Rafael Nadal. Stagione quasi perfetta per il maiorchino, che come un satanasso travestito da Lazzaro risorge rabbiosamente dalle sue ceneri di dolore. Riemerge col coraggio dei guerriglieri dai dubbi sul futuro a da quelle giunture sfibrate che sembravano segnare in modo implacabile una carriera ancora nella parabola ascendente. Legamenti non più capaci di sostenere peripezie arrotatamente esasperate e gran corse da forsennato. Risorge a primavera come una mutante cavalletta, nel luogo a lui più consono, sul rosso mattone tritato che costituisce quasi un’unica tela con quel tennis diabolicamente arrembante. Un apache orgoglioso, che non muore mai. Trionfa a Montecarlo, Roma e Parigi, senza mai dare l’impressione di poter patire il tennis di qualcuno. Nemmeno alla lontana impensierito da frotte di connazionali senza il giusto carattere per sostenerne la debordante personalità prima ancora dei colpi e tennisti di vertice troppo discontinui. Un piccolo grande slam su terra battuta, cui fa seguire impegni studiati col negriero factotum zio Toni, sempre solerte e vigile con schioccante frustino in mano.
Le ginocchia tornano a funzionare grazie a raffinate ma dolorose tecniche medico scientifiche, illuminanti trasfusioni di proprie piastrine. Ma sul veloce (ormai solo apparente) dei tornei post stagione rossa, i problemi ci sono ancora. O meglio, si riscoprono avversari in palla e capaci di mettere in difficoltà i suoi fagocitanti uncini. Rafa soffre, quasi mai riesce a dare una grossa impressione nei tornei intermedi, per presentarsi al top della forma, pronto a dare tutto, nelle prove dello slam. Ed eccolo, con un po’ di fortuna, qualche trucchetto scafato e tabelloni in discesa trionfare sull’erba di Wimbledon ed a New York. Corre, sbuffa, trita e picchia senza mollare una pallina, con la cattiveria in occhiate frenetiche. Tre slam su quattro in stagione e tutti e quattro i major che hanno visto almeno una volta il suo nome nell’albo d’oro. Fallisce solo il Masters di Londra, imbattendosi in un Federer stellare e cedendo alla ormai atavica stanchezza di fine stagione, tipica degli umani. Perché malgrado tutto, il diavolaccio di Manacor rimane un terrestre.
Roger Federer. Da due anni i discorsi sull’età avanzata e l’imminente dorato futuro negli eremi dei grandi monarchi in pensione, sono all’ordine del giorno. L’età non la possono fermare nemmeno i marziani. Ma a 29 anni lo svizzero non ha proprio l’intenzione di voler smettere. Anzi, fisicamente sembra persino più smagliante del solito. Continua ad avere dalla sua parte un tennis che è precisione svizzera e tambureggiante concerto sinfonico, in un unico sincronismo raro. La cavalcata a Melbourne è sensazionale. Compresa una devastante finale danzata sulle punte che costringe un Andy Murray a sgorgare larme di scorata frustrazione. Una dimostrazione di soave ferocia annichilente.
Poi arrivano mesi di magra e troppa rilassatezza che, complice il Nadal cannibale di primavera, gli fanno mancare di pochi giorni il record di settimane al vertice della classifica Atp. Come Dorando Petri travestito da Fantozzi. Forse corrucciato da quel piccolo grande traguardo che ancora ne turba gli algidi sonni e manca ad una carriera corsa ad impressionante velocità, finisce per steccare più di un appuntamento. Cede alla vena irrepetibilmente omicida ed alle roncole deliranti di Soderling a Parigi. Ancor più inattesa è la resa sui sacri prati di Wimbledon contro un buon Berdych, che pure fa di tutto per non smentire una fama da gran perdente di livello. Grandi colpi e set di rara perfezione, alternati a distrazioni, ispirazioni appannate ed amnesie incomprensibili. Alienazione spirituale quando il match si trascina nella plebea battaglia in cui egli stesso a volte si impelaga, assecondando di petto le sfuriate di qualche picchiatore. Materia per Freud ed i suoi discepoli svitati. Ma non per lui, quanto per chi prova inutilmente a capirci qualcosa. E’ la seconda carriera del dominatore elvetico, che chiede aiuto a Paul Annacone, già taumaturgo e coach dell’ultimo Sampras. L’impressione che alla lunga abbia bruciato la distanza che lo separava dalle seconde linee spuntate Murray e Djokovic, si fa comunque forte. All’apprendista campione scozzese cede nei Masters 1000 di Toronto e Shanghai. Al serbo invasato si arrende dopo una battaglia feroce nella semifinale di New York. Pronti all’ennesimo coccodrillo, in molti devono rimandarne la pubblicazione, perché l’ex despota torna momentaneamente in sella nell'autunno morbido, con tanto di furenti punizioni a Djokovic e Murray. Fino alla conferma di una condizione mentale tornata quella dei tempi belli, nella Masters Cup di Londra, dominata col piglio del marziano che ha ritrovato l’ispirazione.
Novak Djokovic. Con quella faccia un po’ così, quasi disegnata da uno scrittore horror che si è preso una sbronza di vinaccia, continua a veleggiare nell’élite del tennis mondiale. Tra prove di forza, sbarellamenti, patetiche imitazioni da guitto di quarta fila e sceneggiate da istrione ottusamente convinto d’esserlo. E la devastante immagine di Paola Binetti che inscena un burlesque in una coppa di champagne è l’unica similitudine che balza alla mente, dopo averlo visto con una parrucca rossa o travestito da comico d’inizio secolo. Lui, con quella espressione terrificante. La lombrosiana scucchia, postura cameratesca ed occhi sbarrati che trasudano odio puro, si adopera a mostrarsi leggero buontempone. "Il cavaliere senza testa" di Sleepy Hollow che racconta barzellette. La malvagia realtà è quella del campo ed evidenzia come a Novak manchi ancora qualcosa per avvicinare Nadal e Federer nel pieno del loro fulgore. Li ha battuti certo, il più delle volte approfittando di piccole incertezze dei due rivali. L’altra verità inconfutabile è quella dei numeri. E la possibilità che possa bissare quel titolo dello Slam ormai vecchio di quasi tre anni. Troppo forte il dubbio, mentre lo vedi deambulare ritto come uno scopetto di quercia verso la rete e seviziare una incolpevole volèe. Dubbio che si fa più insistente assistendo a sporadiche punizioni corporali di avversari inferiori o sterili vittorie in Masters 500, per arrendersi con puntualità svizzera negli slam.
In Australia basta uno Tsonga in normale giornata di virulenza abbagliante a ridimensionarlo. A Parigi riesce addirittura a trasformare Melzer in un gladiatorio combattente. Prova l’ebbrezza di farsi rimontare dal mancino austriaco rendendolo tennista vincente, oltre che talentuoso, alla soglia dei trent’anni. A Wimbledon manca la finale per colpa di Berdych gettando via tutto, tra urlacci della foresta e racchette frantumate in modo orrendamente macchinoso e costruito, anche lì. Annata deficitaria, da far gridare al quinto mistero di Fatima verso un computer che ancora lo mantiene tra i primi tre, ma parzialmente riabilitata nell’ultima parte. A New York però, messi da parte numeri da Martufello travestito da "Igor" di "Frankenstein jr", riscopre la sobrietà del tennista e torna furibondo pugile accecato. Con gran coraggio e personalità porta Federer nella interminabile battaglia senza sosta e lo batte in volata, prima di cedere ad un più fresco Nadal nella finale. Altro passo che rende il suo 2010 meno fallimentare è il successo nella Coppa Davis. Manifestazione giocata senza risparmiarsi e risparmiare atti d’amor patrio confinanti con la belligeranza santa. Si prende in spalla la squadra e l’intera Serbia, nella vincente finale di Belgrado con la Francia. Il 2011 potrebbe essere il suo anno. Per un altro slam o per la parte di protagonista nel rifacimento trucido di “Shining” col testone spinoso che va alla guerra.
Le ginocchia tornano a funzionare grazie a raffinate ma dolorose tecniche medico scientifiche, illuminanti trasfusioni di proprie piastrine. Ma sul veloce (ormai solo apparente) dei tornei post stagione rossa, i problemi ci sono ancora. O meglio, si riscoprono avversari in palla e capaci di mettere in difficoltà i suoi fagocitanti uncini. Rafa soffre, quasi mai riesce a dare una grossa impressione nei tornei intermedi, per presentarsi al top della forma, pronto a dare tutto, nelle prove dello slam. Ed eccolo, con un po’ di fortuna, qualche trucchetto scafato e tabelloni in discesa trionfare sull’erba di Wimbledon ed a New York. Corre, sbuffa, trita e picchia senza mollare una pallina, con la cattiveria in occhiate frenetiche. Tre slam su quattro in stagione e tutti e quattro i major che hanno visto almeno una volta il suo nome nell’albo d’oro. Fallisce solo il Masters di Londra, imbattendosi in un Federer stellare e cedendo alla ormai atavica stanchezza di fine stagione, tipica degli umani. Perché malgrado tutto, il diavolaccio di Manacor rimane un terrestre.
Roger Federer. Da due anni i discorsi sull’età avanzata e l’imminente dorato futuro negli eremi dei grandi monarchi in pensione, sono all’ordine del giorno. L’età non la possono fermare nemmeno i marziani. Ma a 29 anni lo svizzero non ha proprio l’intenzione di voler smettere. Anzi, fisicamente sembra persino più smagliante del solito. Continua ad avere dalla sua parte un tennis che è precisione svizzera e tambureggiante concerto sinfonico, in un unico sincronismo raro. La cavalcata a Melbourne è sensazionale. Compresa una devastante finale danzata sulle punte che costringe un Andy Murray a sgorgare larme di scorata frustrazione. Una dimostrazione di soave ferocia annichilente.
Poi arrivano mesi di magra e troppa rilassatezza che, complice il Nadal cannibale di primavera, gli fanno mancare di pochi giorni il record di settimane al vertice della classifica Atp. Come Dorando Petri travestito da Fantozzi. Forse corrucciato da quel piccolo grande traguardo che ancora ne turba gli algidi sonni e manca ad una carriera corsa ad impressionante velocità, finisce per steccare più di un appuntamento. Cede alla vena irrepetibilmente omicida ed alle roncole deliranti di Soderling a Parigi. Ancor più inattesa è la resa sui sacri prati di Wimbledon contro un buon Berdych, che pure fa di tutto per non smentire una fama da gran perdente di livello. Grandi colpi e set di rara perfezione, alternati a distrazioni, ispirazioni appannate ed amnesie incomprensibili. Alienazione spirituale quando il match si trascina nella plebea battaglia in cui egli stesso a volte si impelaga, assecondando di petto le sfuriate di qualche picchiatore. Materia per Freud ed i suoi discepoli svitati. Ma non per lui, quanto per chi prova inutilmente a capirci qualcosa. E’ la seconda carriera del dominatore elvetico, che chiede aiuto a Paul Annacone, già taumaturgo e coach dell’ultimo Sampras. L’impressione che alla lunga abbia bruciato la distanza che lo separava dalle seconde linee spuntate Murray e Djokovic, si fa comunque forte. All’apprendista campione scozzese cede nei Masters 1000 di Toronto e Shanghai. Al serbo invasato si arrende dopo una battaglia feroce nella semifinale di New York. Pronti all’ennesimo coccodrillo, in molti devono rimandarne la pubblicazione, perché l’ex despota torna momentaneamente in sella nell'autunno morbido, con tanto di furenti punizioni a Djokovic e Murray. Fino alla conferma di una condizione mentale tornata quella dei tempi belli, nella Masters Cup di Londra, dominata col piglio del marziano che ha ritrovato l’ispirazione.
Novak Djokovic. Con quella faccia un po’ così, quasi disegnata da uno scrittore horror che si è preso una sbronza di vinaccia, continua a veleggiare nell’élite del tennis mondiale. Tra prove di forza, sbarellamenti, patetiche imitazioni da guitto di quarta fila e sceneggiate da istrione ottusamente convinto d’esserlo. E la devastante immagine di Paola Binetti che inscena un burlesque in una coppa di champagne è l’unica similitudine che balza alla mente, dopo averlo visto con una parrucca rossa o travestito da comico d’inizio secolo. Lui, con quella espressione terrificante. La lombrosiana scucchia, postura cameratesca ed occhi sbarrati che trasudano odio puro, si adopera a mostrarsi leggero buontempone. "Il cavaliere senza testa" di Sleepy Hollow che racconta barzellette. La malvagia realtà è quella del campo ed evidenzia come a Novak manchi ancora qualcosa per avvicinare Nadal e Federer nel pieno del loro fulgore. Li ha battuti certo, il più delle volte approfittando di piccole incertezze dei due rivali. L’altra verità inconfutabile è quella dei numeri. E la possibilità che possa bissare quel titolo dello Slam ormai vecchio di quasi tre anni. Troppo forte il dubbio, mentre lo vedi deambulare ritto come uno scopetto di quercia verso la rete e seviziare una incolpevole volèe. Dubbio che si fa più insistente assistendo a sporadiche punizioni corporali di avversari inferiori o sterili vittorie in Masters 500, per arrendersi con puntualità svizzera negli slam.
In Australia basta uno Tsonga in normale giornata di virulenza abbagliante a ridimensionarlo. A Parigi riesce addirittura a trasformare Melzer in un gladiatorio combattente. Prova l’ebbrezza di farsi rimontare dal mancino austriaco rendendolo tennista vincente, oltre che talentuoso, alla soglia dei trent’anni. A Wimbledon manca la finale per colpa di Berdych gettando via tutto, tra urlacci della foresta e racchette frantumate in modo orrendamente macchinoso e costruito, anche lì. Annata deficitaria, da far gridare al quinto mistero di Fatima verso un computer che ancora lo mantiene tra i primi tre, ma parzialmente riabilitata nell’ultima parte. A New York però, messi da parte numeri da Martufello travestito da "Igor" di "Frankenstein jr", riscopre la sobrietà del tennista e torna furibondo pugile accecato. Con gran coraggio e personalità porta Federer nella interminabile battaglia senza sosta e lo batte in volata, prima di cedere ad un più fresco Nadal nella finale. Altro passo che rende il suo 2010 meno fallimentare è il successo nella Coppa Davis. Manifestazione giocata senza risparmiarsi e risparmiare atti d’amor patrio confinanti con la belligeranza santa. Si prende in spalla la squadra e l’intera Serbia, nella vincente finale di Belgrado con la Francia. Il 2011 potrebbe essere il suo anno. Per un altro slam o per la parte di protagonista nel rifacimento trucido di “Shining” col testone spinoso che va alla guerra.
Ciao Picasso,
RispondiEliminaeccomi qui, pronto a continuare a seguire le tue cronache in questo sperduto angolino del web. ;-)
Ma dimmi un po', nessun commento su Murray?
(Anche se effettivamente è vero che c'è poco da dire...)
Ciao Fabio,
RispondiEliminaben ritrovato. Sono più a mio agio qui, in questo "sperduto angolino" del web. In autoesilio dai grandi riflettori (uhuh, qui sono un po' ironico). Per ora sono solo qui, in futuro chissà.
Murray...l'intenzione era di piazzarlo tra "i migliori attori non protagonisti"...perché la saga degli oscar ha sei o sette puntate. =)
Ciao, a presto.
Ciao Pic, anche io preferisco T&P, perchè non lo so, sarà l'aspetto più casalingo, cmq sotto i grandi riflettori eri il più letto...
RispondiEliminaSono d'accordo con la tua analisi, sopratutto con quella del seviziatore di incolpevoli volèe (+1), alla fin dei conti resta personaggio di contorno, ad infastidirli tutti e due proprio non ci riesce perchè finisce sempre con lo specchiarsi troppo subito dopo e così resta figura di contorno che serve allo spettacolo.
Mi piacciono le saghe, aspetto le altre puntate perchè in realtà i personaggi "divertenti", almeno per me, stanno sotto!
Complimenti per l'immagine :)
Ciao Star,
RispondiEliminama io sono come Scilipoti, do troppa importanza agli ideali. Mi vendo per poco, se qualcuno mi paga il mutuo sarò pronto a farmi leggere da tanti-tanti (pure semi-analfabeti va bene).
Le saghe...allora devi attendere quella rutilante sulle "meteore/buchi neri"...=)
Quanto all'immagine, ebbene, me ne compiaccio anch'io. M'è costato mezz'ora di cesellato lavoro. Più che per scrivere l'articolo.