.

.

martedì 15 maggio 2012

DUE ANNI DOPO...



DAL VOSTRO INVIATO. NELLA TOMBA DI DE PEDIS

“….le silohuettes consuete di parvenze…e i desideri di fragili esistenze”, cantava il poeta Guccini tra una sorsata al rosso saggio e l’altra. Nell’iniziale scorcio degli Internazionali d’Italia in una Roma avvolta dall’orrenda spirale di freddo invernale e vento antartico, sono quei versi a saltare alla mente. Vedi immagini e parvenze di tenniste ormai ridotte ad impalpabili spettri di quello che fu. Mica quarant’anni fa, tra racchette di legno, merlettati gonnellini svolazzati ed immagini in bianco e nero, ma solo due stagioni orsono. In quella estate del 2010 che nel tennis al femminile vide una inspiegabile esplosione di catartica genialità. Vincente, per una volta. 
Ne scrissi per un giornale che probabilmente nemmeno esiste più, o forse non è mai esistito. Come dimenticare i volleanti guizzi e le alate palombelle di Maria José Martinez Sanchez in un Foro incredulo ed estasiato. O la prodigiosa cavalcata parigina di Schiavone, esaltata trionfatrice sui Campi Elisi. A completare quella triade d’inattese epifanie, pur senza la stessa dose di genio imprevedibile, le scoppiettanti tracas della franco-iraniana Aravane Rezai, dominatrice assoluta sulla ancora rossa terra madrilena. Pensare a quei tempi vicini e così tremendamente lontani, mette una gelida tristezza interiore, che nemmeno le giubbe a vento degli spettatori intirizziti riusciranno a riscaldare.

Le abortite foglie di Maria Josè. Atrocemente ammazzate. Inutile anche parlare della povera Aravane Rezai, nemmeno presente a Roma e ormai sprofondata negli abissi delle classifiche per i soliti, vigliacchi, problemi familiari. Il catacombale revival è iniziato dalla mancina spagnola Maria Josè Martinez Sanchez, su un campo circondato da tribune oscenamente vuote, tra folate di vento e rumori di tralicci metallici sul punto d’esser divelti dalla furia del vento. Quali possibilità avrebbe una Maria José ancora fisicamente malconcia, di far prevalere le sue delicate parabole ancestrali contro i comodini volanti della bruna orca di Svezia, Arvidsson? Poche. E quante ne ha, nel centro di quella tormenta raggelante? Nessuna. Qualche piccolo spiraglio legato ad un vento che drogato di bellezza, si decida a dirigere dall’alto i colpi della spagnola, madre badessa del serve&volley e della compulsiva smorzata in risposta.
Inferma e perennemente acciaccata, l’iberica s’affloscia come un fantoccio svuotato. Qualche utopico tentativo, tra boccoli che il vento malvagio spinge lontano, o annega nella rete. Assisto agli ultimi games, simili a brutale via crucis. La mancina farfalletta volleante pare uno spelacchiato cigno che rischia di annegare. Si dibatte ferita nelle agitate acque di uno stagno violentato da orrende folate. E poi colpito a morte dalle clamorose roncole del donnone svedese, una curiosa virago che imbraccia la mortale mannaia. Badilate, sulle quali si infrangono mestamente i riccioli di quella che una volta fu una meravigliosa ancora di bellezza tennistica.

Schiavone cede mestamente, tra le pacchianerie partigiane. Pochi scambi, quelli che bastano ad una mente chiaramente superiore come la mia, per capire come l’italiana difficilmente metterà in cascina più di sei games. Alla fine ne porterà a casa sette, ma poco cambia. Al centro dell'artica tormenta, è la solita Schiavone degli ultimi tempi. Ancorata dietro la riga e costretta ad urlate corse strappa tonsille, da un lato all’altro del rettangolo. Tutto inutile se il martello di turno non perde la trebisonda cammin facendo, ma conclude con lucidità. E la mancina russa Makarova mena le danze di gran lena, senza patire smarrimenti. Scenario classico, ormai stucchevole. La nostra che alza il solito frullone carico di presunta malignità, e l’altra beneficia del giusto assist per il piatto fendente. Pesta, ringrazia e se ne va. Nessuno leverà a Schiavone quel memorabile titolo parigino, ma l’attuale controfigura somiglia ad una tennistica tregenda che cammina, rassegnata a crudele mattanza nella tonnara argillosa per mano di avversarie assassine. Le stesse che una volta imbrigliava come fossero tonte mosche, violente ed accecate, nella sua arzigogolata rete di colpi vari, ricchi premi e cotillons a sorpresa.

E i pietosi portantini, con la loro lettiga di farneticanti bugie bianche, ci rasserenano. Innegabile.  I cronisti della tv federale sembrano composti portantini del “fatebenefratelli” improvvisatisi al commento tecnico. Encomiabili, paterni e fantasiosi nel provare a tirarci su di morale. Francesca, per loro, ha giocato assai bene. Meglio addirittura della russa. E mica hanno tutti i torti, a ben vedere. Pensate a quel 48enne quintale di divino talento tennistico rispondente al nome di Henri Leconte. Immaginatelo opposto a Djokovic. Giocherebbe meglio, senza alcun dubbio. Ma da lì a vincere un game, ce ne passerebbe.  O, se vogliamo tornare nel terreno dei non ancora ufficialmente pustumi, guardatevi l'immenso talento (in)fermo di Malisse. Darebbe al serbo o a Rafinho, dotte lezioni di tennistico genio, come al primo giorno di una fantomatica scuola di creatività "racchettara". Ma difficilmente eviterebbe truculente badilate nelle gengive, o nel pingue ventre. 
Quindi uno dei portantini, in previsione di un crollo in classifica delle nostra tennista, tende a drammatizzare con un guizzo degno di nota. E che sarà mai. Essere numero 4 o numero 35, cambia poco. Quasi quasi vien da dargli ragione, non fosse una bieca imitazione di Emilio Fede in salsa tennistica, nell’atto di piantare le bandierine elettorali. Poco male. Laddove vi è potere, ci sarà sempre un Minzolini o un Ferrara, incurante delle becere evidenze. Nella politica, come nello sport.


2 commenti:

  1. eppure quella domenica io ho visto e quel giorno il mondo sembrava capovolto. ho visto più smorzate in quella partita che in tutta la mia vita.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Pier Paolo,
      eh sì, sembrava diretta da forze superiori ed irrazionali. Per una volta il mondo girò all'incontrario.

      Elimina


Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.