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sabato 11 dicembre 2010

PARIGI BERCY 2010: TRA LE MACERIE DEI BIG SPUNTA ROBIN

Il Masters 1000 di Parigi-Bercy ha riservato moltesorprese. Un Soderling in forma da cecchino marcia sulle macerie dei grandi favoriti in disarmo. Monfils irriducibile combattente e Llodra piccolo monumento artistico vivente
Parigi (Francia) – Soderling torna implacabile killer seriale, i francesi si esaltano in vista della Davis. Un torneo ricco di emozioni, sfide divertenti e grandi battaglie all’ultimo artiglio, malgrado i big cadano come le foglie d’autunno. Alla fine la spunta Robin Soderling, tornato ad un livello di ispirata forma demolente dopo qualche apparizione appannatamente miope. Lo svedese si conferma numero cinque credibile delle classifiche, alle spalle dei “fantastici quattro dell’apocalisse”, in fase di autunnale stanca. Gran prova del disturbato boscaiolo che imbracciata l’antico strumento rudimentale fa suo il primo Masters 1000 della carriera. Fa fuori in sicurezza Roddick ed emerge nella meravigliosa semifinale thrilling contro Llodra. Grazie ad insospettabile calma olimpica da campione. O per semplice casualità. Senza storia la finale in cui sgretola senza molti fronzoli il muro Gael Monfils, stremato ed fiaccato dalle battaglie dei giorni precedenti. Il dinoccolato transalpino delle colonie si esalta davanti al suo pubblico. Da sempre. Lo infiamma grazie ad un tennis disumano, forzuto ed esasperante come quel pugno che batte sul petto con gli occhi fuori dalle orbite. Si giocasse solo sul suolo francese, questo ragazzone sgraziato coi muscoli esplosivi e vestito come un giocatore di cricket acrobatico, sarebbe top ten fisso. Tennista irriducibile, che non muore mai. In due giorni manda al manicomio Murray ed ha la giusta personalità per superare Roger Federer allo sprint. Aspettando sapidamente il suicidio dell’ex monarca.
Se Monfils rappresentava già una sicurezza graniticamente sghemba per la nazionale di Davis francese in vista della finale, la vera lieta novella per i transalpini arriva da quel piccolo monumento artistico vivente che risponde al nome di Michael Llodra. Il mancino d’oltralpe da almeno quattro anni appare già vecchio. Per quell’acconciatura da Tyron Power ed un tennis vintage che concilia col bianco e nero del video. Uno sbuffo di spuma di mare, improvviso ed ispirato. Ed ecco il festival di servizi mancini diabolici, serve&volley conpulsivo, tocchi deliziosi come piccole gemme preziose, balzi e allunghi in prossimità della rete. E poi ancora rovesci classicheggianti e piatti, che partono lungolinea come saette fulminati. Il tennis del trentenne francese è assoluta bellezza disarmante che accarezza lo spirito. In pochi giorni riesce ad affettare con grazia inusitata Novak Djokovic e Nikolay Davydenko. Svolazza e volteggia, arrendendosi solo dopo un’epica battaglia alle schioppettate tremende del cacciatore disturbato Robin Soderling. Annesso tentativo di rimonta commovente quando ormai sembrava azzoppato e ferito a morte. Rimangono comunque le sue pennellate artistiche. Finché dura, e bando alle malinconie. Poi dovremo esaltarci con le volée da maniscalco di Troicki o le folli corse di Monfils.
Campioni con le energie al lumicino. Il numero uno del mondo Rafael Nadal s’era tirato fuori, complice un fastidio alla schiena ed il logorio di una stagione corsa al massimo dei giri. Tra i magnifici quattro del tennis mondiale, l’unico a tenere ancora alto un vessillo spiegazzato dall’usura stagionale è, manco a dirlo, Roger Federer. Le vittorie a Stoccolma e Basilea sono state utili per riprendere confidenza e forma agonistica. A Parigi si produce in una serie di autoritarie ed ammalianti esibizioni per abbattere dei graziosi cerbiatti morti: Prima l’insofferente a se stesso Gasquet, poi il vecchio scafandro volleante Stepanek, finendo per frustrare le ultime folli velleità di qualificazione per il Masters di Melzer. Poi eccolo piombare nella buia crisi esistenziale di qualche punto fatale. Come svago mentale che somiglia a suicidio. Ammorbato e trascinato nelle spire esasperanti di un Monfils orridamente esaltato. Nell’avvincente gorgo della lotta. Quando sembra esserne uscito è nuovamente rigettato nella battaglia furibonda, prima di cedere. Non prima d’aver bistrattato quattro palle per chiudere il match. Quella di Parigi è l’ennesima sconfitta stagionale patita in volata. Tutte battaglie che conclude continuando a volteggiare con lascivia protervia stilosa sulla lama affilata di un tennis tanto bello, quanto rischioso. Quando al regolare passista dovrebbe prevale lo sprinter, chi ha più colpi vincenti e guizzo da campione. Certo, se non si cappotta sul traguardo. Federer soffre i grandi difensori. Prima era Nadal, ora è Murray o persino Monfils. Ma a Londra sarà ancora lì, pronto a giocarsi l’ultimo grande trofeo stagionale.
A proposito del leggiadro cavaliere di Scozia Andy Murray, nella capitale francese offre il meglio della sua essenza urticante, tra candore ed abominio. Trionfo e suicidio. Si trascina come un cencio, una nuvola di borotalco, piacevole e fastidiosa. I bookmaker ormai quotano il suo svenimento finale: Esalerà l’ultimo “c’mon”, quello finale, al quinto o al sesto game del terzo set? E le quote sono anche piuttosto basse. Poi incanta con un angolo accarezzato e un lob al bacio. Riesce a tirarsi fuori di una situazione complicata, disorientando la talentuosa adipe semovente Nalbandian grazie all’improvviso serve&volley. Doma alla distanza un Cilic apparentemente recuperato alla vita, prima di abbandonarsi al mortale oblio suicida contro Monfils. Simpaticamente contagioso e gradevole quanto un’unghia strappata senza anestesia, si becca anche qualche salva di fischi dal pubblico francese, notoriamente avvezzo alle “pernacchiette” piccate. Lui non fa una piega, anzi mostra persino una specie di smorfia che somiglia ad un sorriso raggelante. Un’immagine che custodirò a lungo nel mio animo scellerato. Vi lascio il mio testamento biologico, che come quello progettato dal partito di Lele Mora, non servirà a niente: Se un giorno dovessi tifare Murray, vi scongiuro, uccidetemi. Fate qualcosa, fermatemi. Chiamate a rinforzo una specie di ex vice intendente caporedattore con le noccioline scadute nel cervello. Potrei parlargli di Proust ed ello, con la faccia da roditore saccente, si metterà a blaterare del pilota di Formula 1. Ma vi prego, ponete fine al mio strazio delirante. Se Atene piange, Sparta non ride. (Questa l’ho vilmente copiata da uno molto bravo che ha fatto carriera). Novak Djokovic, l’altro esponente dell’élite tennistica, si copre di ridicolo. Sembra già esaurita quella vis feroce che aveva irrorato le sue vene sui campi di New York. Lontano da inutili fronzoli d’avanspettacolo si era dimostrato tennista vero. A Parigi, convintissimo d’esser assai simpatico, si presenta in campo addobbato come Groucho Marx. Di più imbarazzante si ricorda solo Pippo Franco travestito da Alba Parietti. Quale delirio submentale può far risultare divertente un simile teatrino? Il suo, certamente. Sul campo, poi, a divertire inebriando una platea in estatica ammirazione (patriottica ed apolide) è Michael Llodra, che lo trincia finemente, svolazzando sul confine della irrisione sportiva. A tratti sembra di rivedere il primi due set e mezzo di McEnroe-Lendl nella finale di Parigi 1984. Con Lendl versione giullare per contratto e tenuta da adepto di qualche setta demoniaca.
La volata per Londra, una moviola zoppa. Parigi Bercy rappresentava l’ultima occasione per strappare un biglietto low cost per il Masters di Londra. Non ci è voluto molto a Thomas Berdych per ottenere il matematico pass, malgrado l’ennesima esibizione da shock anafilattico degli ultimi mesi. Contro un encomiabile Davydenko alle corde che esalava commoventi urletti di sofferenza, neanche fosse l’ospite di un ospizio di povertà costretto a fare le flessioni, il ceco riesce nell’impresa monumentale: gettare tutto via nel tie-break del secondo set. Dimostrando, una volta di più, quanto abbia l’intelligenza tennistica di un’erba cipollina. Seccata al sole. Minimo sindacale anche per Andy Roddick e David Ferrer. All’americano, reduce da un tormentoso periodo segnato dalla mononucleosi, basta approdare ai quarti, prima di arrendersi alla roncola selvaggia di Soderling. Suo scalpo maggiore è stato Ernests Gulbis, per dire. Del lettone rimangono alcune delle cose più belle di un torneo comunque tecnicamente apprezzabile: l’incoscienza follemente geniale di due o tre punti giocati nel tie-break del secondo set. Poi, normalmente, perso. Ma al Masters di Londra 2012 ha già prenotato l’albergo. Poi dovrà disdirlo come ha fatto Bolelli negli ultimi anni, e pazienza. Lo spagnolo Ferrer, reduce dalla vittoria di Valencia, continua a zappare incurante verso la City, sul cemento come sulla terra, prima di cedere a Melzer negli ottavi. Nel 1990 non avrebbe passato due turni di fila in un torneo indoor nemmeno nei suoi sogni più dolci. Con la sua bella vanga, e volitiva mascella serrata, sarà della competizione. Anche perché gli altri la zappa se la tirano sui piedi.
I valorosi incompiuti, il braccio e la mente. Avercela, una mente. Si presentavano come due imprese disperate, al limite della folle utopia. Ben si sarebbero sposati con lo stordente effluvio ed olezzo di fiori di lillà respirato in questi giorni di liberazione: Misha Youzhny e Jurgen Melzer, entrambi in corsa per un posto al Masters di fine anno. A braccetto. Sorridenti, col pollice in bocca, gli occhi pazzi ed un imbuto sul cranio. La loro, purtroppo, rimane solo utopia. Il russo si abbandona al destino di un fisico tarchiato ed estremamente fragile, da tornellista in mutua malattia. Divelto da Ernests Gulbis prima di alzare bandiera bianca e ritirarsi. Da oltre un anno è però su livelli inimmaginabili. Al limite del miracolo ancestrale per quel braccione che vaga e vive di vita propria, bistrattato da una mente labile ed un fisico rattoppato alla meglio. Ancor più incredibile era l’ipotesi Melzer a Londra. Qualcosa che raccontata in giro dodici mesi fa, qualcuno avrebbe riso in modo isterico. Il mancino austriaco ha subìto la prodigiosa mutazione. Da impalpabile giocoliere suicida che fa il gioco delle tre biglie e muore ingoiandole, a valoroso topo 15 che vince tornei e come una scimmietta dispettosa schianta gente del calibro di Djokovic e Nadal. A Parigi doveva riuscirgli l’ultimo miracolo, vincere il torneo e staccare il biglietto per la City. E’ bloccato nei quarti da Roger Federer, non prima d’aver infilzato a suon di fiammeggianti rasoiate mancine David Ferrer. Uno che al Masters ci andrà. Jurgen ci proverà il prossimo anno. Del resto, “Bolelli e Seppi dovrebbero imparare dai vari Melzer, Llodra, Kohlschreiber. Gente senza lo stesso talento dei nostri, ma con un grande carattere.”. Chi scrisse questa gemma, pare, sia ancora a piede libero.
Gli ultimi fuochi dell’arrembante Italtennis. Simone Bolelli conclude la sua marcia nel challenger di Ortisei contro Lucas Lacko, in semifinale. Mestamente fedele a quello che è il suo attuale valore. Dategli tempo, ci vuole pazienza. Qualche settimana fa subivo un ferocissimo attacco, con tanto di missiva al vetriolo, per aver azzardato che Fabio Fognini, pur con i suoi limiti, è l’unico italiano a fornire barlumi di speranza per un futuro a buoni livelli. Voglio dire, per una volta che spendevo parole buone verso qualcuno… Il ragazzo ha buona facilità di colpi su gambe rigide e buona fase difensiva. Qualcosa c’è, insomma. Reduce dalla surreale tournée sulla cordigliera andina, anche a Bercy si dimostra tennista che non ha paura di confrontarsi nei tornei che contano. Supera le qualificazioni, batte in volata il cinghialone tedesco Berrer, e sfiora la piccola-grande impresa di superare Ferrer. Cade solo a qualche centimetro dal traguardo. L’esondante ego, che amoreggia con la spocchia incurante, ne agevola le evoluzioni contro avversari di rango. Scatena invece un contagioso senso del ridicolo nelle tante sciagurate sconfitte con avversari di livello inferiore al suo. I grandi geni zoppicano nelle cose semplici perché anelano la grandezza, s’esaltano con essa. Ve lo immaginate Rembrandt che disegna una “o” col bicchiere o Bukowski alle prese con le domande esistenziali di Marzullo? Il problema è che il nostro non è un genio. Per niente. Ma è così, prendere o lasciare. Con la modestia di Seppi e Starace non si ha nemmeno quella speranza dell’imprevedibile.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.