Atmosfera da spaziale kolossal all’Arena 02, alla quale si adatta alla perfezione Roger Federer, implacabile come nei giorni del dominio e vincitore del Masters 2010. Un gladiatorio Nadal si arrende solo in finale. Murray bell’incompiuto. Le pagelle
Roger Federer: 9. E’ tornato a livelli di dominio annichilente, spaziale. Senza nessuna pausa o tormentata fuga da se stesso. Chiude la stagione allo stesso modo in cui l’aveva cominciata in Australia, al fianco di un Murray frustrato e piangente. Fluttua leggero e in sospensione nell’aria, con ritrovata ferocia da tiranno. Un tennis che è fluido magico, invisibile essenza di eterea superiorità. Assolutamente inarrestabile, punisce tutti come sul piedistallo dell’inarrivabile. Potenziali numeri uno e numeri uno attuali. Dall’incantatore di serpenti Murray incapace di abbozzare una difesa e suonare il suo piffero anestetizzante, a quel “toro scatenato” Djokovic ridotto a suonato sparring. Fino alla prova decisiva, nel match atteso da tutti, contro il nuovo dominatore delle scene, Rafael Nadal. La solita fascinosa rivalità col gladiatorio spagnolo che ha osato turbare gli algidi sogni dello svizzero. Un ruggente suonatore di tamburi che con muscoli esplosivi ha sovvertito il regno immacolato del Mozart danzante a suon di arrotate violente, corse prodigiose e coraggio leonino. Un miscuglio pulsante di diversità tecniche e contrasti mentali da rendere il confronto quasi unico.
Con Nadal Federer aveva spesso perso prima di entrare sul campo, turbato ed incredulo da quell’ardimento plebeo fino ad abbandonarsi al suo destino come un delfino spiaggiato. Umanizzato da lacrime di superiore impotenza. Immutabile nella sua mente altera, per provare a cambiarsi a causa di qualcuno. Modificare un progetto tennistico che non esiste, ma è puro istinto superiore. A Londra si rivedono quei colpi dominanti, facili, venati di irrealtà inspiegabile ed incurante. Dolcemente violenti. Lascia per strada il primo set del torneo proprio contro quel diavolo di spagnolo, che non muore mai. Come i gatti avvolti di una forza luciferina ed inscalfibile. Torna in sella nel secondo set, l’irriducibile maiorchino. Quando una sagoma è messa k.o., ecco spuntarne un’altra, delle dieci che lui ne ha. E l’altro diventa matto. “Finirà per avventarglisi alla jugulare, stavolta?”, si sentenzia. “Ci risiamo, eccolo ancora il Roger che si piega mentalmente all’erculea veemenza dell’indomabile ragazzo di Manacor”, pensa il miserabile scribacchino. O ancora, in un picco di banale ed irriguardosa saccenza da poltrona: “Ma da sinistra una seconda ad uscire seguita a rete, contro un avversario tre metri dietro la linea, gli sembra davvero un’onta così grave?”. Tutto inutile, come spesso accade. Perché Roger è quello. Riprende a danzare con violenta leggerezza dal primo punto del terzo e decisivo set. “Ecco, se tiene questo servizio domina in agilità, 6-2 al massimo…”, si prova a rimediare alla precedente insolenza, sperando nella clemenza monarchica. E infatti ritorna l’assolo inarrestabile, in un rutilar di gemme e violente carezze. In bilico, a mezzo tra la poderosa “quinta sinfonia” di Beethoven ed il balzo di un Nureyev sospeso tra le nuvole. Un virulento ed inarrestabile tornado e l’arcobaleno pieno di silente candore. Chiude 6-1 al terzo, aggiusta una stagione iniziata alla grande e poi minata da incertezze, amnesie, quasi svogliatezza ed incapacità di primeggiare in lotte che rifuggano l’assolo. E il prossimo anno sarà ancora lì.
Rafael Nadal: 7,5. Gli mancava l’alloro al Masters di fine anno. Aveva rinunciato agli ultimi impegni per presentarsi al meglio all’appuntamento, da sempre suo tallone d’Achille. Vuoi per la scarsa attitudine ai tornei quasi-veloce-indoor, vuoi perché è spesso giunto a fine stagione sfinito e consunto da mesi di battaglie. Vinto dal logorio che un tennis così estremamente selvaggio produce anche agli eroi forzuti. E Rafa mostra subito le crepe di una condizione incerta nel match d’esordio, contro Andy Roddick. Ne viene fuori con tutto il mestiere e le impressionanti energie mentali che lo hanno reso quasi invincibile. Scrolla via un po’ di ruggine battendo Djokovic e Berdych, prima del piccolo capolavoro di caparbietà che lo vede spuntarla in volata nella battaglia con Murray. Grandi ed esasperanti corse, uncini diabolici e notevole intelligenza tattica. Le doti che gli hanno consentito di salire sul piedistallo, e fatto gridare all’oltraggio i puristi di questo sport. Gesta da irriducibile gladiatore del Colosseo, sguardi torvi, labbra ritorte di chi vuol azzannare un nemico inesistente usmandolo nell’aria. E’ uno dei segreti per essere vincenti, lo sa anche quel simpatico cartoon che chiamano Mourinho, abile nel disegnarsi ogni volta più insopportabile. Normale prevalga su Murray, che quel nemico lo ha già individuato da tempo: La razza umana. Ruggendo la sua rabbia dominate, Nadal mette tutto quello che gli è rimasto sul piatto, raggiungendo la prima finale nell’agognato torneo di fine anno. Sarebbe la ciliegina per una stagione quasi perfetta. Ma l’iberico si ritrova Federer in finale. L’uomo dei record e del tennis sinfonico, che pure in passato ha divelto con ferocia. E stavolta assiste quasi impotente, tranne il lodevole tentativo di arginare il tornado con maggiore aggressività, prima di cedere di schianto nel terzo set.
Andy Murray: 6,5. Fa quasi umana tenerezza quella sagoma spigolosa e scostante, leggera e repellente. A tratti incomprensibile. Forma e sostanza, sulfureo ed impalpabile. Fallisce ancora un grande appuntamento, l’Andy di Scozia dall’indecifrabile personalità. Selvatico ragazzo cocco della severa mamma Judy. Forse in questa frase, risiedono le intime ragioni di un insuccesso. Il suo è un tennis laboriosamente arguto, dove mille fili si attorcigliano lacoonticamente, e i nodi spesso lo uccidono. Eternamente su quel lembo scivoloso di confine che separa il campione dal fuoriclasse. Fra l’illuminato e diabolico omicida che armeggia con l’arsenico, ed un goffo suicida asfissiato dai suoi stessi masturbanti pensieri. Il prodigio predestinato ed il più evidente dei bluff sportivi. La verità, come spesso capita, sta nel mezzo. E’ nel compromesso giustiziato di Aldo Moro. Lo scozzese a Londra è bravo ed avveduto nel ridimensionare le sfuriate umoralmente pazze di Soderling. A tratti gaudioso e raffinato contro un Ferrer arrangiato nei suoi agricoli tentativi di resistenza all’élite. Poi incapace di opporre resistenza alle ancestrali ed ispirate stilettate di Federer, e domato alla distanza dal combattente Nadal. Cede ai due dominatori del tennis mondiale, quasi baciando le intime personalità dei suoi carnefici. Ha sagacia tattica e buona mano. Grande sensibilità nel passare dalla fase di contenimento a briose soluzioni offensive. Rimane l’incapacità di questa specie di “Arsenico e vecchi merletti” nel contrastare i dominatori reali di questo sport, quelli che uno slam lo hanno vinto. Sempre accartocciato su se stesso, nei momenti che contano e nei tornei importanti. Ispiratore dei tanto inflazionati e catacombali “bravo ma non abbastanza…”. Se due indizi fanno una prova, il buon Andy ora avrebbe due ergastoli sulla groppa, con isolamento diurno. Gli manca sempre quel balzello fatidico, per entrare nell’olimpo. Il tempo e la non immortalità degli avversari, potrebbe renderlo non necessario. In fondo, ogni ragno che si rispetti tesse la sua laboriosa tela con grande pazienza. Se non muore schiacciato da una qualsiasi suola numero 45.
Novak Djokovic: 6-. Vivida, mortifera ed imperitura, rimarrà nei nostri occhi la sindonica immagine dell’eroe guerriero steso sulla seggiola, con un luminare a scrutargli la pupilla. Vittima di una lente a contatto, prima ancora d’esser seppellito dai ganci arrotati di Nadal. Grottesco, ed in linea col personaggio. Nole riesce a porre rimedio passando come un treno sulle ceneri bagnate di Roddick. In semifinale gli occhi da pernice strabica funzionano bene, ma non vede mai la pallina contro Federer in giornata marziana. Se l’altro è in stato di grazia ultraterrena, a lui non rimane che vagare come marionetta con le pile scariche. Volgere l’atroce sguardo al cielo chiedendo ausili mistici all’insipienza terrena, appare l’unica via d’uscita. E da lassù, osservandolo avanzare a rete, tutto ritto e legnoso come un nodoso abete secolare nell’atto di deflorare orridamente una volèe, avranno allargato le braccia: “Divinità sì, figliuolo, ma a tutto c’è un limite…”. Incassa due sconfitte contro i primi due della classe, senza riuscire a mettere sul campo le indubbie capacità di pugilatore dalle nari fumiganti che si esalta nelle accecate battaglie a schemi ormai saltati. Chiude la stagione senza aver vinto uno slam, dando la netta sensazione che se gli altri si mantengono sul loro livello, la sua rimane ancora una figura di contorno. Con buona pace dei genitori pseudo-ultrà della Stella Rossa e dell’innocente e deluso fratellino ancora in età da scuola dell’obbligo, ma già arruolato alla truppa. Resta la finale di Davis da poter vincere. Snobbata da molti, ma pur sempre un trofeo da portare a casa. Divino Llodra permettendo.
Robin Soderling: 5,5. Reduce dal primo Masters 1000 vinto a Parigi, lo svedese poteva recitare il ruolo di spaventosa scheggia pazza dell’intero torneo. Il suo tennis compulsivamente violento si prestava a meraviglia. L’eroe follemente omicida che divelle ogni ostacolo umano posizionato davanti ai suoi occhi accecati, a Londra rimane solo un miraggio. L’automa diretto da deliranti fili invisibili lascia il posto, come spesso capita, al dinoccolato taglialegna miope con le paturnie. Tutto in giallo canarino, si offre mestamente agli avversari con occhio spento e le cicalette frinenti uno stonato concerto acid jazz nel suo cervello. Disbosca a vuoto, riuscendo raramente a mettere in moto il suo triviale armamentario di distruzione. “Psycho Killer” non trova colpi e campo, fa il suo dovere solo contro Ferrer, poi fallisce le prove Murray e Federer che non gli danno tempo e modo d’accendersi. Solo con lo svizzero, a tratti, regala qualche rabbiosa roncola primordiale, reggendo per un set. Lo rivedremo regalarci altrove quella vivida immagine di pazzia autentica, pronta ad esplodere o implodere da un momento all’altro.
Thomas Berdych: 5,5. Giungeva a Londra con possibilità prossime allo zero. Chi, suo malgrado, aveva visto frammenti delle ultime sconce esibizioni dell’orbato cecchino di Cechia, non poteva avere dubbi. Dopo una bella primavera-estate da violento perdente di gran valore, la stagione della caccia si è esaurita, lasciando il campo al maldestro tiro di schioppo contro svolazzanti quaglie inesistenti. E’ quel sorrisetto timidamente compiaciuto del suo talento a stridere più di ogni cosa, specie se esibito dopo un agghiacciante dritto finito in piccionaia. Ha gran convinzione somigliante a spocchia Thomas, ma l’intima paura del perdente. Non può erigere animi, sollevare spiriti. Non v’è nemmeno la virulenza accecata e genuina di altri, nel suo tennis. Conferma uno stato di forma pietoso all’esordio con Djokovic, quasi fosse un danzante cefalopode sulle note de “Il lago del cigno morto”. Prevedibile come le incresciose rivelazioni di “wikileaks” su un Premier basso di statura, narciso e dedito a festicciole selvagge. Solo Roddick che si grippa come un cingolato dopo mezz’ora gli ridona un po’ di fiducia. Vince, poi tira qualche scenico schioppo nel primo set con Nadal, prima di gettare via tutto verso ignari “bibitari” assiepati sugli spalti. Non era il suo Masters ma, abbiate intimo timore, ne giocherà altri.
Andy Roddick: 5. Degna conclusione di una stagione da dimenticare, con l’unico picco in Florida prima di una serie di traversie legate alla mononucleosi. Soffrì del morbo anche Federer e la questione tanto appassionò monarchici “giustificazionisti” e miliziani “negazionisti”. Ma che abbia compromesso la stagione del tennista yankee, è fuori dubbio. Agguantato d’un soffio un biglietto per Londra , fa quello che può. Arduo aspettarsi qualcosa da chi, quasi entrato nella parte dello spettatore o vinto dalla sindrome di Stoccolma, dichiara che “rimpiangeremo la rivalità tra Nadal e Federer”. Verità fuori luogo e picco di autoflagellante sportività, per uno che senza i due carnefici avrebbe in bacheca due/tre slam in più. Per un set e mezzo sembra però un rullo compressore, capace di poter stendere Nadal. Poi si spegne lentamente e il suo torneo finisce lì, come le risorse al lumicino lasciate in quelle due ore e mezza di battaglia. Il resto è un bolso trascinarsi stanco. L’acuita immagine di goffa lentezza arrangiata che svilisce un po’ la buona volontà ed il quasi miracolo compiuto da Larry Stefanki, capace di trasformare uno spartano simil battitore di baseball in ammirevole apprendista tennista a tutto campo.
David Ferrer: 5. Onesto figurante, senza nessuna possibilità di andare avanti. Gli altri avrebbero dovuto gettarsi in gruppo nelle gelide acque del Tamigi, per dargli una miserabile possibilità di vincere un set. Giocando da solo. L’ex muratore iberico il posto tra i fantastici otto se lo è guadagnato con merito, grazie ad una sguazzante stagione sulla sua argilla e straziante difesa coi denti su cemento e lento-veloce indoor. Espressione di incresciosa costanza, abnegazione operaia e capacità di sfruttare l’abbruttente omologazione delle superfici. Amen. Per il resto, la sua presenza a Londra è gratuita crudeltà immotivata. A tratti sembra la spaesata cagnetta “Laika” in missione suicida sulla luna. Troppo avanti gli altri, se in giornata normale. Zero vittorie, zero set vinti. Solo urla lancinanti e colpi rassegnatamente arrembanti tirati con la mascella squadrata ben serrata. Il tarchiato iberico mal si sposa anche con la figura di briosa comparsa. Ben altro spettacolo denso di inutilità arricciata, se calati nella parte, avrebbero regalato Youzhny o Melzer.
Istantanee, vip, star e leggende nella futurista cornice dell’Arena02. Una gran magniloquenza di luci, ombre, chiaroscuri e sceniche entrate in campo degli eroi. Mezzo kolossal in stile “Ben Hur” del 2000, e molta pacchianeria da wrestling, coi protagonisti impegnati a schivare nuvole di fumo degne di inferi artificiali. Wimbledon è lontano un miglio, che sembrano centinaia. Grandi musiche, danze e sfilate di personaggi vip sugli spalti. Calciatori londinesi, modelle, cantanti falliti, nani, ballerine, sindaci, avventori. Tutti pazzi per il tennis e questo appening mondano. Nota a parte per un concentratissimo, sobrio ed elegante Diego Armando Maradona. Forse per comunanza di “mancinerie”, eccitatissimo per i fendenti di Nadal. Onnipresente che neanche Italo “detto Bocchino” (la battuta non è mia e nemmeno di Bombolo, ma della sempre fine e garbata nipote del Duce che siede sugli scranni del Parlamento) o di Granata dopo aver “visto la luce” come John Belushi, alias Jack Blues. Al fianco del “pibe de oro”, durante la finale, in un connubio da allertare sedici squadre narcotici, un’altra leggenda: Ron Wood, chitarrista dei Rolling Stones. Keith Richards, ormai dedito alla vita salutare e all’abituale attività di aspiratore di formiche carnivore, è rimasto a casa. Ron invece, con tanto di ventenne badante a spiegargli cosa avveniva in campo, è sembrato divertirsi un mondo. Il suo pugno agitato all’ennesima prodezza di Federer, rimane istantanea indimenticabile.
Roger Federer: 9. E’ tornato a livelli di dominio annichilente, spaziale. Senza nessuna pausa o tormentata fuga da se stesso. Chiude la stagione allo stesso modo in cui l’aveva cominciata in Australia, al fianco di un Murray frustrato e piangente. Fluttua leggero e in sospensione nell’aria, con ritrovata ferocia da tiranno. Un tennis che è fluido magico, invisibile essenza di eterea superiorità. Assolutamente inarrestabile, punisce tutti come sul piedistallo dell’inarrivabile. Potenziali numeri uno e numeri uno attuali. Dall’incantatore di serpenti Murray incapace di abbozzare una difesa e suonare il suo piffero anestetizzante, a quel “toro scatenato” Djokovic ridotto a suonato sparring. Fino alla prova decisiva, nel match atteso da tutti, contro il nuovo dominatore delle scene, Rafael Nadal. La solita fascinosa rivalità col gladiatorio spagnolo che ha osato turbare gli algidi sogni dello svizzero. Un ruggente suonatore di tamburi che con muscoli esplosivi ha sovvertito il regno immacolato del Mozart danzante a suon di arrotate violente, corse prodigiose e coraggio leonino. Un miscuglio pulsante di diversità tecniche e contrasti mentali da rendere il confronto quasi unico.
Con Nadal Federer aveva spesso perso prima di entrare sul campo, turbato ed incredulo da quell’ardimento plebeo fino ad abbandonarsi al suo destino come un delfino spiaggiato. Umanizzato da lacrime di superiore impotenza. Immutabile nella sua mente altera, per provare a cambiarsi a causa di qualcuno. Modificare un progetto tennistico che non esiste, ma è puro istinto superiore. A Londra si rivedono quei colpi dominanti, facili, venati di irrealtà inspiegabile ed incurante. Dolcemente violenti. Lascia per strada il primo set del torneo proprio contro quel diavolo di spagnolo, che non muore mai. Come i gatti avvolti di una forza luciferina ed inscalfibile. Torna in sella nel secondo set, l’irriducibile maiorchino. Quando una sagoma è messa k.o., ecco spuntarne un’altra, delle dieci che lui ne ha. E l’altro diventa matto. “Finirà per avventarglisi alla jugulare, stavolta?”, si sentenzia. “Ci risiamo, eccolo ancora il Roger che si piega mentalmente all’erculea veemenza dell’indomabile ragazzo di Manacor”, pensa il miserabile scribacchino. O ancora, in un picco di banale ed irriguardosa saccenza da poltrona: “Ma da sinistra una seconda ad uscire seguita a rete, contro un avversario tre metri dietro la linea, gli sembra davvero un’onta così grave?”. Tutto inutile, come spesso accade. Perché Roger è quello. Riprende a danzare con violenta leggerezza dal primo punto del terzo e decisivo set. “Ecco, se tiene questo servizio domina in agilità, 6-2 al massimo…”, si prova a rimediare alla precedente insolenza, sperando nella clemenza monarchica. E infatti ritorna l’assolo inarrestabile, in un rutilar di gemme e violente carezze. In bilico, a mezzo tra la poderosa “quinta sinfonia” di Beethoven ed il balzo di un Nureyev sospeso tra le nuvole. Un virulento ed inarrestabile tornado e l’arcobaleno pieno di silente candore. Chiude 6-1 al terzo, aggiusta una stagione iniziata alla grande e poi minata da incertezze, amnesie, quasi svogliatezza ed incapacità di primeggiare in lotte che rifuggano l’assolo. E il prossimo anno sarà ancora lì.
Rafael Nadal: 7,5. Gli mancava l’alloro al Masters di fine anno. Aveva rinunciato agli ultimi impegni per presentarsi al meglio all’appuntamento, da sempre suo tallone d’Achille. Vuoi per la scarsa attitudine ai tornei quasi-veloce-indoor, vuoi perché è spesso giunto a fine stagione sfinito e consunto da mesi di battaglie. Vinto dal logorio che un tennis così estremamente selvaggio produce anche agli eroi forzuti. E Rafa mostra subito le crepe di una condizione incerta nel match d’esordio, contro Andy Roddick. Ne viene fuori con tutto il mestiere e le impressionanti energie mentali che lo hanno reso quasi invincibile. Scrolla via un po’ di ruggine battendo Djokovic e Berdych, prima del piccolo capolavoro di caparbietà che lo vede spuntarla in volata nella battaglia con Murray. Grandi ed esasperanti corse, uncini diabolici e notevole intelligenza tattica. Le doti che gli hanno consentito di salire sul piedistallo, e fatto gridare all’oltraggio i puristi di questo sport. Gesta da irriducibile gladiatore del Colosseo, sguardi torvi, labbra ritorte di chi vuol azzannare un nemico inesistente usmandolo nell’aria. E’ uno dei segreti per essere vincenti, lo sa anche quel simpatico cartoon che chiamano Mourinho, abile nel disegnarsi ogni volta più insopportabile. Normale prevalga su Murray, che quel nemico lo ha già individuato da tempo: La razza umana. Ruggendo la sua rabbia dominate, Nadal mette tutto quello che gli è rimasto sul piatto, raggiungendo la prima finale nell’agognato torneo di fine anno. Sarebbe la ciliegina per una stagione quasi perfetta. Ma l’iberico si ritrova Federer in finale. L’uomo dei record e del tennis sinfonico, che pure in passato ha divelto con ferocia. E stavolta assiste quasi impotente, tranne il lodevole tentativo di arginare il tornado con maggiore aggressività, prima di cedere di schianto nel terzo set.
Andy Murray: 6,5. Fa quasi umana tenerezza quella sagoma spigolosa e scostante, leggera e repellente. A tratti incomprensibile. Forma e sostanza, sulfureo ed impalpabile. Fallisce ancora un grande appuntamento, l’Andy di Scozia dall’indecifrabile personalità. Selvatico ragazzo cocco della severa mamma Judy. Forse in questa frase, risiedono le intime ragioni di un insuccesso. Il suo è un tennis laboriosamente arguto, dove mille fili si attorcigliano lacoonticamente, e i nodi spesso lo uccidono. Eternamente su quel lembo scivoloso di confine che separa il campione dal fuoriclasse. Fra l’illuminato e diabolico omicida che armeggia con l’arsenico, ed un goffo suicida asfissiato dai suoi stessi masturbanti pensieri. Il prodigio predestinato ed il più evidente dei bluff sportivi. La verità, come spesso capita, sta nel mezzo. E’ nel compromesso giustiziato di Aldo Moro. Lo scozzese a Londra è bravo ed avveduto nel ridimensionare le sfuriate umoralmente pazze di Soderling. A tratti gaudioso e raffinato contro un Ferrer arrangiato nei suoi agricoli tentativi di resistenza all’élite. Poi incapace di opporre resistenza alle ancestrali ed ispirate stilettate di Federer, e domato alla distanza dal combattente Nadal. Cede ai due dominatori del tennis mondiale, quasi baciando le intime personalità dei suoi carnefici. Ha sagacia tattica e buona mano. Grande sensibilità nel passare dalla fase di contenimento a briose soluzioni offensive. Rimane l’incapacità di questa specie di “Arsenico e vecchi merletti” nel contrastare i dominatori reali di questo sport, quelli che uno slam lo hanno vinto. Sempre accartocciato su se stesso, nei momenti che contano e nei tornei importanti. Ispiratore dei tanto inflazionati e catacombali “bravo ma non abbastanza…”. Se due indizi fanno una prova, il buon Andy ora avrebbe due ergastoli sulla groppa, con isolamento diurno. Gli manca sempre quel balzello fatidico, per entrare nell’olimpo. Il tempo e la non immortalità degli avversari, potrebbe renderlo non necessario. In fondo, ogni ragno che si rispetti tesse la sua laboriosa tela con grande pazienza. Se non muore schiacciato da una qualsiasi suola numero 45.
Novak Djokovic: 6-. Vivida, mortifera ed imperitura, rimarrà nei nostri occhi la sindonica immagine dell’eroe guerriero steso sulla seggiola, con un luminare a scrutargli la pupilla. Vittima di una lente a contatto, prima ancora d’esser seppellito dai ganci arrotati di Nadal. Grottesco, ed in linea col personaggio. Nole riesce a porre rimedio passando come un treno sulle ceneri bagnate di Roddick. In semifinale gli occhi da pernice strabica funzionano bene, ma non vede mai la pallina contro Federer in giornata marziana. Se l’altro è in stato di grazia ultraterrena, a lui non rimane che vagare come marionetta con le pile scariche. Volgere l’atroce sguardo al cielo chiedendo ausili mistici all’insipienza terrena, appare l’unica via d’uscita. E da lassù, osservandolo avanzare a rete, tutto ritto e legnoso come un nodoso abete secolare nell’atto di deflorare orridamente una volèe, avranno allargato le braccia: “Divinità sì, figliuolo, ma a tutto c’è un limite…”. Incassa due sconfitte contro i primi due della classe, senza riuscire a mettere sul campo le indubbie capacità di pugilatore dalle nari fumiganti che si esalta nelle accecate battaglie a schemi ormai saltati. Chiude la stagione senza aver vinto uno slam, dando la netta sensazione che se gli altri si mantengono sul loro livello, la sua rimane ancora una figura di contorno. Con buona pace dei genitori pseudo-ultrà della Stella Rossa e dell’innocente e deluso fratellino ancora in età da scuola dell’obbligo, ma già arruolato alla truppa. Resta la finale di Davis da poter vincere. Snobbata da molti, ma pur sempre un trofeo da portare a casa. Divino Llodra permettendo.
Robin Soderling: 5,5. Reduce dal primo Masters 1000 vinto a Parigi, lo svedese poteva recitare il ruolo di spaventosa scheggia pazza dell’intero torneo. Il suo tennis compulsivamente violento si prestava a meraviglia. L’eroe follemente omicida che divelle ogni ostacolo umano posizionato davanti ai suoi occhi accecati, a Londra rimane solo un miraggio. L’automa diretto da deliranti fili invisibili lascia il posto, come spesso capita, al dinoccolato taglialegna miope con le paturnie. Tutto in giallo canarino, si offre mestamente agli avversari con occhio spento e le cicalette frinenti uno stonato concerto acid jazz nel suo cervello. Disbosca a vuoto, riuscendo raramente a mettere in moto il suo triviale armamentario di distruzione. “Psycho Killer” non trova colpi e campo, fa il suo dovere solo contro Ferrer, poi fallisce le prove Murray e Federer che non gli danno tempo e modo d’accendersi. Solo con lo svizzero, a tratti, regala qualche rabbiosa roncola primordiale, reggendo per un set. Lo rivedremo regalarci altrove quella vivida immagine di pazzia autentica, pronta ad esplodere o implodere da un momento all’altro.
Thomas Berdych: 5,5. Giungeva a Londra con possibilità prossime allo zero. Chi, suo malgrado, aveva visto frammenti delle ultime sconce esibizioni dell’orbato cecchino di Cechia, non poteva avere dubbi. Dopo una bella primavera-estate da violento perdente di gran valore, la stagione della caccia si è esaurita, lasciando il campo al maldestro tiro di schioppo contro svolazzanti quaglie inesistenti. E’ quel sorrisetto timidamente compiaciuto del suo talento a stridere più di ogni cosa, specie se esibito dopo un agghiacciante dritto finito in piccionaia. Ha gran convinzione somigliante a spocchia Thomas, ma l’intima paura del perdente. Non può erigere animi, sollevare spiriti. Non v’è nemmeno la virulenza accecata e genuina di altri, nel suo tennis. Conferma uno stato di forma pietoso all’esordio con Djokovic, quasi fosse un danzante cefalopode sulle note de “Il lago del cigno morto”. Prevedibile come le incresciose rivelazioni di “wikileaks” su un Premier basso di statura, narciso e dedito a festicciole selvagge. Solo Roddick che si grippa come un cingolato dopo mezz’ora gli ridona un po’ di fiducia. Vince, poi tira qualche scenico schioppo nel primo set con Nadal, prima di gettare via tutto verso ignari “bibitari” assiepati sugli spalti. Non era il suo Masters ma, abbiate intimo timore, ne giocherà altri.
Andy Roddick: 5. Degna conclusione di una stagione da dimenticare, con l’unico picco in Florida prima di una serie di traversie legate alla mononucleosi. Soffrì del morbo anche Federer e la questione tanto appassionò monarchici “giustificazionisti” e miliziani “negazionisti”. Ma che abbia compromesso la stagione del tennista yankee, è fuori dubbio. Agguantato d’un soffio un biglietto per Londra , fa quello che può. Arduo aspettarsi qualcosa da chi, quasi entrato nella parte dello spettatore o vinto dalla sindrome di Stoccolma, dichiara che “rimpiangeremo la rivalità tra Nadal e Federer”. Verità fuori luogo e picco di autoflagellante sportività, per uno che senza i due carnefici avrebbe in bacheca due/tre slam in più. Per un set e mezzo sembra però un rullo compressore, capace di poter stendere Nadal. Poi si spegne lentamente e il suo torneo finisce lì, come le risorse al lumicino lasciate in quelle due ore e mezza di battaglia. Il resto è un bolso trascinarsi stanco. L’acuita immagine di goffa lentezza arrangiata che svilisce un po’ la buona volontà ed il quasi miracolo compiuto da Larry Stefanki, capace di trasformare uno spartano simil battitore di baseball in ammirevole apprendista tennista a tutto campo.
David Ferrer: 5. Onesto figurante, senza nessuna possibilità di andare avanti. Gli altri avrebbero dovuto gettarsi in gruppo nelle gelide acque del Tamigi, per dargli una miserabile possibilità di vincere un set. Giocando da solo. L’ex muratore iberico il posto tra i fantastici otto se lo è guadagnato con merito, grazie ad una sguazzante stagione sulla sua argilla e straziante difesa coi denti su cemento e lento-veloce indoor. Espressione di incresciosa costanza, abnegazione operaia e capacità di sfruttare l’abbruttente omologazione delle superfici. Amen. Per il resto, la sua presenza a Londra è gratuita crudeltà immotivata. A tratti sembra la spaesata cagnetta “Laika” in missione suicida sulla luna. Troppo avanti gli altri, se in giornata normale. Zero vittorie, zero set vinti. Solo urla lancinanti e colpi rassegnatamente arrembanti tirati con la mascella squadrata ben serrata. Il tarchiato iberico mal si sposa anche con la figura di briosa comparsa. Ben altro spettacolo denso di inutilità arricciata, se calati nella parte, avrebbero regalato Youzhny o Melzer.
Istantanee, vip, star e leggende nella futurista cornice dell’Arena02. Una gran magniloquenza di luci, ombre, chiaroscuri e sceniche entrate in campo degli eroi. Mezzo kolossal in stile “Ben Hur” del 2000, e molta pacchianeria da wrestling, coi protagonisti impegnati a schivare nuvole di fumo degne di inferi artificiali. Wimbledon è lontano un miglio, che sembrano centinaia. Grandi musiche, danze e sfilate di personaggi vip sugli spalti. Calciatori londinesi, modelle, cantanti falliti, nani, ballerine, sindaci, avventori. Tutti pazzi per il tennis e questo appening mondano. Nota a parte per un concentratissimo, sobrio ed elegante Diego Armando Maradona. Forse per comunanza di “mancinerie”, eccitatissimo per i fendenti di Nadal. Onnipresente che neanche Italo “detto Bocchino” (la battuta non è mia e nemmeno di Bombolo, ma della sempre fine e garbata nipote del Duce che siede sugli scranni del Parlamento) o di Granata dopo aver “visto la luce” come John Belushi, alias Jack Blues. Al fianco del “pibe de oro”, durante la finale, in un connubio da allertare sedici squadre narcotici, un’altra leggenda: Ron Wood, chitarrista dei Rolling Stones. Keith Richards, ormai dedito alla vita salutare e all’abituale attività di aspiratore di formiche carnivore, è rimasto a casa. Ron invece, con tanto di ventenne badante a spiegargli cosa avveniva in campo, è sembrato divertirsi un mondo. Il suo pugno agitato all’ennesima prodezza di Federer, rimane istantanea indimenticabile.
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