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sabato 11 dicembre 2010

FED CUP 2010: AZZURRE SEMPRE PADRONE

A San Diego le ragazze del tennis italiano si confermano campionesse del mondo. Orfani delle Williams e ancor più deboli per le discutibili scelte del loro capitano, gli Usa non riescono a fornire una resistenza dignitosa, malgrado il tardivo inserimento della Oudin. Le pagelle.

Francesca Schiavone: 6. Ordinaria amministrazione nel match d’esordio. Ci vuole ben altro dispetto all’impacciato prototipo di tennista Vanderweghe per impensierire una milanese che si era preparata per fronteggiare gente come Wozniacki e Clijsters in quel di Doha. L’imberbe ragazzona deambulante è facile preda dell’irsuta lupacchiotta dei campi. Basta spostarla, mettere sul campo qualche taglio della casa, che l’imponente avversaria va in confusione totale. Non capisce più nemmeno dove si trova, perché il tennis può essere così malvagio e i campi non siano una ventina di metri più lunghi. Cade imprevedibilmente contro una Melanine Oudin rispolverata per disperazione. Letteralmente presa a sapide schioppettate da un’avversaria in esaltata trance agonistica. Corre come non mai la “leonessa”, si batte e sbatte su ogni palla, ma proprio non riesce ad arginare un’americanina dalle mascelle prominenti e le gote paffute. A niente servono quelle urla sempre più agghiacciati che mi riportano a ricordi d’infanzia: Cenzino il mandriano, che alzandosi la cinghia caricava i sacchi di olive sul tre ruote, emettendo un gemito indecifrabile da cinghiale selvatico.
Flavia Pennetta: 7. Nessuno avrebbe gridato all’atto di lesa maestà in caso di esclusione dai singolari. Le ultime prestazioni e la stanchezza per i tanti match giocati, potevano anche contemplare altre scelte. Ci stava. E invece il capitano la mette in campo. Colpa del 16:9, degli antibiotici o merito del mio occhi clinici da esperto, noto subito una magrezza inquietante. Non la si vedeva così emaciata dai tempi del patimento spirituale per l’amor fedifrago di Carlos Moya. Patisce fin troppo il ritorno del caterpillar arrangiato Mattek-Sands. Diviene una maschera di sudore spettrale ed isterica. Smoccola in castigliano, gioca corto e sul ritmo paga il maggior coraggio tennistico dell’americana. Storia già vista, canovaccio di tante sconfitte stagionali dove proprio non è mai riuscita a trovare un barlume di alternativa. Sarà l’amor patrio, o per i suggerimenti arrivati dalla panca, stavolta le basta allungare colpi e scambio alzando la palla e non dando ritmo all’avversaria, per portare a casa set, match e secondo punto. A volte basta un po’ di umiltè, come diceva il maestro Arighe da Fusignano. Rasenta la perfezione invece nel decisivo match contro Coco Vanderweghe, imprevedibilmente divenuto fondamentale dopo l’inattesa caduta di Francesca Schiavone. Più serena e quasi rassicurata dagli orrori imbarazzanti e a gettito continuo della florida biondona. Prestazione lineare e decisa, contro un’avversaria onestamente ancora impresentabile a certi livelli, ma alla fine porta a casa i due punti con sicurezza.
Coco Vandeweghe: 4,5. L’arrembante immagine delle giovani scolarette yankee all’assalto della Fed Cup è tutta nella sagoma di questa pingue ragazzona di diciotto anni, crudelmente mandata allo sbaraglio. Nome a parte, non c’entra nulla quel terzino vagamente friendly di Inter e Milan, che un tempo sgroppava sulla fascia sinistra con un boa di struzzo attorno al collo. Alta, imponente e col girovita pingue di chi è nel tunnel dell’hot-dog, la povera Coco. Chissà quali drammatiche colpe deve scontare questa goffa e rudimentale teenager per esordire in una finale di Fed Cup, contro la campionessa del Roland Garros, esponendo i suoi rivoli di ciccia ad una gratuita punizione sportiva. Esperienza che potrebbe farla maturare, ma anche bloccarne la crescita definitivamente. Potente (e vorrei vedere), buoni fondamentali di discreta naturalezza e mobilità da scaldabagno. Ma proprio mai riesce a convincerci che quella con Francesca Schiavone possa somigliare ad una partita di tennis, e non ad una qualsiasi lezioncina da maestra a maldestra allieva soprappeso. Bel movimento di servizio che mi ricorda Derrick Rostagno vittima della sciatica, con gran lavoro di spalla e ideale per essere seguito a rete. Peccato che non entri quasi mai, e lo segua poche volte, come un basculante mammuth al brado pascolo. Se il tennis non contemplasse il movimento, sarebbe già competitiva. Purtroppo basta spostarla di un metro perché la florida biondina vada in tragico affanno e sparacchi pallate dementi. Una imbarazzante sequela di errori e stecche come non si vedeva dai campionati rionali di Brugherio del 1972. Figurati se quella vecchia volpe della Schiavone non ne approfitti, col minimo sforzo. Ancor più brutale ed impietosa la punizione che le riserva Flavia Pennetta nel match che regala all’Italia il titolo. Coco rimane un bel progetto di tennista. Progetto, appunto. Su cui qualcuno si divertirà a lavorare tecnicamente, con l’ausilio di un battaglione di dietologi.
Bethanie Mattek-Sands: 5. Se la giunonica teenager Coco doveva rivelarsi devastante sorpresa, Bethanie rappresentava la garanzia assoluta della nazionale stelle e strisce. Guardatela soltanto trenta secondi durante il riscaldamento, e cercate di far riaffiorare gli antichi studi della Legge di Mendel sulla classificazione delle piante. Questa qui c’entra col tennis, almeno quanto il nostro governo del “bungabunga” col decreto d’urgenza sulla sconcia prostituzione per le strade, sbuffa il mio gatto. Piccola, tarchiata, spalle larghe da scaricatrice di casse di pomodori al mercato ortofrutticolo, tatuaggi da mozzo indocinese, agghiaccianti calzettoni rossi fino al ginocchio cui mancano soltanto le giarrettiere. Il gonnellino da tozza Jane della foresta o Raffaella Carrà anni ‘80, coraggiosamente sgambato da un lato, fornisce lo stesso smarrente effetto sexy di Avaro Vitali alle prese con uno spettacolino burlesque. Un po’ Louise Ciccone anni ’80 e il resto “Susanna tutta colorata come un’aranciata” del Vasco antico, prima che le sostanze borghesi ne minassero l’ispirazione. Ma l’estetica non è tutto. Non fa una grinza. Malgrado quel violento trionfo di pacchianeria, magari Bethanie può scordarsi anni di carriera ed inventa una partita in stile Hana Mandlikova, direbbe l’ingenuo. Ed eccovi serviti. Contro Flavia Pennetta gioca un match tirato e coraggioso al limite dell’incoscienza. Sempre in forcing dal fondo, con l’imprevedibile utilizzo sistematico di smorzate atipiche e telefonate, ma efficaci per qualche ragione mistica. Schemi tanto arrischiati quanto imprevedibili, che amoreggiano con l’improvvisazione estrema, e le consentono di spaventare l’azzurra arrivando ad un punto dalla vittoria del primo set. Mezzo voto in più per il prolungato risolino ed il gesto degli occhiali rivolto alla nostra tennista, rea di aver reagito con scomposto atteggiamento persecutorio di stampo “Mouriniano”, su un servizio che l’occhio di falco conferma essere uscito di mezzo metro buono.
Melanie Oudin: 7. Follia autolesionista lasciarla fuori nei primi singolari. Scritto e pensato prima di vederla in campo nella seconda giornata. Come a volersi precludere la benché minima chance di rendere il confronto un minimo interessante. Convinzione confermata dopo averla vista annientare di giustezza Francesca Schiavone. La bionda tigrotta americana ci mette carattere, grinta e personalità da scafata veterana. Lotta senza paura e col piglio della campionessa. Malgrado i diciannove anni e risultati stagionali al limite del disastro. Qualità e gestione di situazioni delicate già messe in mostra sul campo centrale di Flushing Meadows, mica al challenger di Carson. Un torello compatto, combattente, ordinato e piacevolissimo da vedere che prende a sberle la nostra impotente numero uno. Invano il cantore italico prova una macuba grottesca: “Arriverà il braccetto (si, ha detto braccetto) della Oudin?”, e quella prosegue come un bulldog. Gioca un match di spavalda autorità. Precisa, ordinata, con profondità di palla ed accelerazioni intelligenti nei pressi delle righe. Riapre l’intero confronto. E contribuisce solo ad aumentare i rimpianti americani per la scelta dissennata di lasciarla fuori nei primi due match, perché contro una Pennetta non al meglio avrebbe detto la sua.
Mary Jo Fernandez: 4,5. Non è colpa sua se le sorelle Williams sono infortunate e considerano la competizione come un petulante fastidio che mal si concilia con lo shopping novembrino. O che alle spalle delle due ex carnefici d’ebano il tennis statunitense offra un vuoto assordante fatto di giovinette di belle ed inespresse speranze. Ma le scelte di Mary Jo destano sconcerto. Per rompere il ghiaccio sceglie l’acerba mela annurca obesa Vanderweghe ed il botolo Mattek-Sands, invece della più navigata Melanie Oudin. Preferisce l’ipotetica e futuribile forza esplosiva della giovane Coco alla maggior esperienza, carattere e spavalderia dell’ancorché diciannovenne ragazza nativa di Marietta. Forse nemmeno Platinette avrebbe commesso una simile topica.
Corrado Barazzutti: 7. L’ombra della Pennetta che va ad un punto dal perdere il primo set, sembra screditare la sua rischiosa scelta conservativa. Ma alla fine l’esperienza consolidata della formazione tipo, gli dà pienamente ragione. Ma grado il momentaneo brivido che procura Melanine Oudin. Sulla panca, sembrano lontani i giorni da muto di Sorrento, quando osservava le partite con lo stesso animo del pensatore intimista che scruta le onde dell’oceano e pensa a cosa mangerà per cena. Se cavoletti di Bruxelles o timballo di carne. Si agita, urla, sbraita e fornisce vincenti consigli ad una Pennetta in fase di smarrimento. E porta a casa un altro titolo.
Il contorno: Inizia tutto con gli inni nazionali. Le carni che si “arrizzano” ascoltando Fratelli d’italia probabilmente cantato da una concorrente dell’xfactor americano appena operata di adenoidi. Ce ne sarebbe già abbastanza per andare a dormire o puntarsi il termometro alle tempie. A San Diego narrano di equatoriali temperature oltre i trenta gradi. All’interno del palazzetto, le ragazze sudano come i cavalli del palio di Siena, boccheggiano neanche fossero in una sauna-forno thailandese. Ma secondo l’acuto commentatore, c’è un clima ideale. Per guardare la partita e piluccare i pop-corn, senza dubbio. Un po’ di aggiuntiva insofferenza mi coglie dopo il primo piano di un esagitato all’angolo delle azzurre. Inveisce con gli occhi fuori dalle orbite contro il giudice di linea colpevole, il miserando, di aver chiamato fuori una pallina che era fuori di mezzo metro. Ed il “pecoreccismo” pallonaro che ancora una volta s’impadronisce di questo sport. L’idea di chiedere asilo politico al Buthan comincia a balenare solo quando i commentatori patriottici iniziano a cianciare a sproposito e senza sosta. Un eloquio follemente logorroico. Ipotizzare che l’anchorman abbia col tennis minor confidenza di quanta ne hanno verso la politica alcune ministresse che si agitano scomposte nei salotti tv, non mi pare azzardato. Come a volersi inventare una competizione che non c’è, ci narrano di quanto siano stati provinciali gli americani nell’organizzazione del match. Con lo sgarbo di fornire alle azzurre un volgare pulmino per gli spostamenti. Laddove a Reggio Calabria le nostre avversarie avevano beneficiato di sei macchine (dicasi sei. Non lo esplicitano, ma pare fossero di lusso. Probabilmente coi sedili in pelle di serpente). Che provinciali questi americani, al confronto della grandeur italiana. Mi dirigo su uno streaming esotico e piratesco, prima di poter udire altre perle alimentarsi a valanga. Ad esempio, l’infima levatura dello statista Obama, che non mette a disposizione scorte ed auto blu per le sue veline.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.