DAL VOSTRO INVIATO.
NELLA TOMBA DI DE PEDIS
“….le silohuettes consuete di parvenze…e
i desideri di fragili esistenze”, cantava
il poeta Guccini tra una sorsata al rosso saggio e l’altra. Nell’iniziale
scorcio degli Internazionali d’Italia in una Roma avvolta dall’orrenda spirale
di freddo invernale e vento antartico, sono quei versi a saltare alla mente.
Vedi immagini e parvenze di tenniste ormai ridotte ad impalpabili spettri di
quello che fu. Mica quarant’anni fa, tra racchette di legno, merlettati gonnellini
svolazzati ed immagini in bianco e nero, ma solo due stagioni orsono. In quella estate del 2010 che nel tennis al
femminile vide una inspiegabile esplosione di catartica genialità. Vincente,
per una volta.
Ne scrissi per un giornale che probabilmente nemmeno esiste più,
o forse non è mai esistito. Come dimenticare i volleanti guizzi e le alate palombelle
di Maria José Martinez Sanchez in un Foro incredulo ed estasiato. O la
prodigiosa cavalcata parigina di Schiavone, esaltata trionfatrice sui Campi
Elisi. A completare quella triade d’inattese epifanie, pur senza la stessa dose
di genio imprevedibile, le scoppiettanti tracas della franco-iraniana Aravane Rezai,
dominatrice assoluta sulla ancora rossa terra madrilena. Pensare a quei tempi
vicini e così tremendamente lontani, mette una gelida tristezza interiore, che
nemmeno le giubbe a vento degli spettatori intirizziti riusciranno a riscaldare.
Le abortite foglie di Maria Josè.
Atrocemente ammazzate. Inutile
anche parlare della povera Aravane Rezai, nemmeno presente a Roma e ormai
sprofondata negli abissi delle classifiche per i soliti, vigliacchi, problemi
familiari. Il catacombale revival è iniziato dalla mancina spagnola Maria Josè
Martinez Sanchez, su un campo circondato da tribune oscenamente vuote, tra folate di vento e rumori
di tralicci metallici sul punto d’esser divelti dalla furia del vento. Quali
possibilità avrebbe una Maria José ancora fisicamente malconcia, di far prevalere
le sue delicate parabole ancestrali contro i comodini volanti della bruna orca di
Svezia, Arvidsson? Poche. E quante ne ha, nel centro di quella tormenta
raggelante? Nessuna. Qualche piccolo spiraglio legato ad un vento che drogato
di bellezza, si decida a dirigere dall’alto i colpi della spagnola, madre
badessa del serve&volley e della compulsiva smorzata in risposta.
Inferma e
perennemente acciaccata, l’iberica s’affloscia come un fantoccio svuotato. Qualche
utopico tentativo, tra boccoli che il vento malvagio spinge lontano, o annega
nella rete. Assisto agli ultimi games, simili a brutale via crucis. La mancina farfalletta
volleante pare uno spelacchiato cigno che rischia di annegare. Si dibatte ferita nelle agitate
acque di uno stagno violentato da orrende folate. E poi colpito a morte dalle
clamorose roncole del donnone svedese, una curiosa virago che imbraccia la
mortale mannaia. Badilate, sulle quali si infrangono mestamente i riccioli di
quella che una volta fu una meravigliosa ancora di bellezza tennistica.
Schiavone cede mestamente, tra le
pacchianerie partigiane. Pochi scambi, quelli che bastano ad una mente chiaramente
superiore come la mia, per capire come l’italiana difficilmente metterà in
cascina più di sei games. Alla fine ne porterà a casa sette, ma poco cambia. Al centro dell'artica tormenta, è la solita Schiavone degli ultimi tempi. Ancorata
dietro la riga e costretta ad urlate corse
strappa tonsille, da un lato all’altro del rettangolo. Tutto inutile se il
martello di turno non perde la trebisonda cammin facendo, ma conclude con
lucidità. E la mancina russa Makarova mena le danze di gran lena, senza patire
smarrimenti. Scenario classico, ormai stucchevole. La nostra che alza il solito
frullone carico di presunta malignità, e l’altra beneficia del giusto assist per
il piatto fendente. Pesta, ringrazia e se ne va. Nessuno leverà a Schiavone
quel memorabile titolo parigino, ma l’attuale controfigura somiglia ad una
tennistica tregenda che cammina, rassegnata a crudele mattanza nella tonnara
argillosa per mano di avversarie assassine. Le stesse che una volta imbrigliava
come fossero tonte mosche, violente ed accecate, nella sua arzigogolata rete di
colpi vari, ricchi premi e cotillons a sorpresa.
E i pietosi portantini, con la loro
lettiga di farneticanti bugie bianche, ci rasserenano. Innegabile. I cronisti della tv federale sembrano
composti portantini del “fatebenefratelli” improvvisatisi al commento tecnico.
Encomiabili, paterni e fantasiosi nel provare a tirarci su di morale.
Francesca, per loro, ha giocato assai bene. Meglio addirittura della russa. E
mica hanno tutti i torti, a ben vedere. Pensate a quel 48enne quintale di
divino talento tennistico rispondente al nome di Henri Leconte. Immaginatelo opposto
a Djokovic. Giocherebbe meglio, senza alcun dubbio. Ma da lì a vincere un game,
ce ne passerebbe. O, se vogliamo tornare
nel terreno dei non ancora ufficialmente pustumi, guardatevi l'immenso
talento (in)fermo di Malisse. Darebbe al serbo o a Rafinho, dotte lezioni di
tennistico genio, come al primo giorno di una fantomatica scuola di creatività "racchettara". Ma difficilmente eviterebbe truculente badilate nelle gengive, o
nel pingue ventre.
Quindi uno dei portantini, in previsione di un crollo in
classifica delle nostra tennista, tende a drammatizzare con un guizzo degno di
nota. E che sarà mai. Essere numero 4 o numero 35, cambia poco. Quasi quasi vien da dargli ragione, non fosse una bieca imitazione di Emilio Fede in salsa
tennistica, nell’atto di piantare le bandierine elettorali. Poco male. Laddove
vi è potere, ci sarà sempre un Minzolini o un Ferrara, incurante delle becere
evidenze. Nella politica, come nello sport.
eppure quella domenica io ho visto e quel giorno il mondo sembrava capovolto. ho visto più smorzate in quella partita che in tutta la mia vita.
RispondiEliminaCiao Pier Paolo,
Eliminaeh sì, sembrava diretta da forze superiori ed irrazionali. Per una volta il mondo girò all'incontrario.