi nell’età dell’innocenza. Domina in tre agevoli set, ed è portato in trionfo dai connazionali.
Nenad Zomonjic: 6. Mastro doppista dall’inquietante somiglianza col La Russa che esibisce la sua espressione più sobria. Basterebbe quello per rifuggire le sue folte sopracciglia per i prossimi sei lustri. Gli mettono al fianco uno spaesato Troicki, e lui ci prova anche a sorreggere l’insostenibile. Si mette di buzzo buono, come paziente maestro col maldestro e viziato allievo dal braccio ingessato. Solito show di pugni al cielo, urla e tutto quello che richiederebbe un bollino rosso per l’intero week end. Potrebbero anche completarsi, i due. Gran servizio e buone volèe del primo, abbinate ai rocciosi colpi al rimbalzo e disastri confinanti l’abominio a rete dell’altro. Così deve averla pensata il capitano serbo, che forse tante alternative non ne aveva. Peccato che due mezze mele non facciano un doppio competitivo. E appena Nenad cala il ritmo, la sconfitta diviene inevitabile.
Janko Tipsarevic: 5. Chissà cosa deve aver creduto il capitano serbo, quando ha incaricato il barbuto Janko di rompere il ghiaccio. Sperato forse nelle lune propizie e nell’imponderabile che si cela nella mente complessa del talentuoso ragazzo. Un pensatore che legge, conosce, apprende e s’incupisce dietro gli spessi occhiali. Meglio la violenta mente sgombra di Troicki, in singolare. L’afflitto tennista-intellettuale inizia con due doppi falli che svelano già l’andazzo di un match senza storia, e l’inevitabile rapida sconfitta al cospetto di un Monfils nient’altro che normale.
Gael Monfils: 6. Fa il suo mestiere, l’eccentrico ballerino sghembo. Batte in sicurezza il numero due serbo, si arrende a Novak Djokovic in tre rapidi set. Mestamente, malgrado le solite inutili e sceniche evoluzioni da ginnasta esasperante. Annesso iniziale colpo sotto le gambe in sospensione di due metri. Manca la pallina, e rischia di lacerarsi in modo cruento ogni muscolo del corpo. Lui si diverte così, e forse a qualcuno piacciono queste estremizzanti acrobazie dense d’inutilità antiestetica. Agli amanti dei cartoon di cera ponga o agli appassionati di basket acrobatico. Nulla più. Le speranze della Francia passavano anche per un suo miracolo contro il numero tre al mondo, e lui non ci va nemmeno vicino. Casualmente avanti di un break nel terzo set, si eccita tutto come neanche avesse vinto 19-17 al quinto la finale di Wimbledon. Esaurisce ogni energia mentale e raccoglie solo le briciole nei restanti quattro games.
Michael Llodra: 5,5. Bando ai soliti soloni e pedanti parolieri che di tennis avranno visto un par di partite di straforo, era il suo punto in singolare la vera speranza dei “bleus”. Altro che “doppio come punto fondamentale”. Già da settimane dibattevo con ignari personaggi, che mi reputavano pazzo, del suo decisivo match da giocare sul 2-2, contro Troicki. Come facevo a saperlo? Semplice, mi era apparso in sogno. C’era tutto, in quella sceneggiatura da oscar. Un magnifico sogno, venato di dolce utopia ammaliante. Ieri si è rapidamente trasformato in incubo. Qualcosa da cui avverti di poter uscire, abbandonandoti alla rassegnazione più cupa. Quasi fosse un pennuto ferito e stanco, Michael espone il petto ai pallettoni furenti di Troicki. Attacca, attacca, il trentenne mancino col boccolo alla “tin-tin”. Più dell’avversario paga la stanchezza per la maratona di doppio, portata a conclusione virtuosamente. Non è solo questione di superficie lenta, perché “Micha” sembra proprio non avere energie e speranze per sottrarsi alla morsa violenta ed uscire dal baratro oscuro. Lento e sempre in ritardo di una frazione di secondo per arpionare la volèe con la sua lama vellutata. La solita triste battaglia tra il dionisiaco e l’apollineo, che va in scena. Disastro vero, e trionfo del serbo con gli occhi sgranati ed il pugnetto incorporato, che regala l’insalatiera ad una Serbia in festa. Amen. Al prossimo sogno, che è meglio.
Arnaud Clement: 6. L’assenza di Julien Benneteau porta il capitano francese Guy Forget a rispolverare il vecchio Arnaud in doppio, contando sull’antico affiatamento con l’amico Llodra. Tennista tascabile e prossimo agli anni del Cristo in croce, ma che ad inizio secolo raggiunse anche una finale a Melbourne, in singolo, schiantato da Agassi. E che malgrado il netto declino è ancora capace di tenersi ai livelli del miglior tennista italiano. Famoso più per le eccentriche bardature, bandane multicolori ed occhiali da talpa che per i suoi colpi, questa sorta di “Pirata dei Carabi” versione ridotta ci mette tutto il mestiere che possiede per aiutare il compagno. Scalpita, trotta, allunga i suoi scarsi 170 centimetri a rete con ardimento, dopo un inizio quasi disastroso. Alla fine contribuisce a far rimanere in corsa la Francia. Tutto inutile, a posteriori.
Gilles Simon: 5. Abbandonate le speranze di avere Jo-Wilfried Tsonga per i noti problemi fisici, accantonato Benneteau, anche lui acciaccato, scartato Richard Gasquet per i ben noti problemi mentali, rimaneva lui, Gilles Simon. L’uomo della provvidenza, che ballò per una mezza estate sul cemento americano. Qualcuno sperava davvero che questo piccolo Scamarcio al brie, potesse avere un brioso guizzo champagne? Come sperare che D’Alema dica qualcosa di sinistra. “Non ho niente da perdere”, aveva giustamente dichiarato nelle interviste di rito. Sacrosanto. Niente da perdere, ma anche niente da offrire, nulla da poter controbattere alla violenta esuberanza di Djokovic. Cede in tre rapidi set, senza mai dare la sensazione di potersi inventare qualcosa, tirare fuori il coniglio da un cilindro inesistente. Solo un calo del serbo in prossimità del traguardo regala l’illusoria speranza che possa entrare nel match.
Richard Gasquet: 7. Era il quinto membro dei “galletti”. Tradotto: L’inutile. Ognuno ha il suo destino. Ma Forget lo infagotta e se lo porta lo stesso, forse come amuleto. Basta vedere Gilles Simon dibattersi scontatamente perdente contro Djokovic, per farci rimpiangere quel Richard con le meningi che urlano laceranti invocazioni di pietà. Poteva regalare una sconfitta più imprevedibile o ricercata, o l’impresa sdoganatrice che smentisse ponderosi tomi dei nipoti di Freud. Poi lo guardi, seduto in panchina come gli altri. Durante le concitate fasi del doppio lottato punto a punto dai compagni, lo osservi con attenzione psicoanalitica. L’occhio vitreo ed assente, i capelli arruffati. E’ vestito in modo diverso da tutti gli altri, fermo ed impassibile. Cosa mai potrà pensare in quegli istanti? Di assistere ad un concerto degli “Homo sapiens”? Che stiano ballando il celeberrimo “Lago dei cigni”? Chi può dirlo.
Ivanisevic/Rafter: 9. Già me li prefiguro i pensieri sconci di chi leggerà. Come i pazzi, mi faccio le domande e le risposte, seguendo l’esperienza empirica accumulata in un anno di questa rubrica ormai al congedo finale: “Ma questo Picasso, invece di celebrare i campioni Djokovic e Troicki, li tratta così?…che indegnità! Si contenga! Che c’entra Ivanisevic adesso?”. Oppure in un picco della loro massima estrosità, “ma lui contro Troicki, lo farebbe un punto? Eh? Eh?”. Più di questo non si riesce a cavare da intelligenze atrofizzate, paralizzate dalla mancanza di ironia e seriosità da pretoni frustrati. Ed ai quali non posso che rispondere con una frase del compianto Mario Monicelli, per bocca del “Marchese del Grillo”: “Io sono io, e voi nun siete un….”. Vivere il tennis come un magnifico gioco simile a commedia dell’arte senza nessuna pretesa, agevola l’elevazione morale e la creatività sognante. Provate a purificare i vostri animi divelti dai Troicki guardando la battaglia all’ultimo artiglio tra i due vecchi eroi Rafter ed Ivanisevic. Bando a ritardi, volgari ristoranti e gente nervosa che attende, rimango rapito per due ore, davanti ad un simile spettacolo delirante. Senza sonoro, come in un film muto d’inizio secolo. Londra, “Royal Albert Hall”. Non è in atto un concerto sinfonico per corni irlandesi, ma la semifinale del Masters “champions tour”, dove la gente sgargarozza tranquillamente sugli spalti il suo drink e sorride godendo del magnifico spettacolo. Nessun cartellone, schiamazzo da wrestling prestato al tennis, urla finte di guerre sante portate su un campo di tennis. Ivanisevic e Rafter ancora di fronte, dopo quella drammatica finale di Wimbledon. Tappeto rapido, velocissimo e quasi lunare, con la pallina che schizza via rapida ed apparentemente indomabile. Ace, servizi, volèe e mezze volate. Uncini, tuffi a rete, colpi di volo ora simili a carezze smarrenti, ora ad artigliate finali da felino. Vince ancora Goran all’ultimo prodigioso guizzo, malgrado una schiena di marzapane, su Pat, il giaguaro volleante con le gote livide dalla fatica. Ma poteva essere il contrario. Il tennis è lì, e qualche semidio sembra averlo posto come purificazione estrema, a conclusione dell’abbruttente stagione dei normali. E comunque “io sono io, e voi nun siete…” sempre quella cosa lì.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.