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mercoledì 30 settembre 2009

Safin e Petzschner, quel mistero buffo ed insondabile chiamato mente




La partita più bella degli ultimi duecentotrenta anni, o l'esemplificazione della teoria dell'autodistruzione involontaria, applicata al tennis. Bangkok, tra atmosfere speziate e temperature soffocanti, era il proscenio giusto. Esotico, nascosto ma non troppo. Marat Safin, il primo caso di campione per caso, quasi costretto e ingabbiato da un talento maledetto. Uno che nella vita poteva fare tutto, probabilmente anche vagare su bighe thailandesi, sventolato da due schiavetti gnomi. Di fronte a lui Philipp Petzschner, surreale pittore imprestato al tennis, per regalarci quadri di disarmante bellezza, o volgari scarabocchi. Sempre in bilico tra il capolavoro e l'abominio. Che cammina indifferente su quel filo invisibile che li separa. Storie di eclissi a confronto. Il gigante russo simile ad un abbagliante sole iracondo, vinse un paio di slam con indolenza, in mezzo ad intermittenze violente, scazzottate notturne esibite sul campo e celebrate con orgoglio impettito: “E' stata una bella lotta, ma ho vinto io.”. Ed il Picasso lunare, con la faccia aggrovigliata, i tratti spaventosi e pasticciati, che uno slam invece non lo vincerà mai, finché non costruiranno campi rarefatti sulla luna ed i tennisti avranno un'ampolla e delle antennine panoramiche in testa.
Il russo che a ventinove anni si sente stanco e vecchio per quel volgare divertissement chiamato tennis, dato in pasto al popolino annaspante e disperato. E il tedesco che a venticinque vuole provare a fare il mestiere del tennista, di quelli strani che vincono persino qualche partita, e si ostina a non accettare un destino da apprendista venditore di lampadine fulminate. Un dispetto irridente alle divinità che lo baciarono, di fronte a un pasticcio divino inestricabile. Il ricordo di una fluida potenza cristallina come acqua di cascate impetuose, opposto al vellutato gioco di fioretto estroso, come tanti sprazzi geniali. E la finisco qui. Intendiamoci, sullo stesso campo. Gelido o scottante.
Tempo addietro ebbi la ventura di essere assunto tre mesi (senza proroghe), come efficientissimo selezionatore del personale. Per assolvere quel compito di grande responsabilità mi impartirono degli erudimenti di psicologia sommaria. Qualcosa in più delle verità nascoste nei baci perugina. Oggi come non mai, rifletto su quanto inutili furono quelle ore di approfondimento. Ore ed ore di ciance incomprensibili, impartite da un tizio attempato, simile a uno strizzacervelli uscito da una puntata di Porta a Porta sul delitto di Cogne. Definizioni e lucidi a go-go, quando avrebbe reso tutto più agevole, proiettando l'incontro Safin-Petzschner, con un semplice sottotitolo: “Quel mistero buffo ed insondabile chiamato mente.”
Si comincia, e Marat ha la faccia di chi sta concedendo qualcosa per pietà, nell'ultima fase di una carriera da scenico tennista-wrestler. Quei due smidollati che ancora speravano a una violenta fiammata di antichi fasti negli ultimi slam, sono rimasti delusi. Rimangono quattro o cinque tornei, più o meno importanti, simili a fiammelle di una pazzia rassegnata. Picasso prende a sgambettare, tutto storto e col passo palmato, dentro la sua bella maglietta della salute accollata, mutandoni larghi e i proverbiali calzini neri. Nello sguardo la fissità tipica di chi ha in mente grandi cose, o il niente assoluto. Immensità misconosciute agli umani, o una distesa di margherite selvatiche scosse da una brezza di nulla.
E il match non tradisce le attese. Si palpa lo stesso agonismo di un tresette all'ultimo sangue tra due due indomite vecchine. Comincia Marat in versione sfiammeggiante e poderosa, lo stesso visto nel primo set a Flushing Meadows contro Melzer. E si che Petzschner è più forte di Melzer. Tutti sono più forti di Melzer. Ormai Marat regge mentalmente la pressione sportiva solo per trenta minuti, questa sensazione s'insinua lenta. E infatti mezz'ora basta a un russo ispirato, per dominare il palcoscenico, accompagnato da stiduli gridolini orientaleggianti. Picasso deambula impotente e spaesato. Non sa cosa fare, come arginare il tornado. Lui che ha già una tempesta di vento ad avvolgergli cervello. Sbaglia tutto, e quando il ricamino gli riesce, Marat lo spazzola come polvere petulante: 6-2 in carrozza, o sulla biga. Con nerbate possenti sul povero pittore-imbianchino, versione schiavetto trottante. Tutto troppo semplice e lineare. Ma non può certo essere una partita “normale”. E infatti, puntuale come un orologio svizzero, Marat s'annebbia, s'incarta. Comincia a gonfiarsi la vena della follia iraconda, negli ultimi tempi trasformata in vena della rassegnazione. Il segnale lampante è il servizio che non entra più, e i volatoni in controbalzo che muoiono tristemente schizoidi a rete. E lui ottuso, sparacchia velocemente bombarde a vanvera, come a gettare via tutto. Picasso spalanca gli occhi orrendi, si rianima, si agita tutto come un serpentello alterato. Comincia a mettere dentro qualche goduriosa saetta pennellata delle sue, smorzate candide. Inizia ad esaltarsi e saltellare come un crotalo danzante, e vince il secondo 6-3.
Niente di strano, l'inerzia della partita che cambia. Succede. Ma non può certo finire così. Picasso è un satellite in perenne cortocircuito. Ritorna uno spiritello con lo sguardo morto. L'espressione assente a se stesso di chi si strugge domandandosi chi diavolo lo abbia calamitato sul campo. Spara qualche doppio fallo, scentra dritti in piccionaia e s'avvia rapidamente nei paraggi delle sue galassie sconclusionate. E Marat che non chiedeva molto altro che una doccia refrigerante, si ritrova avanti 4-1 in un baleno. Lo guardi un attimo, e capisci come probabilmente non sappia nemmeno il risultato. Che gli importa. Ebbene, nella sua carriera è successo anche quello: aver vinto una partita senza accorgersene, con l'arbitro che gli ripete "gioco-partita-incontro Safin". E lui, “toh, ma sono io Safin!”. Ora spara gancioni ad occhi chiusi e mente spenta, e rovesci fluidi che non fai in tempo nemmeno a veder partire. Investono inesorabilmente il pittore, in versione pupazzetto delle giostre. E il russo proprio non può fare a meno di vincere, chiudendo 6-2 3-6 6-1.
Ci voleva il Picasso scasso versione Babbo Natale. Solo qualche giorno fa, per un altro scherzo del sorteggio, un altro suo suicidio aveva rianimato la stellina in disarmo di Richard Gasquet. Petzschner nuovo missionario svitato d'autunno, benefattore di menti disagiate. Avrà trovato uno scopo nella vita. Marat Safin, che nell'anno di commiato ha regalato vittorie ai più turpi personaggi del circuito, lo guarda con vaga commiserazione. Quasi sorpreso di una vittoria se non involontaria, almeno imprevista, saluta il pubblico strepitante. Progetta la nottata e sembra chiedersi: “E adesso, invece di due giorni in spiaggia, mi fanno pure giocare il secondo turno? E' obbligatorio?”. Picasso non ne combina una buona, e sgambetta via. Pronto ad una serata danzante sulle note de “La bella addormentata” di Tchaikovsky, dopo aver raccolto cannolicchi selvatici nelle risaie thailandesi.

lunedì 28 settembre 2009

KIMIKO DATE, LA FIABA DELLA PICCOLA SAMURAI



I grandi sogni si realizzano in uggiose nottalbe settembrine. E pazienza se in Corea è un afoso ed umido pomeriggio. A metà tra una fiaba romantica, rivestita da un alone magico, ed una missione samurai, da compiere con animo puro. La piccola Kimiko Date ce l'ha fatta a portare in fondo la sua storia, dal vago sapore antico. In quel di Seul, a 39anni, diviene la seconda tennista più anziana ad aver vinto un torneo del circuito maggiore. Superata di qualche mese, solo dal monumento Billie Jean King.
Sorpresa, certo, per tutta una serie di motivi, che trascendono le banali considerazioni tecniche, le beghe dei numeri uno, ed altre ovvietà. Inattesa e affascinante, perchè arrivata dopo tredici anni di lontananza dal tennis, e con un rientro sui generis, fatto di piccoli tornei in patria ed estemporanei tentativi negli slam, che non lasciava intendere potesse sfociare addirittura nella parola vittoria. Perchè in una settimana, l'ardimentosa formichina nipponica, mette in riga cinque avversarie tra le prime al mondo, tre della quali addirittura tra le prime venti, di quelle un gradino immediatamente inferiore alle super top. Le batte dopo estenuanti battaglie rivestite di una leggerezza indomabile. Che non è necessariamente un controsenso.
Mette a nudo i limiti evidenti di un tennis femminile poverissimo tecnicamente, grazie alle sue armi. Attacchi artigianali e coraggiosi, rovesci tagliuzzati a due mani, voleè, angoli deliziosi. Oltre alle differenze di fisico e forza, che già ne avevano impedito una carriera a grandissimi livelli, ora che le primavere sono quasi quaranta, cosa vuoi che sia per Kimiko, dimenticarsi anche della differenza di età. Ecco perchè la sua vittoria si riveste di qualcosa mistico. Affronta tutto con animo apparentemente distaccato, da imperscrutabile asceta zen. Doma giovani ed agguerrite avversarie con le gote paonazze di rabbia, ed il coltello a serramanico tra i denti. Bambolone impotenti cui hanno insegnato a fare solo una cosa. E Kimiko, piccola e coraggiosa, ne svela i limiti, attaccando con la solita leggerezza. Una volè, un pugnetto aggraziato e un sorriso gentile, quasi a scusarsi. Dimostra come la forza eculea di picchiatrici imponenti e sovrappeso o gli schemi dementi ed insensati, si battano con la testa e la forza fluida di un tennis semplice e vario.
Quasi sospinta da forze invisibili, amanti dell'epopea romantica, in pochi giorni, l'indomita Kimiko batte esponenti delle differenti tipologie della nouvelle vague Wta: Avvilisce Kleybanova, randellatrice inguardabile, coi rivoli di sugna che ballonzolano minacciosi ad ogni roncola sparacchiata ad occhi chiusi. Smaschera Hantuchova, elegante e sinuosa gazzella ceca dal tennis scolastico, lineare, ma anche prevedibile. Svela il nulla patinato della Kirilenko, russa dello stesso filone delle bionde urlatrici fotomonelle post Sharapova, meno sgradevole, più bella, ma meno solida della più famosa connazionale. Poco altro che una mancata velina bionda (notevolissimi i doppi giocati con le graziose omologhe brune: Pennetta, Cirstea e Dulko, etc...). E poi, in finale, scardina Medina Garrigues, tignosa spagnola da prime venti, pallettarista semi-arrotante.
Kimiko Date, novella eroina dagli occhi a mandorla, appena solcati da rughe impercettibili, le infilza tutte con la semplicità delle cose grandi. Una sagoma minuta, che osservi impenetrabile, e si svela d'incanto, in un gioco da agguerrita piccola samurai con gli occhi a fessura. Si appresta a rispedire indietro badilate di servizio altrui, tutta obliqua sulla riga di fondo, con la gambetta corta ed il piedino sinistro in avanti, e la racchetta brandita e protesa in avanti, perpendicolare al terreno, quasi fosse una spada mitologica. E poi attacchi, cuciture e tagli bimani, con quella racchetta che appare enorme, smisurata, quasi più grande di lei. Vince e vola Kimiko, quasi dimenticandosi per una settimana l'età, e la fatica. E adesso rientrerà tra le prime cento al mondo. C'è da chiedersi se rimarrà una semplice dimostrazione saltuaria, o le verrà davvero voglia di rientrare nel circuito, sul serio. Ma sarà lo stesso. Di sicuro, certe storie, avvincenti, per qualcuno inutili, sono il sale di questo sport.

Certo, si potrebbe anche scrivere di Dolgopolov Jr, ucraino dal tennis esplosivo e vario, che vince due tornei challenger di fila, un tipetto da seguire, in futuro. O persino di Richard Gasquet. Ma il francese, solo a leggerne il nome, mette una grande tristezza angosciosa. Dopo l'inquietante spettro visto a Flushing Meadows, a Metz, tra amnesie e pennellate, vince tre partite, annesso quarto di finale con Petzschner. Match sponsorizzato dalla clinica “qui si sana”, e seguito a bordo campo da una schiera di incuriositi studiosi della mente, che prendevano alacremente appunti ad ogni piè sospinto, scambiandosi guardi sgomenti. Qualcuno dirà che il francese è in ripresa, avviato ad una fulgida carriera da costante top 50. A me non entusiasma vederlo vincere con mezzi figuri, e cedere nettamente a Monfils, in semifinale. Perchè Gasquet che perde da Monfils, sancisce la morte impotente del tennis. L'eleganza ed il braccio che cedono alla sgraziata esplosività muscolare.
Si potrebbe persino continuare a martellarsi le pudenda, raccontando della truppa di italiani, che non vincono una partita negli Slam e in Davis, ma nemmeno in piccoli tornei tra i Carpazi di draculesca memoria. O addirittura accennare a Flavia Pennetta, che dopo la dispendiosa settimana della moda a Milano, becca 6-1 6-2 dall'esemplare professionista Roberta Vinci, che non sfilerà mai, ma gioca un tennis incantevole.
Ma tant'è, fortuna che ci sono storie come quella di Kimiko.

venerdì 25 settembre 2009

IL RITORNO DI KIMIKO



E' l'anno dei ritorni al femminile. Kim Clijsters, passati due anni tra i pannolini, vince gli US Open. Punta nel vivo, l'infinitamente più dotata Justine Henin, ci proverà nel 2010, dopo oltre un anno a cogliere ciclamini e contare trofei vinti. Altra boccata d'ossigeno per un movimento femminile agonizzante.
Tra tante resuscitazioni, attese, volute, forzate, con nel mirino qualche par di decine di milioni per rimpinguare il mai troppo esanime conto in banca, c'è una riapparizione che mi ha illuminato, quasi commosso come un fanciullo.
Ai più, il nome dirà poco. Si chiama Kimiko Date, una ragazza nata in Giappone nel 1970. Capace di diventare una specie di eroina immortale per il suo paese. La prima donna del sol levante a raggiungere risultati d'eccellenza nel tennis. La giapponese sbalordiva. Racchiudeva caratteristiche che non potevano non farla amare. Piccola, compita nei gesti ed aggressiva nell'attitudine. I 160 centimetri delle biografie, parevano addirittura una gentile concessione. Piccina e gracile, la ricordo lottare a Wimbledon, in una semifinale giocata al calar del sole, contro l'orchessa insensibile Steffi Graf. Viso a viso, senza alcun timore.
La piccola giapponese veniva da battaglie tremende, quasi sempre vinte in rimonta. Progettava cose già anacronisteche allora, figuriamoci oggi, Kimiko. Mirabili incroci di controbalzo, poi tagliuzzava la palla e si affacciava a rete, minuscola e con lo sguardo adorabilmente minaccioso. Una leggiadra kamikaze, che trottava incurante della violenza del mondo. Lei, gracile e indifesa, tirava fuori tutto il coraggio racchiuso in quel corpicino grazioso. Si gettava, arpionava palline con braccia così corte da far tenerezza. Una bellissima volè difensiva, una vincente, e un'altra arrangiata. Ed eccola, che con passetti brevi e composti ritornava a servire dietro la linea di fondo. L'espressione del viso tirata e contrita, lo sguardo basso, come se attorno al campo esistessero solo sconfinate praterie piene di giunchiglie, e nel rettangolo una missione superiore da compiere. Un altro, l'ennesimo attacco, una goffa voleettina in difesa disperata, e quell'altra si spostava tutta sul dirittone, tramortendola con un randello di inumana violenza. Un leggiadro fringuellino impallinato col bazooka. E lei, dopo aver lanciato un gridolino di dolore, stesa in terra, si liberava in un sorriso leggero ed impotente. Coltivava l'arte dell'andare all'attacco senza elmetto, provare cose che avrebbe potuto pensare solo se madre natura le avesse dato qualche centimetro in più. Ma non se ne curava, seguitava a trottare con le gambe corte e saettanti. La sua forza stava nella testa.
La valchiria tedesca le inflisse una severa punizione nel primo set, poi, pian piano, lentamente, con proverbiale calma zen, la nostra minuta eroina del sol levante provò a venirne fuori con tenacia. Opponeva alla potenza devastante dell'avversaria, la forza del suo carattere, un gioco leggero e talvolta arrangiato, ma pieno di ammirevole volontà. Dritti incrociati, senza rotazioni, attacchi improvvisati. Quasi non conoscesse la paura o la rassegnazione all'evidenza. La vedevi al cambio campo, come un'asceta surreale. Piccoli gesti composti, ossessivamente calmi e sempre uguali. Kimiko, col coraggio dei tempi eroici, pareggiò il conto dei set, con l'ennesima rimonta nel mirino, stroncata dal buio e dalla sospensione. Il giorno dopo, ovviamente, vinse Steffi Graf.
Alla fine di quell'anno, Kimiko sparì dal circuito. Un ritiro inaspettato, a soli 26anni. Ma cosa poteva fare di più? Troppo forti le prime tre per lei, che con quel fisico da graziosa formichina, aveva comunque raggiunto le semifinali agli Australian Open, al Roland Garros, e nel tempio di Wimbledon. Solo agli Us Open, si accontentò dei quarti di finale.
Passano 13 anni, e scorgo il suo nome nel tabellone di un torneo del circuito minore. Forse solo omonimia, penso. Infatti c'è scritto Kimiko Date Krumm. Qualcuno mi spiega che Krumm, è il marito. Un pilota tedesco, dicono, abbastanza famoso, ma che solo a pronunciare il nome, mette una strana soggezione. Ma cosa ha spinto la 39enne Kimiko a rientrare? L'amore per il tennis? Sicuramente. Divertimento e desiderio di agonismo? probabile. Di certo, nessuno sponsor miliardario, ipotesi di guadagni monumentali, vittorie di slam, o wild card pretese in grandi tornei. Lei che pure era stata numero 4 al mondo. E infatti, senza inviti da star rientrante, verso la fine dello scorso anno, si dedica solo a tornei minori in patria. Vince i campionati giapponesi, si difende ancora bene.
Quest'anno prova il grande salto. Agli Australian Open esce sconfitta 8-6 al terzo, dopo quasi tre ore di battaglia, contro Kaia Kanepi, donnone estone che porta a spasso quasi un metro e novanta, ed un quintale di muscoli nascosti da ciccia bianchiccia. Poi eccola riuscire ad entrare nel tabellone di Wimbledon. E fino al 6-4 3-1, impartisce anche una garbata lezioncina alla giovane starlette Caroline Wozniacki, che ha meno della metà dei suoi anni. Improvvisamente paralizzata dai crampi, la povera Kimiko, raccoglie solo un altro game. Ma la partita la finisce, e con grande educazione orientale stringe la mano all'avversaria, cui rende venti centimetri buoni, e le sorride dolcemente. Il vecchio scriba, su sky, pare le dedichi una poesia, "tettine frementi", ma di questo ho avuto solo notizie non ufficiali (Gian Giacomo Bartezaghi), e non ho potuto sentirla. Ancora qualche torneo minore, si costruisce una classifica dignitosa, entrando tra le prime duecento al mondo.
Fallisce la qualificazione agli Us Open, ma eccola questa settimana, a Seul. Non un torneo minore stavolta, ma uno del circuito maggiore wta. Kimiko vince al primo turno agevolmente, poi al secondo, una rimonta dal sapore antico. Non l'ho ovviamente vista, ma non ci vuole tanto per capire il tennis, e la vita. Quasi tre ore per domare Kleybanova, altro esponente della fulgida e raccapricciante razza di boscaiole russe in sovrappeso. Una di quelle che va per la maggiore nel circuito, e che quest'estate aveva persino messo in fila le sorellone Williams. Immagino la piccola Kimiko investita da bordate terrificanti, e che rispedisce di la rovesci bimani dolcissimi, con candore. Grazie all'atteggiamento da riflessiva meditatrice zen ed un braccio esile, senza nerborute rotazioni. E poi viene a guadagnarsi punticini a rete, col solito spirito da indomita kamikaze. E l'imponente sagoma basculante della russa che si dispera, perchè non sa fare altro. Lei. Non c'è altra soluzione da ipotizzare. 4-6 7-6 6-3 per la nostra. Nei quarti, scopro solo ora, altra battaglia leggendaria con una top 20, stavolta non contro una tremenda picchiatrice accecata, ma con la sinuosa sagoma da gazzella di Daniela Hantuchova. E qui immagino altre ore di battaglia, con maggiore eleganza. 7-6 4-6 6-4, a favore della 39enne giapponese, dice il freddo score. Ed ora la semifinale. Ben tornata deliziosa Kimiko, con grazia leggera. E senza nulla a pretendere, come diceva quel tale.

mercoledì 23 settembre 2009

Cercasi telecronista sportivo, ottimo stipendio, contratto a norma, possibilità concreta di carriera



A fine anni ottanta pensavo di diventare forte come McEnroe, e ancora erano lungi dal palesarsi i problemi alle giunture, l'assuefazione alla birra e l'improvvisa passione per l'agonismo da materasso. Alla tv furoreggiavano, sulle frequenze confuse e talvolta sfocate di telecapodistria, Rino Tommasi e Gianni Clerici. Narravano gli slam in modo impareggiabile. E quei due seppero farmi appassionare al tennis guardato. La magnifica e fascinosa arte affabulatoria del vecchio scriba Clerici, avvolgeva ogni incontro di piccoli dettagli, gustose e raffinate stilettate di un'ironia pungente e ricercata. Particolari tecnici, citazioni di una lucida follia surreale. Da Kramer a Suzanne Langlen. Estasiato dal gesto tecnico e dalla bellezza in generale. Una volè di Martina, le gambe di Andrea Temesvari, la piccina e indomita Kimiko Date. Talvolta rischiava di straripare dagli argini della partita, come in un romanzo ancor più avvincente della stessa. Ed ecco lì pronto Tommasi, come Cerbero bonario e divertito. L'altra metà, a riportarlo nel recinto, con la sua fredda, puntigliosa e talvolta cinica realtà, mascherata da numeri infallibili. Lo scrittore sognante e tremendamente competente e l'impeccabile interprete della realtà, conoscitore dello sport come pochi.
Alla Rai rimanevano le briciole. Divinità incontrastate della tv di Stato, che trinciava finali sul più bello per far posto a sceneggiati d'epoca, Adriano Panatta e Giampiero Galeazzi. Il leggendario ultimo grande tennista azzurro, ed il folkloristico bisteccone nazionale. Raffazzonati, improvvisati, disinformati e adorabilmente cialtroni. Sovente maestri dell'improvvisazione, come attori consumati. La buttavano in cagnara, baruffa, mascherando l'evidente mancanza d'informazioni. Battute da teatrino che rischiavano di sfociare nel pecoreccio, ma con una vis narrativa notevole, popolana e sempre coinvolgente. Un mix tra il bar sport ed un'osteria dei castelli romani (che probabilmente avevano lasciato a malincuore cinque minuti prima). Bisteccone emetteva strani rantoli, grugniti sinistri. A volte sembrava addormentarsi, e non lo si sentiva per mezz'ora buona. Rumori in sottofondo, stagnole scartate e parole smozzicate a bocca piena, tra un morso all'abbacchio e un “turbo rovescio” di Canè. E Panatta stava al gioco, mettendoci l'indubbia competenza di uno che aveva calcato i campi, oltre che l'atteggiamento da mondano viveur delle notti romane. Palesemente partigiani, senza la patetica pretesa di mostrare goffa imparzialità, ma mai scaduti nel devoto sostegno di italiani impresentabili, a prescindere. Se Clerici e Tommasi sono raffinata competenza ed ironia, Panatta-Galeazzi rappresentavano la versione sanguigna e tipicamenti italiana, passionale, confusa e arrangiata. La peculiarità di un grande telecronista è quella di far vivere le emozioni di un incontro, riuscire a cogliere aspetti e sfumature, rendere interessante anche una partita brutta. E i due cialtroni goderecci, tra un aneddoto notturno ed una battuta alla “amici miei”, erano capaci di rendere avvincente anche Perez Roldan-Muster, match altrimenti, da prendersi a bastonate sulle rotule. E pazienza se poi improvvisavano conoscenze di giocatori sconosciuti, bollati come grandi artisti del serve and volley, e che poi non si schiodavano dal fondo per tre ore.
E dopo un ventennio, che rimane? resistono i due monumenti Clerici-Tommasi, come il tempio di Wimbledon. In Rai il tennis è confinato sul satellite, oramai limitato alla Fed.Cup, alla Davis, ed al torneo dei dopolavoristi della Val Brembana. E i cronisti somigliano in modo impressionante alla orrida e trasparente nouvelle vague di tennisti azzurri. Accantonato Bisteccone, ora ecco Alessandro Fabretti. Che sta rapidamente costruendosi un alone di mitologia attorno. Lo ascoltai due anni fa, alle prese con un torneo di veterani. Si presentò subito con una gemma impareggiabile: “Mats Wilander, grande campione, grande tocco! Eh...quel tennis serve&volley oramai non si vede più...”. Evitò di continuare con “Ricordo grandi battaglie col regolarista Stefan Edberg...”. Ma non ci feci caso più di tanto. Ed eccolo esplodere prepotentemente, nell'ultimo week end. Pur senza aver assistito allo spettacolo, non ci vuole molto a dare credito a ciò che leggo. Alcune perle di inarrivabile classe cristallina: Wawrinka, chiamato Stanislao (e non Stanislas), esattamente come faccio io, per rendere più ridanciano un blog. Lui, semplicemente perchè non sa leggere. Oppure, e la cosa mi inquieta non poco, è uno dei cinque lettori del mio blog, e lo prende anche per serio. Sempre su Wawrinka, si avventura in dotte considerazioni tecniche, indicando il rovescio dello svizzero, come punto debole. Quando anche le alghe sanno che è uno dei migliori tre-quattro del circuito. Per tacere di Chiudinelli, per lui Chiudani. Che sarà anche tennista di seconda linea, ma è fresco autore di un bel terzo turno a New York. Ma cosa vuoi che ne sappia lui degli US Open.
Incuriosito più dal Fabretti che dall'incontro in se, assisto alla seconda parte del match Federer-Starace, nella giornata conclusiva. Ed in poco meno di un set, partorisce mirabilie inenarrabili: “Federer sta servendo male, solo il 63% di prime...”. Nel suo magico mondo lillipuziano, il 72% si Starace è meglio. E pazienza se l'azzurro serve per rimettere in campo, e Federer tira dei missili per fare il punto. Un logorroico fanciullo alla scoperta delle regole basilari del tennis. Chiede continue conferme allo sgomento Pescosolido, che non sa più come arginarlo: “E qui Pesco? E qui? Perchè fanno ripetere il punto? Eh? Perchè? Mah. Sarà.”. L'arbitro aveva semplicemente corretto la chiamata del giudice di linea. Ma ciò che sorprende e lascia basiti del giovane Fabretti, è la mostruosa continuità. Non prende nemmeno in considerazione l'idea di tacersi, come è solito fare chi non è preparato, per limitare i danni. Lui è un kamikaze. “Certo che con Federer, per fare il punto devi fare il punto, eh...”, “Mai visto giocare lo svizzero così bene...”. Come se lui avesse visto più di due partite del numero uno, tra un giro d'Italia e l'altro. Qui si tace qualche secondo, probabilmente non regge lo sguardo allibito di Pescosolido, che tapino, non sa più che fare. Dal tono della voce imbarazzato, vorrebbe morire.
Poi il nostro eroe si ricompone, deve fare qualcosa, e per lasciar intendere di saperla lunga, si lancia in un commento da scafato e algido competente. La butta lì con classe, quasi a non voler far pesare la sua enorme saccenza, sugli umani davanti allo schermo: “Io non so se Federer è il migliore di sempre, preferisco lasciare le statistiche agli altri, io...”. Già, lui è un tecnico. Tommasi, becca e porta a casa. Ma oltre allo slancio irrefrenabile, il mitologico pupazzetto in cabina, accompagna le sentenze, con un tono pieno di spirito beffardo, da simpatico umorista. Il problema, è che se si prova a farlo senza conoscere la materia, si scade spesso nel patetico. Ma il giovane virgulto non si da per vinto, ha coraggio da vendere. Il temerario della rai-tivvì. Sempre nel terzo set (voglio dire, ribadisco, tutto in un set!), con Starace che annaspa sotto 6-3 6-0 4-2, dopo uno dei due errori gratuiti dello svizzero, trova il modo di squillare, tutto eccitato, una frase che rimarrà negli annali: “Eh meno male, grrrraaaande Potito (pronunciato rigorosamente Potithouw)! Adesso finalmente se la sta giocando al meglio! Alla fine del secondo set sembrava potesse vedere dei fantasmi inesistenti o immaginari...”. Il Fabretti, azzardo, pensava che il povero napoletano, oltre che perdere, potesse anche lasciarci le penne. Ma chi può dirlo. Mai interpretare i geni surreali, è faccenda impossibile.
Oramai il nostro tennista è ai titoli di coda, con la faccia rassegnata. Chi non lo sarebbbe. Federer serve per il match. I due cronisti si collegano con la panchina. Un'atmosfera ridanciana, da ultimo giorno di scuola. Risate e go-go. Un tizio si rivolge a Pescosolido: “Attento Pesco, c'è aria di rimonta qui...”. E giù altre risate fragorose in sottofondo. Ride pure Pesosolido. Ma il prode Fabretti la prende sul serio. Se lo dicono loro che sono esperti, perchè non credergli? penserà in quel vortice tumultuoso che gli avvolge il cervello. E infatti eccolo che parte a testa bassa: “Adesso Potito deve crederci, non ha scelta! deve crederci assolutamente, DEVE!”. Federer piazza due legnate secche secche, e tutti a casa. L'ultima chiosa, vagamente melancolica, a sottolineare, se non un telecronista di tennis, un animo poetico. “E' finita. Il sole di Genova illumina la Svizzera...”. Il cameraman inquadra il cielo plumbeo e di cemento, che minaccia altra bibliche piogge torrenziali.
Riflessione seriosa delle 8,13: Ma perchè il servizio pubblico si ostina a voler stuprare il tennis?

lunedì 21 settembre 2009

Coppa Davis, L'allegra Armata Brancaleone azzurra, ai piedi di Federer


Giovan Giacomo Bartezaghi, amico di vecchia data, nonché modestissimo compagno di doppio, lungi dall'esser partigiano, pareva ben sicuro. All'indomani del sorteggio Italia-Svizzera, match utile ad accedere al tabellone principale di Davis, mi confidava con gran perizia: “Bene! inizia Seppi con Wawrinka! E' l'incontro più alla portata. E se cominciamo sull'1-0 poi... magari Federer è anche stanco.”. Non gli ho risposto, poco prima aveva ammesso di aver puntato 100 euro sulla vittoria finale dell'Internazionale FC in Champions League, per l'undicesimo anno di fila. Folgorato dalla monumentale prova di forza dello squadrone nerazzurro contro il Barca. Per strada, ho fatto alcune riflessioni. Se uno guarda i risultati dell'US Open, Italia-Svizzera è un incontro nemmeno da proporre, per dignità. Il quarto singolarista elvetico, Chiudinelli, si era issato fino al terzo turno, il primo si chiama Roger Federer. I nostri quattro moschettieri, in terra nuovayorkese avevano provato invano a conquistare un set. Gli altri hanno dalla loro il numero uno assoluto ed uno che vale i primi quindici. Noi a stento mettiamo assieme due da primi settanta al mondo. Ma tant'è...si sa che la Davis è quasi un altro sport. Peccato solo che si giochi comunque con la racchetta.
Se Wawrinka è in condizioni, non dico di correre, ma almeno camminare, gli basteranno un paio di rovesci a set, per sbarazzarsi di Seppi. Così mi ha confidato il gatto, che s'è leccato la coda ed ha fatto una specie di starnuto-pernacchietta, come chiosa. E poi ha continuato facendo delle strane allusioni: Uno vispo come una triglia lessata al sole d'agosto, un polipo sbattuto per due ore sugli scogli, un crotalo saettante, alla perenne ricerca del suo io nascosto negli anfratti di una panatura dorata, ed una specie di scorfano smilzo che adora sguazzare nella terra. Si sa che lui è il cinico di famiglia. A voi provare ad inquadrare le raffinatissime similitudini coi nostri alfieri di Davis.
Non ho visto i primi singolari. Ma non è che ci voglia un grande sforzo creativo per immaginare. Saranno bastati una manciata di rovesci di brutale bellezza, al buon Stanislao dal naso paonazzo, per levarsi di torno il nostro fantasmino montanaro. Ora, su Seppi occorre fare chiarezza. E' uno dei pochi tennisti, forse l'unico, sul quale non riesco a dare una definizione precisa. Voglio dire, quasi tutti si prova ad inquadrarli. Il terraiolo arrotino, l'arrotone buono per ogni superficie, il picchiatore, il gradevole tennista spennellatore classico (pochi-pochini), il feticista del serve&volley (due o tre). Seppi è semplicemente fuori dagli schemi. Forse perchè non ne ha. Tira sfiatate pallette leggere ed inoffensive. Ma abbina questa smunta attitudine soporifera, a errori gratuiti superiori a quelli di un picchiatore incarognito, che si gioca il tutto e per tutto, tirando bordate dentro o fuori ad ogni palla. Ma come fa a vincere delle partite, uno così? Avrà un gran carattere? Certo, quanto un cincillà che mostra il bicipite. Qualche avversario rimane basito, sconvolto, sgomento dalla trasparenza inconsulta del tennis di Andreas, e quasi per un sottile gioco psicologico, si lascia avvolgere nelle spire della sua bruttezza dormiente. E Seppi qualche volta vince. Per fare un esempio, è come il Premier, che più fregnacce inventa, più consensi ottiene dall'uditorio, inebetito dalla coltre di orrore.
Wawrinka pare non esser caduto nel tranello, e domina lasciandogli sette games. Il nostro, a fine secondo set, accusa nausea e vomito. Lui. Chissà chi ha avuto l'ardire di guardarlo per due ore. A tutto c'è un contrappasso, insomma. Bianco come un cencio, assai simile a vomitino-caghino, ammetterà: “In campo vedevo due palle”. E certo, quasi sconvolto dagli attributi dell'avversario, abituato alle sue due nocelle rinsecchite. Chi lo sa. Con un Seppi ridotto ai minimi termini, magari si poteva puntare su Starace, che, lungi dall'esser novello Nembo kid, è terraiolo costante, e almeno ci mette l'anima prima di perdere. Senza vomitarla però. Poi senti capitan Barazzutti: “Avessi saputo dei problemi di Andreas? Non sarebbe cambiato nulla.”, e capisci tutto. Visto il clima ridanciano, da baraccone o commemorazione per la squadra di Sua Maestà Federer, perchè non organizzare una maxi esibizione con Panattone e Zugarelli? Ma pure bisteccone Galeazzi, visto che oramai a commentare non ce la fa più, con i suoi 200kg di leggiadria, avrebbe intrattenuto gli astanti con maggior brio.
Tocca quindi a Roger Federer. Non deve essergli costato poi molto deviare due giorni su Genova, prima di tornare in patria. E' come fare una sosta per la regal pipì. Uno che si ferma all'autogrill dell'autostrada. Con la differenza che Roger utilizza un jet personale. Voleva essere sicuro di potersi giocare la Coppa Davis il prossimo anno, fors'anche allettato dall'idea di sollazzarsi per un paio di giorni su uno yatch a Portofino. O più realisticamente, la signora Mirka lo ha convinto, perchè ghiottissima di trofie al pesto. Io propendo per quest'ultima tesi. Opposto al monarca, il nostro figliuol prodigo, Simone Bolelli, alias "Piccolo Federer". E infatti le similitudini tra i due sono palpabili, innegabili oserei. Ha un buon dritto da primi trenta al mondo, gli mancano solo: le gambe, il braccio, la testa, un pizzico d'umiltà e l'agonismo. Per il resto ci siamo, ha solo venticinque anni in fondo. E non voglio nemmeno mettere sul piatto il confronto Mirka-Ximena.
E succede che se uno prova a giocare allo stesso modo, contro un tizio che ha diecimilaseicento volte più talento, finisce col raccogliere otto games. E c'è da essere felici come bambini ed accendere un cero al santo protettore dei tennisti mediocri. “Bravo Simone, di più non poteva, ha giocato al suo massimo.”. Già sento l'unanime coro degli intenditori. Ma come, il futuro top ten? Certo, nel 2011, che diamine.
Sul 2-0, ecco lo spiraglio. Il capitano svizzero, colpito da un'inaspettata pietas, o forse per umiliare ancor di più l'italietta in ginocchio, non schiera Federer in doppio. Voci insistenti lo davano alle prese con un incontro notturno più ardimentoso, opposto a delle trofie saettanti. Dentro Chiudinelli assieme a Wawrinka, ma pare il ct elvetico abbia pensato qualche minuto al coupe de teatre, chiamando Pirmin Zurbriggen. Barazzutti, tra le tante opzioni, tutte ugualmente raffazzonate e dalle prospettive catastrofiche, sceglie Bolelli-Starace. Due che stanno al doppio come Borghezio ad un dibattito sull'integrazione tra culture diverse. I quattro iniziano quando sono ancora affascinato dalla notizia del ritorno sulle scene di Samantha Fox e Sabrina Salerno. Voglio dire, un duetto pettoruto da antologia. Lo avessimo noi un doppio così esplosivo. A Genova invece si assiste ad uno spettacolo tremebondo. Mai vista una cosa simile. Non somiglia nemmeno al tennis. Giocano il doppio da fondo campo, come nemmeno nei circoli anziani, tra sessantacinquenni stempiati, paonazzi e seminfartuati. Gli svizzeri sono peggio di noi. Wawrinka prova più volte a battere servizi a 223km/h sull'ignaro compagno accuattato a rete come una salamandra. Mi bastano venticinque minuti dello "spettacolo", poi desisto. Vincono i nostri, tre set a zero. “C'è vita! C'è vita! Che coraggio indomito! Altro che Italietta! L'Italia s'è desta, e l'Italia chiamò! pom-pom!”. Strillano due anziani signori vestiti da piccoli balilla, ma forse è un incubo.
Si arriva a domenica. Decido finalmente a seguire un incontro, in piena fase di complicata digestione. Non trovo il canale satellitare e m'imbatto in un affascinante dibattito-monologo su “Tele Padre Pio” (pensavo ad un'allucinazione da funghi, ma esiste davvero). Mancano solo i crociati armati nell'immagine sullo sfondo. Un porporato rinsecchito, con voce melodiosa, espone un raggelante programma di violenta teocrazia intollerante trecentesca. “Il diritto alla vita!", esclama come stesse spetazzando effluvi incensati. Poi trovo le frequenze giuste, ma pare a Genova piova a dirotto. La fortuna non mi assiste. Barazzutti, in un'improvvisa folgorazione geniale, ha optato per Starace al posto di Seppi. Ma Federer è già volato 6-3 4-0, impartendo pure due-tre urbi et orbi volanti, prima della sospensione. Continua a piovere. E RaiSport manda dei gustosi filmati del ventennio, gentilmente offerti dall'istituto luce.
Alla ripresa va certamente meglio. Il rutilante telecronista, tal Fabretti, sembra Alice nel paese della meraviglie. Come stesse scoprendo il tennis per la prima volta, con occhi esterrefatti di fanciullo. E forse è così. Il problema è che parla e commenta. Un esempio di insipienza ed ignoranza grottesca, che sfocia nel ridicolo-patetico, provocando anche un filo di umana pietà per un uomo spedito a commentare tennis. Lui che avrà studiato solo di gran premi della montagna e maglie rosa. Federer vola via, Starace, senza dubbio il più decoroso dei nostri eroi, arranca, e Fabretti incalza, proprio non riesce a tacersi, evitando figuracce in serie. E' imbarazzo vero. Pare lo abbiano drogato con ovomaltine e non rifiata nemmeno due secondi, tutto preso dalla nuova frescaccia da inventare. Semplicemente inenarrabile: “E sta servendo anche male Federer, eh! Solo il 63% di prime!”, certo, si sa che uno come Federer, con un servizio assai modesto, debba servire (almeno) il 95% di prime. E' la legge statistica di Fabretti. Ancora, irrefrenabile: “Mai visto giocare Federer così bene in vita mia...”. Forse mai visto giocare e basta, più probabile. Qualcuno proverà a fargli capire che l'elvetico gioca a quel modo, e pure meglio, da un decennio. E spesso contro i primi dieci al mondo, non solo contro un volenteroso italiano da numero 100. Ma il poveretto che ne può sapere. Inutile prendersela, austerity per austerity, propongo ai vertici Rai, una soluzione: Giovan Giacomo Bartezaghi. Lui almeno, commenterebbe “aggratise”, senza rubare uno stipendio al miserrimo spettatore pubblico. Non mi dilungo troppo. Se me ne ricordo scriverò un post completamente dedicato a Fabretti. Se lo merita.
Smarrito dal pupazzo in cabina, perdo di vista il match. Capirai. Ma non è che cambi molto. Lo svizzero seguita a camminare sulle acque in regale scioltezza. Totalmente tranquillo e sgombro da patemi, rende al meglio. Talmente rilassato che mi pare si sia acceso una sigaretta al cambio campo. Vince la Svizzera. Del resto, solo Bartezaghi poteva sperare diversamente. L'Italia maschile del tennis, si conferma da terzo mondo tennistico. Bambocci simil baronetti arroganti, cui manca la fame per lottare in campo, e altri volenterosi, che necessiterebbero di allenatori competenti. E dove si va, così? In serie B.
Starace forse non avrebbe battuto Wawrinka, semmai garantito una resistenza più dignitosa di Seppi, sconcertante e impresentabile anche in un torneo aziendale. Per il resto, poche ed ininfluenti colpe di Barazzutti, se i giocatori migliori sono quelli, ci vorrebbe il mago Otelma più che un selezionatore. E infatti, da ct delle donne ottiene grandi risultati. Donne che continuano ad onorare il nome dell'Italia tennistica: il gran coraggio della Schiavone, e l'incoraggiante maturazione di Flavia Pennetta. Maturazione avvenuta in Spagna. Ma sarà un caso, ovvio.

mercoledì 16 settembre 2009

US Open 2009 - Pagelle, vincitori e vinti


Uomini
Del Potro: 9. A vent'anni vince il suo primo slam. Il lungo argentino gioca un torneo maestoso. Innocue distrazioni con l'incubo delle vecchiette che ritirano la pensione (Koellerer), e contro il talentuoso croato indolente (Cilic). Poi abbatte senza tante remore Nadal. In finale paga l'emozione, ma è bravissimo a sfruttare lo spiraglio che il monarca elvetico gli fornisce. Ma poi, per batterlo, ci vuole personalità e carattere che si palpano. Imbraccia fucile ed artiglieria, e comincia a fare fuoco. Servizi, dritti che paiono meteoriti fulminanti. E pensare che qualche intenditore lo metteva al sesto posto tra i favoriti (solo perchè è numero 6 al mondo, chiaro).
Federer: 8. Arriva alla finale fluttuando, col minimo sforzo. La quarta consecutiva del 2009. Come fosse cosa semplice per gli uomini. E la finale l'avrebbe anche vinta, non avesse rimesso in vita un avversario fortissimo, ma spaesato ed in difficoltà. La reazione composta e serena dopo la sconfitta, dimostra quanto il tarlo del record, lo avesse destabilizzato nel 2008. Assieme alla sagoma invasata di un maiorchino impertinente e dispettoso, che si scuoiava pur di non fargli raggiungere il traguardo. Ora che non gliene cale più molto, se ne avrà voglia, svolazzerà ancora, senza patimenti.
Nadal: 7. Arriva in semifinale senza entusiasmare, e imbattersi in ostacoli seri. Dolori addominali a parte, il modo in cui Del Potro lo spazzola via, fa impressione. Forse è iniziata la seconda carriera dello spagnolo. Meno frenetica ed ossessiva, e più studiata. Un rifrullante sparapalle giudizioso, insomma. Magari senza dover trasformare i futuri tornei in una continua e stucchevole serie di “Doctor House”.
Djokovic: 6,5. Bravo e costante nel raggiungere la semifinale (ho impiegato mezz'ora a battere questa frase). Ma soffre e torce la mascella volitiva contro l'esordiente Witten, 27enne orsetto americano semi-professionista, coi rotoli dell'amore e il triplo mento. Uno che farebbe ridere anche alla corrida. Con Federer poteva vincere solo se una pioggia di meteoriti avesse investito la terra. Il picco migliore del suo torneo: le imitazioni ed il siparietto con John Mcenroe. Col genio brizzolato in maniche di camicia, che gli ruba anche la platea da showman.
Cilic: 7. Il croato col talento nascosto nelle sopracciglia, malgrado quell'espressione da cinquantenne afflitto dalle tasse, di anni ne ha solo venti. Ed è già vicinissimo ai primi dieci al mondo. Sale in cattedra e fornisce una fiammante lezione tecnico tattica al novello pallettaro ricercato, Murray. Dritti ad uscire, rovesci tagliati, discrete volèe. Lo slavo indolente, con un minimo di continuità diventerà un bel protagonista.
Gonzalez: 5-. Vince di randello contro altri due picchiatori (Berdych e Tsonga). Rende dura la vita a Nadal per due set. Poi, dopo la pioggia, raccoglie un tondeggiante 6-0 al terzo. Qualche dietrologo ci ha visto un bell'assegnone dell'organizzazione, per evitare i milioni di danni dell'eventuale spostamento del programma. Io non ci credo mica. Però 6-0 dal maiorchino attuale sul cemento, non lo beccherebbe nemmeno il sessantenne Paolone Bertolucci dopo essersi scofanato quattro chili di pajata.
Murray: 4--. Lo vedi ciondolare come un fuscello svogliato, sei metri fuori dalla riga, per rispondere al servizio di Cilic. Un ragno paziente che progetta elaborate, cervellotiche e raffinatissime tele, e poi finisce per strozzarvisi da solo. Pare un genio incompreso. La vedrò solo io, ma è una involuzione imbarazzante quella dello scozzese. Sempre più borioso ed autoflagellante ectoplasma coi denti affilati.
Verdasco: 6-. Tommy Haas travestito da Babbo Natale con turbe psichiche, gli regala gli ottavi. Poi doma le bordate di Isner, dimostra a tratti come possa battere ad occhi chiusi Djokovic, ma alla fine cede. Un gradevolissimo galletto da combattimento perdente. Perchè se gli altri non s'impiccano, i quarti di finale rimangono il suo obiettivo massimo.
Roddick: 4,5. Sulla fiducia. Dopo le belle evoluzioni londinesi, era atteso ad un gran torneo. Perde la battaglia delle mazzate col connazionale Isner. Match del quale, ovviamente, non ho visto nemmeno un'istantanea.
Dent: 7+. Il vecchio panda, per sua stessa ammissione, gioca e serve col freno a mano tirato, per i gravi problemi alla schiena. A New York se ne dimentica. Vince due battaglie tremende a suon di servizi e volèe, che trascinano il pubblico ed entusiasmano i vecchi romantici dell'arte volleatrice.
Petzschner: 5. I risultati dell'estate me lo davano in inquietante fase di normalità. Vince al quinto contro Stakhovsky (la più bella partita immaginaria del torneo, perchè non l'ha trasmessa nemmeno Teleneurodeliri libera). Avanti due set ed un break con Juan Carlos Ferrero, smette di giocare, perchè deve andare a raccogliere delicate violette e fiori di lillà, lungo le rive in cemento armato dell'Hudson.
Tsonga: 4,5. Batte qualche pupazzetto vestito da vittima sacrificale. Si ferma agli ottavi contro il picchiatore più esperto Gonzalez. E la triste impressione, è che di quel poderoso pugilatore che spiegava le ali nei pressi della rete, rivedremo solo qualche fiammata.
Monfils: 5,5. Per un set fa il muro di gomma sghembo con Nadal. Finisce con la lingua penzoloni al quarto. Semplicemente inguardabile. Lo immagino sgraziato ed impacciato anche nello scolare la pasta.
Marat Safin: 8 (alla carriera). Gioca un set che rimanda ad antiche e lunari bellezze. Gli altri tre come se avesse un impegno improrogabile, e più importante. Quasi a voler far capire qualcosa. Che sia stata l'ultima recita, fors'anche volutamente significativa, è sicuro. Magari tra due anni gli tornerà la voglia, e vincerà gli Australian Open in bermuda hawaiani. E a noi intanto, rimangono Roddick e Djokovic.
Italtennis: 1. Come l'unico set che portano a casa i nostri cinque alfieri (Flavio Cipolla). Sarà per la prossima. Lo scorso anno, Del Potro battè Simone Bolelli a Roma (o Montecarlo o Forlimpopoli, non mi ricordo, ma è lo stesso). Un illuminato tecnico, squillò grossomodo: “Che peccato, contro un giocatore così modesto, Simone non è riuscito a far valere il suo maggior talento.”. Ora, quello ha alzato la coppa di Flushing Meadows. Il nostro, alzerà le coppe del reggipetto di Ximena. Sono scelte di vita. Chi può dargli torto.
DonneClijsters: 9. Niente di strepitoso, nessuna scena eroica. Fila via facile facile la mamma belga. Mette in riga ottuse valchirie, invasate sparapalle, strepitanti e convintissime starlette con la faccia truce e spocchiosa, supponenti Williams affusolate e massicce. Dopo aver passato due anni a cambiare pannolini. Con la forza di un gioco senza fronzoli, ma vincente. Cervello ed agonismo, sorrisi e serenità mentale. Sembra poco, ma è una giunchiglia che spunta nel deserto.
Wozniacki: 7,5. Camomillosa ragazza polacco-danese assai bellina, a cui hanno messo una racchetta in mano. E lei se la cava neanche malaccio. Ordinate pallate difensive, ma almeno intelligenti. Doma con pazienza e senza sbraitare, il randello folle della Kuznetsova, poi quello più acerbo e sgraziato di Wickmayer. In finale troppo forte e pesante Kim Clijsters per il suo livello.
Serena: 6. Forse la pantera feroce pecca di eccessiva sicurezza, e la mamma belga la rispedisce sulla terra. Si becca il penality point sul match point, dopo aver minacciato di uccidere l'improvvida giudicessa di linea che le chiama un fallo di zampa. Ma non l'ha fatto. Mezzo punto in più per il self control col quale evita l'efferato omicidio.
Pennetta: 7,5. La Spagna ha trasformato una velina bruna inoffensiva e puramente scenica, in giocatrice solida, concentrata, aggressiva e completa, ampiamente meritevole delle prime dieci. La Federazione italiana esulta. Sarà. In ogni caso, Flavia si traveste da impietosa Steffi Graf d'annata ed annichilisce avversarie su avversarie. S'arrende solo a Serena, ma senza sfigurare. Vedere Wozniacki in finale e Wickmayer in semi, fa sorgere il rimpianto per un tabellone sfortunato.
Oudin: 8. La più lieta novella degli US Open. Viene fuori da cruente battaglie con tre valchirie russe da top ten. La diciasettenne biondina americana ha carattere, personalità ed agonismo non artefatto in modo grottesco. E soprattutto gioca benissimo a tennis. Un autentico miraggio nelle steppe subsahariane della wta. Piccola, ma compatta e ben piantata nel tirare i suoi fondamentali gradevoli e quasi piatti. C'è vita, insomma.
Wickmayer: 7. La giovane ed imponente belga col fisico da ginnasta, s'infila in un lato del tabellone semideserto. Grezza e rudimentale, senza lo scorcio di una tattica, tira colpi di badile ad occhi chiusi. Fino a quando il tennis ordinato di Caroline Wozniacki, in semifinale, non ne sveli i limiti artigianali. Se qualcuno avrà la pazienza di insegnarle le regole basilari del tennis, potrà anche entrare tra le prime dieci. Buon Dio.
Bondarenko: 6. Arriva ai quarti senza battere nessuno. Basti pensare che lo scalpo migliore è stato una ex tennista, Ana Ivanovic. Poi Yanina Wickmaier la investe a colpi di roncola nelle gengive.
Na Li: 6,5. La cinese è una di quelle che gioca con rotazioni ortodosse, attaccando da fondo in modo ordinato. Nemmeno malaccio da vedere. Schianta con candore Francesca Schiavone, scentra palline a caccia di tordi contro Kim Clijsters.
Venus: 4. Da anni non ne azzecca mezza, lontano dai prati di Wimbledon. La venere d'ebano, col ginocchio bardato come gazzella ferita, perde un match vagamente surreale contro Kim Clijsters. Poi vince il solito, inutile, doppio inferocito, con la sorella. Giusto per non far soffrire molto il conto in banca dell'azienda Williams.
Martinez Sanchez: 7 (+). Fatuo godimento dello spirito. La farfalletta vollatrice volteggia aggraziata, rabbiosa e vincente nei primi turni, per poi schiantarsi delicatamente contro il trattore fumante Serena. E tolta Kim Clijsters, è l'unica a metterla in difficoltà, creando gioco e inventando tennis. Antico e gradevole. A noi che tifiamo Sparta e mai Atene, può anche bastare.
Kuznetsova: 4,5. Le si aggrovigliano braccia e meningi, nel tentativo di demolire Caroline Wozniacki.
Safina: 4. Vedere quel donnone basculante vagare per il campo, correre in avanti come una impacciata centometrista, con le guancione che ballonzolano paonazze, sta diventando un inutile strazio. Una morsa che stringe il cuore. Si salva con la forza della disperazione nei primi due turni, contro una teenager australiana ed una semisconosciuta tedesca kamikaze. Poi cede ad una ceca di terza fascia. Dumbo travestita da Bamby, non vincerà mai uno slam. Paura e consapevolezza, che poi sono stessa cosa, la stanno distruggendo.
Dementieva: 3,5. L'esangue russa col collo da cigno spelacchiato, ci mette tutta l'esperienza e la tigna indisponente che possiede, contro Melanie Oudin. E il trottolino con gli occhi da tigrotto la infilza a suon di dritti incrociati. Sulla carta d'identità di Elena c'è scritto: tennista perdente (di livello).
Sharapova: 4. Un passo in avanti rispetto alla statua di sale urlante, “ammirata” al Roland Garros e a Wimbledon. Sfigura meno della connazionale Dementieva, senza però che le sue urla da mucca in preda ad una crisi di nervi compulsiva, riescano ad impressionare la piccola Melania. Se poi le metteranno anche una museruola, sarà meglio per tutti.
Jankovic: 3-. Perde contro un rudimentale fabbro ferraio kazako travestito da tennista maschia, che tira due bordate in campo, ed altre venticinque sugli spalti alla ricerca di ignari venditori ambulanti. E quella che fa? Con l'avversaria in black out neurocerebrale che sbaglia e sorride senza senso, quando bastava tirarla dall'altra parte (come al solito) per vincere, si mette in testa di voler trasformare il suo tennis sgroppante e demente, in rischia-tutto. E sbaglia più dell'altra. Poi si piega, mostra le terga e scorata, implora un segnale dal cielo. O qualcuno che le impianti il cervello di una capra su una faccia da cavalla. Sarebbe già qualcosa.
Petrova: 6. Più bella che brava.
Schiavone: 6. Il circolo degli esorcisti dovrebbe fornirle una medaglia ad honorem, ed una effigie di Monsignor Milingo che sorride bonariamente. Con esperienza navigata, esorcizza le sfuriate demoniache di Victoria Azarenka Linda Blair posseduta. Tira dritto facendo poco caso ad urla raggelanti, bestemmioni kilometrici, racchette fracassate, roncole bestiali. Negli ottavi si spegne contro il tennis offensivamente lineare di Na Li.
Azarenka: 3. Vedi sopra. Il lato nudo e crudo di Belzebù col gonnellino.

martedì 15 settembre 2009

US Open 2009 - Del Potro spacca New York




Un urlo nella notte: Giovan Martino! Dopo un torneo avaro di spettacolo, Roger Federer e Juan Martin Del Potro danno vita ad una delle più appassionanti finali degli ultimi anni. Eppure l'inizio era di quelli che inducevano a prospettive inquietanti, ed quilibrio pari a quello di uno sgozzamento sacrificale sull'altare. Sua maestà Rogerio, tutto nero, con elegantissimi rivoli rossi, è ben concentrato stavolta. Pure lui lo sa, quel dinoccolato argentino con lo sguardo da pistolero buono che vuol fare il cattivo, è un degno avversario. In una umanoide concessione, ha pure studiato la tattica. La giovin torre di Tandil, paga i vent'anni, l'inesperienza, l'emozione della prima finale da giocare contro un monumento. Serve male, sulla sua seconda leggera il re fluttua verso la rete, lo aggredisce, non gli lascia ossigeno per ordinare le idee, e tempo per riaversi. E poi rovesci bassi e in slice sui quali la torre deve prodigarsi in goffi tentativi di arpionamento. 6-3 in un baleno, e ad un passo dal doppio break di vantaggio nel secondo, a suon di colpi di fiorettto e in recupero disarmanti. E davvero non si vede come o cosa, possa cambiare l'esito degli eventi.
Mirka, ben in ghingheri, è rilassatissima. Ridacchia e racconta barzellette sconce (è un'ipotesi) ad una seduta vicino a lei. Federer mantiene il break, l'argentino riprende a difendersi sul servizio, da qualcosa bisogna pur cominciare. L'aiuto che non ti aspetti, arriva non dal cielo, ma da un suo parente prossimo, il medesimo semidio danzante, ritornato imprevedibilmente smemorato pianista sull'oceano. Dritto sparacchiato su stelle inesistenti, game da museo degli orrori e controbreak, che consente all'altro di scorgere uno spiraglio di vita da afferrare coi denti. E il pistolero non si fa pregare, comincia a tirare finalmente a tutto braccio. Il re lo ha reintrodotto in una partita che non aveva storia. Stecca di rovescio del Mozart di Basilea e sassata vincente di dritto dell'argentino furente, a chiudere il tiebreak del secondo. Il match che cambia sta tutto lì.
Sull'onda dell'entusiasmo, l'allampanato pistolero vola 4-3 e servizio. Federer è nervoso, e lo si nota da come si rivolge all'arbitro, reo di assecondare i continui challenge ritardati dell'argentino, presumibilmente provenienti da suggerimenti del suo angolo. Lo rimprovera col piglio che si deve ad un monarca verso il suo infimo servo. Juan Martin non raccoglie, sbaglia un facile colpo di volo, cede il servizio e sul 4-5 infila due doppi falli in fila da tregenda, negli ultimi due punti del set. Paura evidente che paralizza il braccione e lo fa sembrare un Djokovic qualsiasi.
Federer vola due set a uno, ed i patemi paiono finalmente fugati. La torre di Tandil regge nel momento più difficile e che avrebbe ammazzato un toro. Ma è qui la differenza, il ragazzo ha carattere e determinazione. Non è pervaso da quel filo di rassegnazione, di fronte alla leggenda che danza dall'altra parte, tipica di molti altri. Continua ad esplodere bordate di dritto che paiono bucare il cemento, senza alcuna paura, ad occhi chiusi, anche quando si trova a due punti dalla capitolazione. Ed il monarca, come spesso gli è capitato, ha la colpa di accettare la sfida plebea a suon di roncole fumanti. Che pare un mezzo suicidio. Il progetto tattico che lo stava conducendo ad una facile vittoria, è completamente riposto. E infatti a prevalere sono i traccianti mostruosi e le debordanti saette dell'argentino, che adesso ha ripreso lo sguardo tagliente. Esplode a tutto braccio, colpi impressionanti, dritti in corsa che fanno balzare dalla sedia. Potenza e velocità di braccio difficilmente rinvenibili altrove. Federer non riesce più a venirne fuori, vittima di se stesso, e di quello spiraglio che ha aperto all'avversario. Juan Martin vince a denti stretti il tiebreak del quarto, e vola avanti anche nel quinto.
L'orgoglio del campionissimo di Svizzera, sta tutto nel modo in cui annulla due match point, dopo scambi prolungati e drammatici. Ma alla fine si arrende. Juan Martin, vince 6-2 al quinto, una grandissima partita, ed un torneo difficilissimo, a vent'anni. Con grande maturità, colpi eccezionali e personalità. Il tennis ha trovato un nuovo protagonista. Pronti e serviti i soliti stolti, che senza l'iberico frullante, pensavano ad avversari rassegnati e senza carattere. Federer ha tantissimo da rimproverarsi, e ripensare alle occasioni gettate al vento. La bambola totale nel momento di portarsi due set avanti, in primis. Ma a giudicare dal modo rilassato e sorridente con cui parla al pubblico, è una sconfitta che fa meno male di quella in Australia. Allora il tarlo dei record, e di crollare sul traguardo come Dorando Pietri, lo divorava lentamente.
Ammetto e confesso, di aver scritto queste ultime fregnacce, al lavoro. Quindi, siate umani e non denunciatemi a Brunetta. Le manolate sulle nocche fanno male. E già temo i suoi occhi iniettati d'odio bovino.

lunedì 14 settembre 2009

US Open 2009 - Del Potro, tre schiaffi a Nadal, poi la favola di mamma Clijsters



Il satanasso travestito da Roger Rabbit incerottato, corre e arpiona l'ennesimo fendente disumano, e lo ributta dall'altra parte, carico di urticante top spin. E la torre di Tandil, mica si scompone. Non rimane impietrito a domandarsi come abbia potuto quell'ominide. Progetta e spara un alltra bordata radente. E se non basta, ne tira una terza, poi una quarta. Fino a sfondare il muro arrotante. La macchina sparapalle frullate si batte così, e Federer, che pure ha un gioco dieci volte più vario dell'argentino, non ci è quasi mai riuscito, rimanendo basito da tanta rozza impertinenza, ponendosi domande ascetiche.
Certo Nadal non era al meglio, dirà qualcuno, certo. Per sua stessa ammissione, ed a vista d'occhio, lo spagnolo corre come e più dello scorso anno. I limiti semmai, li palesa al servizio, causa il misteriosissimo infortunio addominale. Per il resto, a Juan Martin Del Potro sembra interessare poco. Incoccia le rotazioni forzute dell'avversario che è una bellezza. Schiaffi e frustate radenti, ora di rovescio a controbattere il dritto stretto incrociato, ora sassate di dritto in tutte le salse. E lo spagnolo non può che remare. Scacciato via come un fastidioso tafano. Se uno gioca così, o come Tsonga in Australia nel 2008, a Nadal non resta che remare a vita. Ha lo sguardo del pugile suonato. Fosse stato un incontro di boxe (e qui faccio la voce da Rino Tommasi), l'arbitro avrebbe interrotto il match alla fine del secondo set. Il dinoccolato argentino con la canotta, ha gli occhi ancor più taglienti, ed il braccio veloce come un pistolero del west. Periodico 6-2 per Giovan Martino, mezzo campanaro e mezzo killer spietato, e prima finale di uno slam, a completare una maturazione continua, che oramai lo consacra ai massimi livelli.
Nadal ha poco da rimproverarsi. Ero convinto potesse raggiungere i quarti di finale, come obiettivo massimo. Lui, causa sciagura Jo Tsonga, e l'imbarazzante (ma graditissimo agli organizzatori in affanno) “no mas” travestito da 6-0 subito da mano de piedra (e del quale non scrivo per decenza), raggiunge la semifinale. Più, non poteva. Gli hanno fatto perdere cinque chili, per preservargli le ginocchia. E infatti, nella corsa non paga quasi nulla. Ovviamente perde in esplosività. La coperta è corta, e se la matematica applicata alla medicina non è un opinione, questo Nadal dovrà abituarsi ad essere un ottimo giocatore, ma senza poter più raggiungere i livelli mostruosi degli ultimi due anni. Rimane l'evidenza, e quello che di inumano che è riuscito a fare negli ultimi anni. Un guerrigliero impavido, con la folle idea di assaltare la monarchia imbiancata. Riuscendoci, al costo di sfibrarsi con un tennis muscolare, da forzuto della racchetta, fino a condurre il monarca sulla soglia del neurodeliri. Sono moltissimi i giocatori che hanno cambiato, o si sono costruiti una seconda carriera, rassegnandosi e continuando a giocare malgrado problemi fisici irrisolvibili. Rimane una scelta forte, abbandonare, o conviverci, con ambizioni ridotte. Il maiorchino, mi trasformo in Nostradamus de noantri, sarà competitivo ai massimi livelli sulla terra, e fastidioso sull'erba truciolata. Altrove vale appena i primi dieci. Amen. Una prece all'impavido guerrigliero golpista. Se ne faranno magliette con l'effigie stilizzata.
Le streghe sdentate ed irridenti e la sagoma frenetica di Nadal, cominciavano già a preoccupare un poco la serenità mentale del monarca elvetico danzante. Sollevato dalla dipartita prematura, Roger Federer comincia la sua semifinale con Djokovic, in punta di piedi. Quasi qualcuno avesse osato interrompere il suo sonno ristoratore, per un impegno di siffatta inutilità. E come dargli torto. A tratti mi chiedo come possano due tennisti simili calcare lo stesso campo. Il divino ed ispirato Mozart, ed un suonatore di basso che non azzecca due accordi in fila, un Nureyev della recchetta che volteggia altezzoso e disarmante, ed uno sciancato, convinto di poter ballare all'Opera di Parigi. Questo e Federer-Djokovic. Lo svizzero vuole vincere col minimo sforzo, quasi tenendo la racchetta con tre dita. Ha gli occhi impastati di sonno, e l'espressione assai seccata. Quell'altro continua a tirare fondamentaloni compassati, scentra e sbaglia, sparacchia dirittacci orridi col corpo dall'altra parte, come una marionetta scoordinata. L'elvetico fluttuante lo lascia andare, gioca come il gatto col topo, poi spinge sull'acceleratore quando serve, servizi, dritti e colpi merlettati.
Va avanti due set, e Djokovic rema. Una discreta resistenza ed un match combattuto, ma è solo scena. Sugli spalti, Mirka deve essersi scofanata due piatti di fagioli con le cotiche, e contorno di trippa. Tutta felice batte le mani come una foca monaca. Novak salva una palla break che somiglia ad un match point. Nel sempre misurato angolo della Serbia, una fanciulla bionda, caruccia assai, schizza in piedi e forse in preda ad un embolo, strilla “Ajde!!!!”, con gli occhi fuori dalle orbite. Todd Martin, nuovo coach di Djokovic, è imbarazzato, ha lo sguardo basso. Quasi si chiede cosa ci faccia lì, assieme a dei miliziani inferociti. Forse rimpiange il suo ranch e le vacche da governare, animali parecchio intelligenti.
Il serbo ardimentoso, prova una loffietta corta, Roger la raggiunge, e quello prova ad irriderlo con un pallonetto. Il monarca in elegantissimo rosso-nero, aggancia il lob in corsa, e partorisce un passante vincente, con la pallina che gli passa sotto le gambe. Cos'altro aggiungere? Un altro dritto vincente in risposta, a chiudere i conti. Djokovic può ancora vincere uno slam. Se non partecipano Federer, Del Potro, Nadal, ectoplasma Murray, Tsonga, Petzschner, Giandoenico Tranfolanti...Federer in finale troverà un giocatore vero, non un concentrato di boria insipiente, come in semifinale. E per vincere deve aumentare i giri al motore. Perchè il bombardiere di Tandil, non è mica uno che medita troppo sulle cose.

Concluso il torneo delle donne. Affascinate come un riccio attaccato ai volgari ammennicoli. Ma si chiude come è giusto che sia. Mamma Kim Clijsters fa fuori anche la seconda Williams, ed in finale doma la bambolina di cera Caroline Wozniacki. La danese si rende conto come il suo intelligente pallettarismo difensivo, possa valere col rudimentale tennis alla roncola tumida della Wickmayer, non certo con una tennista esperta e completa come Kim. Che alla fine alza la coppa ed un pupetto dai riccioli biondi, il figlio. La belga, torna dopo due anni e mezzo ed una gravidanza, e come nulla fosse vince un torneo dello slam strameritato. Penso possa bastare per descrivere lo stato comatoso in cui versa il tennis femminile. Basti dire che Kim, unanimemente riconosciuta come la belga povera, quella dal talento centodue volte inferiore a Justine Henin, è riuscita a sbaragliare una concorrenza ridicola, appena rientrata. Mi domando, e forse non troverò risposte, se tornasse Justine. E se toccherebbe obbligarla a giocare con la mano sinistra, per rendere tutto un po' più interessante.
La belga ha costruito il succeso con un torneo regolare, fatto di buone prove di maturità (Bartoli e Venus battute soffrendo), e soprattutto con una grande semifinale contro Serena Tyson. Partita chiusasi in modo grottesco, ma non cruento come mi attendevo. Il primo fallo di piede del torneo fischiato all'americana, sul match point di una semifinale tiratissima. Qualcosa che avrebbe trasformato anche Stefan Edberg nel mostro di Rostov. Colpo di scena dovuto ad una giudicessa di linea occhialuta e dai tratti nipponici, che fedele alla sua indole kamikaze, rischia la vita con ardimentosa consapevolezza masochista. Forse per una inquadratura, o un titolo di giornale da tramandare ai nipoti, o semplice godimento nel rischio della morte pubblica, chi può dirlo. Ora l'immagine che io ho di Serena, dopo averla vita tirare un rovescio feroce, magari è distorta. Penso a lei come un'amante premurosa e con gli occhioni dolci, che dopo essersi concessa biblicamente al suo uomo, lo divora con furia e poi lo pilucca in tanti piccoli brandelli, come una mantide di 85kili. Ovvio che tema una morte più che cruenta dell'ignara e malcapitata giudice di linea kamikaze. Quella tremola tutta, passa i trenta secondi più duri della sua vita. Ma se la cava con qualche rassicurante e serafico “Io ti ammazzerò” della Tyson in gonnella. E mi viene in mente Alberto Fortis, col suo Vincenzo. L'arbitro, invece di apprezzare la moderazione inaspettata e lo scampato omicidio in mondovisione, infligge all'americana un penality point, e la partita finisce, con una Kim imbarazzatissima. Anche questa è Wta.

sabato 12 settembre 2009

US Open 2009 - dodicesima giornata (inesistente) - Nadal, e l'improvvisa ostentazione del dolore



E venne l'acqua. Un pioggione biblico come non si vedeva ai tempi di Noè, blocca il programma degli US Open. Ancora da completare il quadro dei 4 semifinalisti maschili. Dopo Federer-Djokovic, il posto tutt'altro che tranquillizzante al fianco di Del Potro, se lo contendono Nadal e mano de piedra Gonzalez. Match sospeso sul 7-6 6-6 per lo spagnolo. Imbarazzante l'iberico, non tanto per il gioco espresso, ma per l'atteggiamento. Nervoso, frenetico, acciaccato, ansioso, monologante. Mai visto in quel modo. Oramai un incontro di Rafa è un mix tra “Er medici in prima linea”, e “Salvate il soldato Jane”. Una via crucis insostenibile. Ai già noti problemi alle ginocchia usurate, si è aggiunto un misterioso dolore addominale, ora manca che lamenti lo sfibramento violento del bulbo pilifero, ed il sempre annoso problema alle doppie punte.
Contro il cileno, richiede lo stop medico. Tutti preoccupati, si levano degli “ooohhhh” trepidanti del pubblico. Lui si fa rattoppare sul campo, lo imbracano con una vistosissima panciera fantozziana, ed il punto dopo eccolo lì, che sgroppa come un indemoniato frullante, peggio di prima. Arrota, tira e corre. Insomma, una ostentazione del dolore insopportabile per chi guarda, ma soprattutto per l'avversario. Inevitabilmente condizionato nel contrastare un miliziano, apparentemente ferito a morte, e che poi si ritrova dall'altra parte come un satanasso, a riprendere tutto l'umanamente immaginabile. Certo, non è il Nadal dello scorso anno, ma ci siamo vicinissimi. Più che una condizione fisica scadente, paga la difficiltà a giocare sul cemento, il non poter pattinare in recupero, come è solito fare sulla terra battuta, ma anche sul truciolato d'erba di Wimbledon degli ultimi anni. Per il resto, l'idea che questo ragazzo di 23anni continui la carriera in questo modo, con ogni partita trasformata in un campo di primo soccorso medico in guerra, non mi alletta molto.
Ad un certo punto, sono arrivato ad una conclusione illuminante. Mia nonna mi diceva sempre: “Ok, io ti ci porto al mercato, ma poi non voglio che ti lamenti”. Così anche Rafa, poteva decidere di giocare o starsene a casa, ma una volta deciso di partecipare, ha l'obbligo di stringere i denti, non lamentarsi. Senza dover mostrare ad ogni partita il cerotto del dolore sul pancino, levandosi la maglia (cosa mai fatta prima). Quasi a dire a strillare mondo: “Avete visto, pure con la bua tremenda, riesco a vincere.”. Un comportamento che sarebbe plausibile per molti, non certo per lo spagnolo, sempre corretto e sofferente in silenzio, attento a non farci pesare gli acciacchi. Sembra sia una precisa scelta, quella della autogiustificzione, sua o dello staff che lo circonda. Tranne poi, al limite del surreale, a chi lo interroga sulla salute, sentirlo rispondere quasi seccato per la domanda inopportuna: “Non ho voglia di parlare dei miei infortuni”. Sarà.
Io preferisco ricordare un vecchio signore sulla quarantina che somigliava ai gladiatori nell'arena. Mica uno qualsiasi, aveva vinto slam, inanellato record di tornei vinti e settimane al numero uno al mondo. Nel 1991, a 39anni, sul centrale di New York giocò due battaglie di cinque ore, e un'altra di 4. Alla fine di ogni partita rischiava di rimanere piantato sulla sedia, con la schiena a pezzi. Due fisioterapisti lo conducevano a braccia, lungo le scale degli spogliatoi. Ma durante la partita nessuno se ne accorgeva. 24 ore steso nel letto, e poi era pronto per un'altra battaglia. A quasi quarant'anni, dopo 23 spesi a combattere sui campi, non richiedeva stop, non faceva pesare a tutti il suo fisico logoro e in frantumi, tenuto assieme da un sortilegio che somigliava ad una magia. Era Jimmy Connors l'immortale, e trascinava il pubblico al delirio più totale. “Io sono qui a spaccarmi il culo a 39 anni, e tu fai quell'over rule?” ruggiva verso l'arbitro. “It's very clear”. Rispondeva quello. “It's very clear my butt!”. Chiosava Jimbo.






La magia dell'impossibile (il punto più bello della storia del tennis)


venerdì 11 settembre 2009

US Open 2009 - undicesima giornata - Cilic, l'Ivanisevic al contrario






Marian Cilic, a guardarlo, pare un triste suonatore di fado, in riva al mare, col tramonto che cala inesorabile e malinconico. Pensa a quale infimo senso possa avere la vita, e continua tra quelle note mortali. L'espressione cupa, i movimenti placidi da slavo atipico. Due giorni prima, aveva irriso il fine piano strategico del Napoleone di Scozia coi canini aguzzi, Andy Murray, apprendista campione. Lo aveva fatto saltare a suon di accelerazioni di dritto e servizi. Quasi irriso quell'altro, che vagava come un allocco con le piume bagnate, schiavo del suo stesso tennis alla ketamina. Andy monologava impotente, guardando gli spettri danzanti della sua stessa immagine, sollevava la coppa di uno slam al cielo e si puliva il culo con la mail della regina. Poi s'è svegliato ed aveva già perso. Marian è stato bravo a non farsi ingabbiare, a lui che è già un gibbone dormiente, il tennis soporifero degli strateghi scorre via sulla pelle.
Qualche impasticcato in crisi d'astinenza, ha visto in quel croato indolente nato nei nei paraggi di Medjugorje, l'erede tennistico di Goran Ivanisevic, indomabile cavallo pazzo di razza purissima, che sul calare di una carriera fatta di alti e bassi, bordate e amnesie, servizi e crisi di nervi, riuscì nell'impresa di afferrare la coppa di Wimbledon nel 2001, dopo averla sfiorata in finale altre quattro volte. Goran era mancino, Marian è destro. Il primo aveva l'aria da guascone smilzo, con negli occhi frenetici i chiari segni dell'inquietudine mentale. Una follia che l'afferavi con mano, lì-li per espoldere. E puntuale, fuoriusciva implacabile, sotto forma di una sfuriata verso se stesso e il mondo intero, a condire una sconfitta. Marian con la sua bella maglietta a quadri sulla pelle scura, i capelli arruffati, gli occhi vagamente storti e le sopracciglia folte ed unite, ha l'espressione del gigante buono dei cartoni animati. L'uomo più calmo ed inoffensivo del mondo, e quando esulta si traveste da paradosso vivente.
Cosa potranno avere in comune un talentuoso istrione schizoide, ed un timido ragazzo di buon talento? Forse l'impostazione di gioco ed i fondamentali, ma forse. Goran aveva il miglior servizio del circuito, forse il più insidioso della storia del tennis, e possedeva accelerazioni tanto incostanti, quanto devastanti, ad aggredire con ferocia brutale la rete. Anche Marian serve benissimo, colpisce duro col dritto, con una gradevole completezza di colpi, che raramente riesce a mostrare per una partita intera. Per il resto che rimane? Sono entrambi croati.
Dopo l'impresa con Murray quindi, il ventenne nato dove ogni tanto la madonna sorridente compare a salutare ed ammonire i pastorelli, era atteso alla prova del nove col temibile bombardiere di Tandil, Juan Martin Del Potro. E per un set e mezzo, il gigante buono prova a fare la stessa cosa, una demolizione paciosa. Alterna gran servizi, rovesci in slice coi rimbalzi bassi che mandano al manicomio l'allampanato argentino, per poi sfoderare dritti anomali poderosi, puntuali chiusure a rete. Visto così, sembra davvero un campioncino, Cilic. Ma poi, come accade spesso, finisce la benzina mentale. L'altro, che non è Murray, comincia a colpire duro sulla ferita. Il dinoccolato pistolero in canotta, mette in piazza tutto il repertorio furente, dritti che viaggiano come saette, gran servizi, e rovesci bimani di gran naturalezza. Marian, avanti 6-4 3-1, raccoglie tre games nel resto della partita. E torna ad ascoltare il fado in riva al mare.

giovedì 10 settembre 2009

Us Open 2009 - decima giornata - L'altro Belgio di Yanina Wickmayer




Patrick McEnroe, fratello minore di John (ogni famiglia ha il suo Peppe Baresi), intervistava il giovane fenomeno belga Yanina Wickmayer. E quella, con i boccoli biondi disciolti e carnagione lettea di chi è nata nelle ridenti terre del Belgio, parla come una cantilena monocorde. Un'adolescente timida ed imbarazzata, con un filo di malinconia negli occhi grandi, quasi alle prese con una fiaba inaspettata. Niente a che vedere con la guerrigliera amazzone di un metro e ottantacinque, che poco prima aveva demolito la roncola un filo più giudiziosa dell'ucraina Kateryna Bondarenko, centrando la prima semifinale della sua carriera. Fisico slanciato, spalle da nuotatrice ed abbigliamento da giocatrice di volley, devastanti fondamentali da fondo, tirati sempre e comunque al massimo e ad occhi chiusi. Una giocatrice poderosa e rudimentale, senza un minimo di tattica, dal tocco inesistente, e che nei pressi della rete, si avventa ad una volè, come volesse abbattere una quercia secolare con una enorme accetta. Poco male, ha diciannove anni, se qualcuno le insegnerà qualche schema di gioco, a non tirare ogni colpo quasi fosse l'ultimo della vita, e come ci si approccia ad una volè artigianale (almeno versione agricola, ma funzionale), potrebbe diventare l'incubo di molte. Rimane la storia triste di questa ragazza, che dopo aver perso la mamma a nove anni, è portata negli Usa dal padre, che ne asseconda il sogno di diventare una campionessa. E potrebbe anche riuscirci. Il carattere non deve mancarle di certo.
Finisce all'alba il sogno della piccola Melanie Oudin. La diciassettenne nativa di Marietta, pare aver esaurito riserve fisiche e mentali nelle battaglie con Dementieva, Sharapova e Petrova. Più fresca, ed abituata a gestire energie, Caroline Wozniaki, bambolina di cera polacco-danese, del filone veline-bionde non urlatrici. La danese non è certo anziana, coi suoi diciannove anni, ma tira dritto, con un giochino regolare, senza picchi o clamori. E' gradevole esteticamente, le hanno messo una racchetta in mano, e non tira ed esulta come stesse per sgozzare il nemico di guerra. Nella situazione attuale, una delle meno fastidiose. Fosse anche una tennista, chi lo sa. La giovin Melania dagli occhi furbi, si arrende in due set, provando a tirar fuori le ultime energie rimaste, ma rimane la sorpresa più piacevole del torneo femminile. Gioca molto bene, ha un dritto gradevolissimo e con un timing strepitoso. Rischia con coraggio da tigrotto e con quella attitudine e maturità nell'affrontare i match, la rivederemo prestissimo ad alti livelli.
Forniscono sprazzi di tennis intenso Novak Djokovic e Nando Verdasco. Il torello spagnolo, con le sue esasperate angolazioni mancine al fulmicotone, è il prototipo di giocatore che avrebbe potuto mandare in tilt la centralina (non certo iper attiva) del serbo. Ma qualche folle continua a decantare la storia della differenza tra idea e azione. I due sono vestiti come due barattoli di senape impazzita, annessa chiazza leopardata, da attempata entreineuse d'alto borgo, portata con disinvoltuta dal machetto spagnolo. La partita è davvero gradevole, Nando gioca momenti da autentico virgulto esaltato della racchetta, braccio velocissimo, accelerazioni mancine a trovare angoli folli, anticipi che paiono saette infocate, volè gradevoli e puntigliose. Novak, obbedendo al credo del nuovo coach Todd Martin, si getta a rete più del solito. Spesso coprendosi di ridicolo, partorendo obbrobri da chiamare gli artificieri, al limite del reato di indecenza. Non ha l'elasticità da portiere, o un briciolo di tocco per giocare di volo. Non è colpa sua, occorrerebbe un fine lavoro di cesello per limare quel manone angolare.
L'iberico mette in grosso imbarazzo il serbo, svelandone i limiti di lentezza e spostamenti laterali. Ma è solo scena. Con temperamento e agonismo fatuo, cerca di mascherare la sua chiara sindrome di sudditanza verso i più forti. “Anvedi come perde Nando”, si spegna nei momenti importanti. Come tutti i giocatori che non diventeranno mai grandissimi, gli manca il salto di qualità. Forse lo avrebbe fatto vincendo la fantastica semifinale di cinque ore contro Nadal in Australia, invece persa al tiebreak del quinto. Mentalmente gli manca anche qualcosa. Del resto, uno che ha avuto il coraggio di impalmare una serbiatta, che nei momenti di maggior ardore e passione presumibilmente roteava i pugni al cielo strillando “Ajde! Ajde!”, un po' ne deve risentire per forza.
Quando in preda a trance agonistica domina il secondo set, con Djokovic in grande affanno, pensi che lo spagnolo debba spingere ed infierire all'inizio del terzo. Invece spreca una miriade di palle break, e consente al serbo di rientrare. E non può che perdere, fedele al soprannome che gli ho dato, “Anvedi come perde nando”. Con tanto affetto, perchè rimane uno dei tennisti più divertenti in circolazione, e di quelli che sanno tenere meglio la racchetta in mano. Non a caso è tra “i dischi caldi” della mia scuderia di protetti, da un paio d'anni, senza mai riuscire a fare il balzo nemmeno in quella. Djokovic, lungi dall'esaltarmi (non ci riuscirebbe nemmeno vincesse 36 slam e scendesse in campo travestito da topo Gigio), si guadagna la semifinale con Roger Federer, che per l'ennesima volta doma un altro tarantolato scenicamente perdente, Robin Soderling, raggiungendo la ventiduesima semifinale di fila in uno slam. Sticazzi, mi verrebbe da dire, per fare una annotazione tecnica.

mercoledì 9 settembre 2009

Us Open 2009 - nona giornata - Una pantera nera nella notte, interrompe il sogno di Flavia




Sostavo davanti all'edicola, ieri, dando una furtiva occhiata ai giornali. Prima che il solerte giornalaio intervenisse con un energico “che le do?”, ed andassi via, con gran classe, ho fatto in tempo a scorgere titoli gustosi assai. Tipo, “Pennetta-Williams, il talento dell'italiana contro la sola forza bruta dell'americana”. Mi avvio, badando poco allo sguardo dell'edicolante, che mi comunica il classico ed inequivocabile: “ma 'sti cenciosi che leggono a ufo...nemmeno un euro vonno spende.”, e penso a chissà quali mirabilie in quell'articolo, presumibilmente scritto da un ex figlio della lupa ottantenne, col drappo tricolore in mano. Ieri Flavia, dopo un magnifico torneo, aveva un compito arduo contro la più giovane delle Williams, Serena. E lo si è capito subito, con i tre aces intimidatori, sparati dal Tyson in gonnella nei primi due turni. In un completo nero, con leggere venature fuxia, Serena incute ancora maggiore soggezione. Una pantera nera affamata, che si aggira nella notte per New York, con gli occhi iniettati d'odio.
Eppure la ragazza brindisina regge, rimane agganciata fino al 4-4, rintuzzando le mattonellate furiose che le piovevano da ogni lato. Ma alla prima leggera incertezza, condita da un doppio fallo, la pantera con muscoli massicci color dell'ebano, che luccicano sotto i riflettori, non perdona. E caccia un urlo da rimanere impietriti. Non so se l'ha scritto o detto da qualche parte Rino Tommasi, ma penso di si, “era un incontro tra un peso massimo eccezionale, ed un ottimo peso medio”. Troppo forte, a tratti devastante l'americana, che alle solite mattonelle di un quintale, abbina persino una soprendente mobilità negli spostamenti. Figli delle lupa malati di mente a parte, si sono visti gli attuali reali valori delle due. E forse, con un tabellone meno insidioso, la semifinale era alla portata della nostra. Coi miglioramenti palesati, la bella velina bruna è diventata un'ottima tennista da top ten, e nel torneo ha dimostrato di valere le prime cinque. Soprattutto in un periodo senza fenomeni (pantere assassine a parte) e in cui il numero uno è Dinara Safina (a proposito, la immagino a casa, con gli occhioni tristi e smarriti da Bamby che somiglia a Dumbo). Ora Tyson Serena trova mamma Kim Cijsters in semifinale, e che ha regolato le sfuriate e gli impressionanti errori gratuiti in serie della cinese Na Li.
Ma è stata anche la giornata delle sorprese. Andy Murray, il nuovo antagonista della monarchia, s'arrende in tre set al sorprendente Marian Cilic. Il talentuoso e dormiente gibbone croato dall'aria triste, ed incostante come pochi, trova una giornata perfetta, ed investe a suon di servizie e dritti vincenti, il dissennato tennis esclusivamente difensivo di Murray. Esaltazione e meriti del croato a parte, lascia sempre più perplessi e fa rabbia, lo scozzese, che fallisce l'ennesimo assalto ad uno slam. Non ha il colpo definitivo, ma potrebbe sopperire con una bellissima varietà di soluzioni, che non ha eguali nel circuito. Purtoppo se ne dimentica, come si dimentica della rete. Per quanto bravi a difendere, in un torneo dello slam, prima o poi lo trovi qualcuno che fa la partita della vita. Una vera involuzione di quello che due anni fa sembrava possedere la stessa indolenza dormiente e le variazioni improvvise del gattone Mecir. Ora è rimasta solo l'indolenza, ed un tennis alla ketamina, i cui effetti troppo spesso, si riversano su se stesso. Il tutto condito da una spruzzata di boria, e la mamma ultrà che si agita in tribuna. E così Napoleone, tattico raffinato, conoscerà sempre una Waterloo, prima o poi. Non tutti sono immortali come l'adorato premier. Juan Martin Del Potro, dopo aver regolato Ferrero, ora si ritrova Cilic, col dubbio che il croato torni a sonnecchiare sul ramo, o prosegua nella sua esplosione definitiva.
Il match più interessante del torneo fino ad ora, lo giocavano Jo Tsonga e Fernando Gonzalez. “Mohammed Alì” contro “Mano de piedra”. Bastano i soprannomi dei due, per fornire un quadro di quella che sarà una battaglia tremenda ed affascinante. Si scagliano massi di cemento a velocità marziane. Meteoriti impressionanti di dritto. Il cileno ha maggiore esperienza, Alì-Tsonga anche una meravigliosa attitudine da esplosivo giocatore di rete. E infatti, sembra aver studiato bene, attacca la rete con maggiore frequenza del solito, esaspera al limite l'uno-due servizio dritto, per precedere la roncola medesima dell'avversario. Il risultato, rivestito di un sottile paradosso, ma anche no, è che alla fine la spunta la maggiore esperienza di mano de piedra. Devastante col dritto ignorante, ma fantastico anche col rovescio, in quello che dovrebbe essere il suo colpo peggiore, ma che tanti pregherebbero notte e giorno la madonna di Fatima, per avere. Variazioni di rovescio, talvolta bloccato, altre a rimandare all'avversario infide palle basse, difficili da aggredire. Nella notte, quando dormivo e probabilmente sognavo di girare un delicato film erotico-surreale con Juliette Binoche, Rafael Nadal vince in quattro set, dopo aver perso il primo, contro il dinoccolato e sgraziato Monfils. Tocca fidarsi.

martedì 8 settembre 2009

Us Open 2009 - ottava giornata - qualche pronostico per la nona



Una ottava giornata meno interessante di una serata con Rocco Buttiglione che ti parla di gnoseologia e diritto alla vita, facendo le labbra tumide. Non conoscendo Rocco, ho optato per altre vie. Non sto qui certo a dirvele.
Roger Federer deve aver riflettuto a lungo se conveniva giocare col braccio sinistro legato dietro la schiena e con le scarpe piombate, giusto per rendere più proficuo l'allenamento con Tommy Robredo. Qualcuno gli ha addirittura proposto di spedire in campo Mirka, già snella e in splendida forma dopo il parto gemellare, mentre lui se ne stava a casa in vestaglia di seta, abituandosi maggiormente alla battaglia, dando il biberon alle figliolette. Il monarca alla fine gioca, e va avanti senza sporcare con una stilla di rarefatto sudore, la bellissima maglietta rosso-nera (giusto per dire qualcosa di tecnico).
Robin Soderling e Davydenko si giocano un posto nei quarti, per ricevere l'ennesima lezioncina svizzera. Normale non siano troppo entusiasti all'idea dell'imminente esecuzione sommaria. Alla fine vince il tarantolato svedese con gli occhi a palla, per ritiro del draculesco russo. Causa colpo della strega, o un alitar di vento troppo forte per le sue gracili ossa. A tutt'ora, non lo so. Finisce il bel torneo del Karlovic a stelle e strisce Isner, spedito a casa da Nando Verdasco. Il pivot americano è uno che si potrebbe anche guardare, se giocasse solo con la seconda palla di servizio. Nando ora attende Djokovic nei quarti, che nella notte ha spazzolato via il satrapo saettante Stepanek. Gioiose voleettine che si schiantano contro un virulento tornado con la scucchia.
Melanie Oudin alla grandi manovre russe. Non è un filmetto con Edwige Feneche e Lino banfi, ma sottolinea come la giovinetta americana provi l'ennesima impresa, contro l'ennesima russa. I suoi frenetici destini sono nelle poco rassicuranti manine di questo donnino qui. Tutta bardata di fuxia, annessa panciera d'ordinanza, Nadia prende a pallate l'improvvida ragazzina. La russa danza sul campo, lieve come un vellutato petalo di rosa, leggiadra come una tortorella di 94 kili. Ma siccome la saga della terribilissima biondina non ancora diciottenne, somiglia sempre più a quella di Rocky, Melanie riesce nell'ennesima impresa. Recupera l'1-6 iniziale e chiude 7-6 6-3. Dopo Pavlyuchenkova, Dementieva, Sharapova e Petrova, non vuol proprio sentirne di abbandonare il sogno che sta vivendo. Ed il suo magnifico dritto, la faccia impertinente e l'atteggiamento da navigata combattente, sono tra le cose più belle di questo poverissimo torneo. Ora trova la bambolina di cera danese-polacca, Caroline Wozniacki, che riesce a domare dopo gran battaglia, le virili sfuriate a suon di badile, di Svetlana Kuznetsova, sempre composta e non fastidiosa, malgrado il bel visino da lanciatrice del giavellotto anni 80, con la barba sempre ben rasata. Vincono anche la giovane forzuta Wickmayer e Kateryna Bondarenko, appaiandosi in un quarto di estrema pochezza tecnica.


Per qualche non abbiente che vuole comprarsi la ruota di un suv, azzardo qualche pronostico per i quarti donne:


Wickmayer-Bondarenko: 2 (forse per la maggiore esperienza dell'ucraina a livelli medio alti.).
Oudin-Wozniacki: 1 (oramai il trottolino americano ha dimostrato che tensione ed appagamento sono parole che non conosce. Quindi, la vedo ancora leggermete favorita sulla danesina. Due set a uno).
Clijsters-Na Li: 1 (ma potrebbe anche non essere una passeggiata di salute. La belga, da due anni non ha l'abitudine a giocare partite in serie, e la cinese ha un gradevole e fluido gioco senza rotazioni, quasi in controbalzo.).
Serena Williams-Pennetta 1 (Lo impone classifica, sensazioni e scaramanzia. Se Flavia serve bene, non si fa aggredire troppo dalla furia americana, può lottare.).

Ottavi maschili (quelli che rimangono).


Murray-Cilic 1 (facile, una passeggiata in bicicletta per lo scozzese, godendo di una fresca brezza settembrina).
Del Potro-Ferrero 1 (facile, ma proprio facile. Annessa violenta lezioncina. L'iberico non sa nemmeno lui come si trova lì. Tra suicidi ed infortuni altrui.)
Tsonga- Gonzalez 1 (gran bella partita, tra randellate furiose dritto per dritto, ed inaspettati colpi di fioretto. Prendo il francese, in quattro set. Ma Gonzo è uno che non vorrei mai ritrovarmi di fronte in un vicolo, di notte.).
Nadal-Monfils 2 (mi giocherei la gran sorpresa. Giusto se si vuole vincere una somma decente. Il dinoccolato francese, se riesce a fare il muro di gomma come al solito, può far venire fuori tutte gli attuali tormenti e limiti fisici dell'iberico).

Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.