

La partita più bella degli ultimi duecentotrenta anni, o l'esemplificazione della teoria dell'autodistruzione involontaria, applicata al tennis. Bangkok, tra atmosfere speziate e temperature soffocanti, era il proscenio giusto. Esotico, nascosto ma non troppo. Marat Safin, il primo caso di campione per caso, quasi costretto e ingabbiato da un talento maledetto. Uno che nella vita poteva fare tutto, probabilmente anche vagare su bighe thailandesi, sventolato da due schiavetti gnomi. Di fronte a lui Philipp Petzschner, surreale pittore imprestato al tennis, per regalarci quadri di disarmante bellezza, o volgari scarabocchi. Sempre in bilico tra il capolavoro e l'abominio. Che cammina indifferente su quel filo invisibile che li separa. Storie di eclissi a confronto. Il gigante russo simile ad un abbagliante sole iracondo, vinse un paio di slam con indolenza, in mezzo ad intermittenze violente, scazzottate notturne esibite sul campo e celebrate con orgoglio impettito: “E' stata una bella lotta, ma ho vinto io.”. Ed il Picasso lunare, con la faccia aggrovigliata, i tratti spaventosi e pasticciati, che uno slam invece non lo vincerà mai, finché non costruiranno campi rarefatti sulla luna ed i tennisti avranno un'ampolla e delle antennine panoramiche in testa.
Il russo che a ventinove anni si sente stanco e vecchio per quel volgare divertissement chiamato tennis, dato in pasto al popolino annaspante e disperato. E il tedesco che a venticinque vuole provare a fare il mestiere del tennista, di quelli strani che vincono persino qualche partita, e si ostina a non accettare un destino da apprendista venditore di lampadine fulminate. Un dispetto irridente alle divinità che lo baciarono, di fronte a un pasticcio divino inestricabile. Il ricordo di una fluida potenza cristallina come acqua di cascate impetuose, opposto al vellutato gioco di fioretto estroso, come tanti sprazzi geniali. E la finisco qui. Intendiamoci, sullo stesso campo. Gelido o scottante.
Tempo addietro ebbi la ventura di essere assunto tre mesi (senza proroghe), come efficientissimo selezionatore del personale. Per assolvere quel compito di grande responsabilità mi impartirono degli erudimenti di psicologia sommaria. Qualcosa in più delle verità nascoste nei baci perugina. Oggi come non mai, rifletto su quanto inutili furono quelle ore di approfondimento. Ore ed ore di ciance incomprensibili, impartite da un tizio attempato, simile a uno strizzacervelli uscito da una puntata di Porta a Porta sul delitto di Cogne. Definizioni e lucidi a go-go, quando avrebbe reso tutto più agevole, proiettando l'incontro Safin-Petzschner, con un semplice sottotitolo: “Quel mistero buffo ed insondabile chiamato mente.”
Si comincia, e Marat ha la faccia di chi sta concedendo qualcosa per pietà, nell'ultima fase di una carriera da scenico tennista-wrestler. Quei due smidollati che ancora speravano a una violenta fiammata di antichi fasti negli ultimi slam, sono rimasti delusi. Rimangono quattro o cinque tornei, più o meno importanti, simili a fiammelle di una pazzia rassegnata. Picasso prende a sgambettare, tutto storto e col passo palmato, dentro la sua bella maglietta della salute accollata, mutandoni larghi e i proverbiali calzini neri. Nello sguardo la fissità tipica di chi ha in mente grandi cose, o il niente assoluto. Immensità misconosciute agli umani, o una distesa di margherite selvatiche scosse da una brezza di nulla.
E il match non tradisce le attese. Si palpa lo stesso agonismo di un tresette all'ultimo sangue tra due due indomite vecchine. Comincia Marat in versione sfiammeggiante e poderosa, lo stesso visto nel primo set a Flushing Meadows contro Melzer. E si che Petzschner è più forte di Melzer. Tutti sono più forti di Melzer. Ormai Marat regge mentalmente la pressione sportiva solo per trenta minuti, questa sensazione s'insinua lenta. E infatti mezz'ora basta a un russo ispirato, per dominare il palcoscenico, accompagnato da stiduli gridolini orientaleggianti. Picasso deambula impotente e spaesato. Non sa cosa fare, come arginare il tornado. Lui che ha già una tempesta di vento ad avvolgergli cervello. Sbaglia tutto, e quando il ricamino gli riesce, Marat lo spazzola come polvere petulante: 6-2 in carrozza, o sulla biga. Con nerbate possenti sul povero pittore-imbianchino, versione schiavetto trottante. Tutto troppo semplice e lineare. Ma non può certo essere una partita “normale”. E infatti, puntuale come un orologio svizzero, Marat s'annebbia, s'incarta. Comincia a gonfiarsi la vena della follia iraconda, negli ultimi tempi trasformata in vena della rassegnazione. Il segnale lampante è il servizio che non entra più, e i volatoni in controbalzo che muoiono tristemente schizoidi a rete. E lui ottuso, sparacchia velocemente bombarde a vanvera, come a gettare via tutto. Picasso spalanca gli occhi orrendi, si rianima, si agita tutto come un serpentello alterato. Comincia a mettere dentro qualche goduriosa saetta pennellata delle sue, smorzate candide. Inizia ad esaltarsi e saltellare come un crotalo danzante, e vince il secondo 6-3.
Niente di strano, l'inerzia della partita che cambia. Succede. Ma non può certo finire così. Picasso è un satellite in perenne cortocircuito. Ritorna uno spiritello con lo sguardo morto. L'espressione assente a se stesso di chi si strugge domandandosi chi diavolo lo abbia calamitato sul campo. Spara qualche doppio fallo, scentra dritti in piccionaia e s'avvia rapidamente nei paraggi delle sue galassie sconclusionate. E Marat che non chiedeva molto altro che una doccia refrigerante, si ritrova avanti 4-1 in un baleno. Lo guardi un attimo, e capisci come probabilmente non sappia nemmeno il risultato. Che gli importa. Ebbene, nella sua carriera è successo anche quello: aver vinto una partita senza accorgersene, con l'arbitro che gli ripete "gioco-partita-incontro Safin". E lui, “toh, ma sono io Safin!”. Ora spara gancioni ad occhi chiusi e mente spenta, e rovesci fluidi che non fai in tempo nemmeno a veder partire. Investono inesorabilmente il pittore, in versione pupazzetto delle giostre. E il russo proprio non può fare a meno di vincere, chiudendo 6-2 3-6 6-1.
Ci voleva il Picasso scasso versione Babbo Natale. Solo qualche giorno fa, per un altro scherzo del sorteggio, un altro suo suicidio aveva rianimato la stellina in disarmo di Richard Gasquet. Petzschner nuovo missionario svitato d'autunno, benefattore di menti disagiate. Avrà trovato uno scopo nella vita. Marat Safin, che nell'anno di commiato ha regalato vittorie ai più turpi personaggi del circuito, lo guarda con vaga commiserazione. Quasi sorpreso di una vittoria se non involontaria, almeno imprevista, saluta il pubblico strepitante. Progetta la nottata e sembra chiedersi: “E adesso, invece di due giorni in spiaggia, mi fanno pure giocare il secondo turno? E' obbligatorio?”. Picasso non ne combina una buona, e sgambetta via. Pronto ad una serata danzante sulle note de “La bella addormentata” di Tchaikovsky, dopo aver raccolto cannolicchi selvatici nelle risaie thailandesi.
Il russo che a ventinove anni si sente stanco e vecchio per quel volgare divertissement chiamato tennis, dato in pasto al popolino annaspante e disperato. E il tedesco che a venticinque vuole provare a fare il mestiere del tennista, di quelli strani che vincono persino qualche partita, e si ostina a non accettare un destino da apprendista venditore di lampadine fulminate. Un dispetto irridente alle divinità che lo baciarono, di fronte a un pasticcio divino inestricabile. Il ricordo di una fluida potenza cristallina come acqua di cascate impetuose, opposto al vellutato gioco di fioretto estroso, come tanti sprazzi geniali. E la finisco qui. Intendiamoci, sullo stesso campo. Gelido o scottante.
Tempo addietro ebbi la ventura di essere assunto tre mesi (senza proroghe), come efficientissimo selezionatore del personale. Per assolvere quel compito di grande responsabilità mi impartirono degli erudimenti di psicologia sommaria. Qualcosa in più delle verità nascoste nei baci perugina. Oggi come non mai, rifletto su quanto inutili furono quelle ore di approfondimento. Ore ed ore di ciance incomprensibili, impartite da un tizio attempato, simile a uno strizzacervelli uscito da una puntata di Porta a Porta sul delitto di Cogne. Definizioni e lucidi a go-go, quando avrebbe reso tutto più agevole, proiettando l'incontro Safin-Petzschner, con un semplice sottotitolo: “Quel mistero buffo ed insondabile chiamato mente.”
Si comincia, e Marat ha la faccia di chi sta concedendo qualcosa per pietà, nell'ultima fase di una carriera da scenico tennista-wrestler. Quei due smidollati che ancora speravano a una violenta fiammata di antichi fasti negli ultimi slam, sono rimasti delusi. Rimangono quattro o cinque tornei, più o meno importanti, simili a fiammelle di una pazzia rassegnata. Picasso prende a sgambettare, tutto storto e col passo palmato, dentro la sua bella maglietta della salute accollata, mutandoni larghi e i proverbiali calzini neri. Nello sguardo la fissità tipica di chi ha in mente grandi cose, o il niente assoluto. Immensità misconosciute agli umani, o una distesa di margherite selvatiche scosse da una brezza di nulla.
E il match non tradisce le attese. Si palpa lo stesso agonismo di un tresette all'ultimo sangue tra due due indomite vecchine. Comincia Marat in versione sfiammeggiante e poderosa, lo stesso visto nel primo set a Flushing Meadows contro Melzer. E si che Petzschner è più forte di Melzer. Tutti sono più forti di Melzer. Ormai Marat regge mentalmente la pressione sportiva solo per trenta minuti, questa sensazione s'insinua lenta. E infatti mezz'ora basta a un russo ispirato, per dominare il palcoscenico, accompagnato da stiduli gridolini orientaleggianti. Picasso deambula impotente e spaesato. Non sa cosa fare, come arginare il tornado. Lui che ha già una tempesta di vento ad avvolgergli cervello. Sbaglia tutto, e quando il ricamino gli riesce, Marat lo spazzola come polvere petulante: 6-2 in carrozza, o sulla biga. Con nerbate possenti sul povero pittore-imbianchino, versione schiavetto trottante. Tutto troppo semplice e lineare. Ma non può certo essere una partita “normale”. E infatti, puntuale come un orologio svizzero, Marat s'annebbia, s'incarta. Comincia a gonfiarsi la vena della follia iraconda, negli ultimi tempi trasformata in vena della rassegnazione. Il segnale lampante è il servizio che non entra più, e i volatoni in controbalzo che muoiono tristemente schizoidi a rete. E lui ottuso, sparacchia velocemente bombarde a vanvera, come a gettare via tutto. Picasso spalanca gli occhi orrendi, si rianima, si agita tutto come un serpentello alterato. Comincia a mettere dentro qualche goduriosa saetta pennellata delle sue, smorzate candide. Inizia ad esaltarsi e saltellare come un crotalo danzante, e vince il secondo 6-3.
Niente di strano, l'inerzia della partita che cambia. Succede. Ma non può certo finire così. Picasso è un satellite in perenne cortocircuito. Ritorna uno spiritello con lo sguardo morto. L'espressione assente a se stesso di chi si strugge domandandosi chi diavolo lo abbia calamitato sul campo. Spara qualche doppio fallo, scentra dritti in piccionaia e s'avvia rapidamente nei paraggi delle sue galassie sconclusionate. E Marat che non chiedeva molto altro che una doccia refrigerante, si ritrova avanti 4-1 in un baleno. Lo guardi un attimo, e capisci come probabilmente non sappia nemmeno il risultato. Che gli importa. Ebbene, nella sua carriera è successo anche quello: aver vinto una partita senza accorgersene, con l'arbitro che gli ripete "gioco-partita-incontro Safin". E lui, “toh, ma sono io Safin!”. Ora spara gancioni ad occhi chiusi e mente spenta, e rovesci fluidi che non fai in tempo nemmeno a veder partire. Investono inesorabilmente il pittore, in versione pupazzetto delle giostre. E il russo proprio non può fare a meno di vincere, chiudendo 6-2 3-6 6-1.
Ci voleva il Picasso scasso versione Babbo Natale. Solo qualche giorno fa, per un altro scherzo del sorteggio, un altro suo suicidio aveva rianimato la stellina in disarmo di Richard Gasquet. Petzschner nuovo missionario svitato d'autunno, benefattore di menti disagiate. Avrà trovato uno scopo nella vita. Marat Safin, che nell'anno di commiato ha regalato vittorie ai più turpi personaggi del circuito, lo guarda con vaga commiserazione. Quasi sorpreso di una vittoria se non involontaria, almeno imprevista, saluta il pubblico strepitante. Progetta la nottata e sembra chiedersi: “E adesso, invece di due giorni in spiaggia, mi fanno pure giocare il secondo turno? E' obbligatorio?”. Picasso non ne combina una buona, e sgambetta via. Pronto ad una serata danzante sulle note de “La bella addormentata” di Tchaikovsky, dopo aver raccolto cannolicchi selvatici nelle risaie thailandesi.